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Asterischi
di Giuseppe Galasso
MONTAGNE – Sorte infelice, quella del post-moderno. Sorto come posizione settoriale, fra artisti e architetti, si era presto allargato ad altri campi, facendo molto rumore specie in filosofia, dove sembrava, una ventina di anni fa, che dovesse segnare chissà quale svolta. Poi, in filosofia quasi non se ne parla più, e ora si dice spesso che è finito. La causa del decesso? Inghiottito dal moderno, di cui predicava il superamento, dicono gli esperti del tema, e, sembra, senza eredità rilevanti. La vicenda appare più interessante per la modernità che per il post-moderno. Questo è stato, in fondo, solo uno dei tanti attacchi alla modernità susseguitisi non si sa più da quando, e neppure il più velenoso. Nel ’900 si giunse a rimpiangere “il mondo che abbiamo perduto”. C’era una volta il mondo pre-moderno fatto di forti certezze di antica sedimentazione quanto a valori morali e comunitari, a relazioni umane e sociali, a scansioni del tempo e delle stagioni, a pratiche produttive e mercantili, a senso della vita e della morte, e a tanti altri fisici e metafisici connotati della realtà e della vita. Eccoci, invece, col moderno, in un mondo dai connotati opposti: relativismo, incertezze, insicurezze e simile compagnia cantante di un vissuto oscillante per lo più tra alienazione e angoscia, ma anche tra altri dilemmi non meno laceranti, senza regole condivise nell’atteggiarsi e comportarsi, e quindi forzatamente portato o alla latitanza morale e sociale o all’esaltazione sfrenata che distrugge se stessa.
Il vecchio mondo ce lo aveva fatto perdere la modernità. La quale, però, già da tempo, mentre veniva esaltata per innumeri ragioni, e soprattutto in nome del progresso, ossia del mito forse più modernizzante d’ogni altro, era stata posta in dubbio e guardata con crescente diffidenza, fino ad apparire tanto equivoca e dannosa da essere spesso condannata e ripudiata. Fu un seguito impressionante. La crisi dell’idea di progresso incubò e partorì la crisi dell’idea e del valore della storia. Il vecchio “tutto scorre”, tutto cambia, si era mutato in una convinto “tutto avanza”, progredisce e migliora. Ma ben presto cominciò il cammino inverso: il mondo va avanti e peggiora. Dall’idea dello stato di natura come condizione perfetta e felice dell’uomo e delle cose si è giunti all’integralismo ecologico e animalista (ora è superato anche lo stadio vegetariano: si predica quello vegetaliano). Il progresso tecnico e scientifico appare letale e inaccettabile per poco che ci allontani dalla naturalità non solo per l’uomo, ma per tutta la realtà.
Questi termini sono volutamente forzati per rendere più evidente e più netto un aspetto eminente del problema, anche se