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Italia unita e prefetti
di Giuseppe Galasso
Nel quadro dell’amministrazione italiana, fin dalla unificazione del 1861 le circoscrizioni fondamentali furono quelle dei Comuni e delle Province. I Comuni formavano gli elementi territoriali e sociali fondamentali, la vera e propria base istituzionale del sistema. Le Province furono identificate, nella massima parte dei casi, nelle divisioni storiche del territorio nazionale, che risalivano, per lo più, al XV o XVI secolo. il rispetto per queste antiche divisioni portò in qualche caso a doppie denominazioni, come fu per Pesaro e Urbino e per Massa e Carrara. È sintomatico, però, che in un non troppo lungo lasso di tempo quelle doppie denominazioni si persero lasciando prevalere quella della città maggiore (salvo, in parte, per Massa e Carrara, che finirono con l’essere considerate, in pratica, come un’unica, unitaria realtà). Ugualmente sintomatico è che abbastanza rapidamente le Province furono denominate dalla loro città-capoluogo, anche là dove – come nell’Italia meridionale – portavano antichi nomi storici (come Terra di Lavoro o di Bari o d’Otranto, o Principato Ulteriore e Citeriore): nuovo indizio del forte fondamento cittadino e urbano della storia italiana.
Le circoscrizioni dei primi anni dell’unità restarono a lungo immutate. Alterazioni di rilievo si ebbero solo col regime fascista, e poi, ancor più, dopo il 1990, quando sono anche riapparse varie denominazioni multiple o territoriali, con un notevole incremento del numero delle Province (come in Puglia e in Piemonte.) Peraltro, l’istituzione delle Regioni ha fondamentalmente cambiato la struttura dello Stato. Proprio le Province sono state l’istituto che più ne ha risentito. È significativo che già prima che nel 1970 le Regioni, la cui istituzione era prevista nella Costituzione della repubblica andata in vigore il 1° gennaio 1948, fossero effettivamente realizzate, già si discutesse della opportunità di sopprimere le Province in quanto rese superflue dal nuovo ordinamento dello Stato. Per la verità, concorreva nel determinare questo orientamento alla soppressione la considerazione della esiguità delle funzioni a cui apparivano consegnate le Province rispetto a quelle di Comuni e Regioni. Peraltro, le difficoltà incontrate dalla proposta di soppressione ancora a oltre quarant’anni dall’entrata in vigore dell’istituto regionale dimostrano che alle Province in quanto istituto si legano tenacemente interessi materiali e morali di una consistenza che non può essere facilmente trascurata o sottovalutata.
Corrispondente alla Provincia è stato fin dall’origine l’istituto della Prefettura. Di fatto il prefetto ha rappresentato il governo in tutte le sue espressioni politiche e amministrative. Con il fascismo questa posizione e condizione di fatto fu istituzionalizzata facendo del prefetto, anche formalmente, il capo di tutta la Pubblica Amministrazione nell’ambito della provincia di sua competenza. Ma, appunto, questa fu, si, una promozione formale dell’istituto prefettizio, rispondente alla concezione gerarchica e tendenzialmente onnicomprensiva che dello Stato e della sua macchina coltivava il fascismo. In realtà, però, sia prima che dopo del fascismo il prefetto agiva come l’uomo di fiducia e il braccio periferico più naturale del governo. Nello stesso tempo, dato il frequente ricambio dei governi in regime parlamentare, accadeva pure che i presidenti del Consiglio dei Ministri e i ministri in carica, nonché gli uomini e i gruppi politici più influenti e determinanti, nonché le influenze di ambienti di varia natura (la Corte, la Massoneria, e così via) giocassero un ruolo decisivo nelle nomine dei prefetti, che così figuravano di frequente e notoriamente come legati a determinati orientamenti o ambienti o parti o uomini politici.
Da questo intreccio di condizioni derivò il luogo particolarmente importante dei prefetti nella vita della nuova Italia. Specialmente nei primi anni dell’unità, ma più volte anche in seguito, la nomina non aveva un iter puramente burocratico, ed era una esplicita scelta politica. In alcune parti del paese ciò fu dettato all’inizio dall’esigenza di controllare e assimilare al nuovo Stato regioni e province, nelle quali le renitenze all’unità erano più o meno forti, e non soltanto perché vi fiorisse la lotta armata del brigantaggio, ma per una serie di altre ragioni politiche, sociali, economiche, culturali o di altro genere. Poi le nomine a prefetto divennero il regolare sbocco di una carriera burocratica, e le eccezioni alla regola si rarefecero, anche se mai del tutto.
La logica della sua posizione metteva perciò il prefetto nella necessità di rapporti molteplici con tutto l’ambiente giudiziario, amministrativo, militare, delle forze dell’ordine, economico, sociale, culturale, politico, religioso, ufficiale e non ufficiale, della provincia, con un compito che nel suo pratico assolvimento richiedeva qualità personali, di preparazione e di esperienza non comuni, e di fatto non facili a reperirsi, ed effettivamente reperite in misura assai varia a seconda dei casi, dei tempi, degli ambienti. La riduzione del prefetto ad agente elettorale del governo e delle forze al potere – così frequente nell’Italia pre-fascista e, sia pure in qualche minore misura anche nell’Italia repubblicana – è, quindi, una semplificazione poco utile alla comprensione storica, e addirittura fattuale, dell’istituto prefettizio. Può dirsi, semmai, che la funzione elettorale, ravvisata in modo così distorto nel prefetto, poteva essere svolta tanto meglio quanto meglio fosse svolta la ben più generale e istituzionale funzione connessa all’istituto prefettizio.
Più difficile è dire se da parte dei prefetti si sia riusciti sempre a trasmettere al governo e al centro politico dello Stato la realtà delle province nelle quali essi agivano, sia quanto a bisogni effettivi, sia quanto allo stato e agli umori dell’opinione pubblica, sia quanto alla condotta delle forze locali, alla loro natura e ai loro reciproci rapporti, sia quanto alla base sociale nei suoi elementi più significativi, da un lato, o meno in grado di esprimersi e di farsi valere, dall’altro lato. Non che una buona o acuta percezione della realtà provinciale sotto questi varii aspetti garantisse, di per sé, ai prefetti che più e meglio la trasmettevano a Roma un ascolto positivo e fecondo. Governi e forze politiche si muovevano sempre, fondamentalmente, sulla linea di governo e di amministrazione loro propria. Il successo o l’efficacia dei punti di vista che, caso per caso, e di volta in volta, potevano pervenire dalle relazioni, dai giudizi o dai suggerimenti o proposte dei prefetti era, quindi, sempre da riportare all’apertura dei centri politici nazionali alle istanze delle periferie, oppure alla capacità effettiva delle forze politiche e sociali delle periferia di farsi ascoltare al centro e di condizionarlo nelle sue scelte: eventualità – il successo o l’ascolto delle spinte, fossero del prefetto o di altri, della periferia – che certo diventava assai più probabile quanto più si poteva fondare su una buona intesa, se non reciproca comprensione, tra il prefetto e le forze locali. Nel corso del tempo è stato sempre un caso, comunque, di gran lunga meno frequente che l’intesa tra prefetto e forze locali prevalesse sul rapporto tra il prefetto e il centro politico; ma il fatto che in non pochi casi anche questo sia accaduto dà una più precisa comprensione di quel che è stato il prefetto nella realtà storica dell’Italia unita.
La sociologia della figura prefettizia è anch’essa significativa. Detto in sintesi, questa figura ebbe la stessa evoluzione che caratterizzò, a tutti i livelli e in ogni settore, la pubblica amministrazione. Vide, cioè, una, per così dire, democratizzazione, della provenienza sociale del ceto prefettizio. Nei primi decennii dell’unità furono frequenti le nomine di aristocratici o di appartenenti a famiglie di rilievo (alta borghesia e grandi professionisti, soprattutto) già affermate da più o meno lungo tempo, per posizione e prestigio sociale. Poi, con progressione lenta, ma costante, la piccola borghesia invase anche questo alto livello della pubblica amministrazione, mentre rimasero molto infrequenti, ma non propriamente rari, i casi di provenienza da varie estrazioni popolari. È, peraltro, possibile osservare che nel caso del ceto prefettizio questo processo, che abbiamo definito di democratizzazione, è stato meno accentuato che per altri livelli della pubblica amministrazione, anche se non altrettanto che nel caso della diplomazia, nella quale, per note ragioni storiche e funzionali, le alte provenienze sociali hanno continuato a rappresentare una costante molto più a lungo che per ogni altro settore della pubblica amministrazione.
La preparazione del prefetto è rimasta a sua volta largamente legata agli studi giuridici. Nei casi sopra accennati di nomine al di fuori dell’ambito burocratico si davano, ovviamente, casi notevoli di tipi di preparazione diversi. Solo in tempi relativamente recenti studi di economia, di scienze politiche, di sociologia, di tecniche delle relazioni e della comunicazione sociale, di tecniche della organizzazione del lavoro, per non parlare, da ultimo, delle tecniche informatiche, hanno cominciato a rientrare, in varia misura (ma sempre sostanzialmente minoritaria) e spesso anche per caso, nella preparazione del prefetto, che è rimasta stabilmente di tipo giuridico, benché altre discipline, e soprattutto (e, per alcuni, quasi soltanto) quelle storiche, senza dubbio, e in misura non trascurabile, vi abbiano concorso. Gli altri versanti dell’attività prefettizia, a cominciare da quelli più rilevanti, ossia il politico e l’amministrativo, sono rimasti affidati essenzialmente al lavoro sul campo, all’esperienza diretta fatta entrando nella pubblica amministrazione e lavorandovi a tutti i livelli prima di accedere a quello prefettizio. L’esperienza, pur tentata, di scuole di pubblica amministrazione non hanno dato, in generale, prove buone e persuasive; e non sono valse a istituire in Italia una tradizione equivalente a quella, giustamente famosa, della Scuola francese in materia.
Tutto ciò è stato ragione di vantaggi e svantaggi nella qualità dell’istituto e del servizio prefettizio in Italia. Esso ha potuto, infatti, e sia in generale che nella media, trarre dall’esperienza diretta e dal lavoro sul campo preziose compensazioni delle particolarità del suo tipo di formazione, anche quando è rimasto ed è apparso, nel confronto con gli omologhi francesi (e fatte salvo, ovviamente, le innumerevoli eccezioni di ieri e di oggi, che sono fin troppo facili da ricordare e citare), meno fortemente caratterizzato sia dal punto di vista, per così dire, tecnico, sia dal punto di vista di una particolare distinzione professionale e culturale.
Il rango di prefetto ha, peraltro, comportato che le mansioni ad esso attribuite si siano svolte e si svolgano anche in sede ministeriale, nello stesso Ministero di appartenenza, ossia quello dell’Interno, o in altri Ministeri o in uffici particolari (commissariati, enti, agenzie, gabinetti di ministri etc.), sia temporanei e occasionali che permanenti. Ai prefetti è stato, ad esempio, molto spesso affidato, e, in lunghi periodi, di norma, l’ufficio di capo della polizia o di commissario del governo nei Comuni il cui Consiglio era stato disciolto per l’uno o per l’altro motivo.
In queste così varie posizioni, e in un corso storico già lungo centocinquant’anni, non si poteva pretendere che i prefetti fossero sempre personalità di rilievo o che la loro attività fosse segnata da un costante successo. Alcune figure prefettizie rimangono nella storia del paese per l’opera svolta nelle prefetture o negli altri uffici nei quali, come si è detto, sono stati prescelti dei prefetti. In numerosi casi il giudizio non poteva essere, e non è stato, positivo. Inoltre, stando anche alle osservazioni che abbiamo svolto, tutto fa pensare che nel futuro dell’istituto prefettizio ci sia molto da rivedere e da costruire. Il futuro è, peraltro, non facile a scrutarsi anche per l’istituto stesso; e non solo perché il punto dell’abolizione delle province non è stato davvero sciolto (la figura del prefetto è servita, come si è detto a molti altri uffici), ma specialmente perché nella mutata struttura regionale dello Stato – della quale non pochi auspicano la trasformazione in una vera e propria struttura federale – rimane ancora da precisare ulteriormente il ruolo del prefetto in base alla nuova ripartizione di competenze e poteri fra Stato e Regioni. In Sicilia vi sono già “province regionali”. In ciascuna Regione vi è un commissario del governo, che è, poi, in pratica il prefetto del capoluogo regionale. In molte strutture periferiche dello Stato (lavori pubblici, ad esempio, beni culturali, scuola) è già in atto un’amministrazione regionale con propri funzionari. Si manterranno alla fine, due strutture pubbliche, la statale e la regionale?
Basta – crediamo – accennare a simili problemi per comprendere quali complessi e ardui nodi di problemi si leghino alla figura del prefetto e alle sue prospettive nel prossimo e meno prossimo futuro. È, comunque, significativo che, in tanto parlare, di riforme o di trasformazioni, la figura del prefetto, discussa per l’ambito provinciale, non lo sia, a quanto pare, per gli altri suoi numerosi e cospicui ruoli. Ed è anche questo, perciò, un punto importante sul quale riflettere.
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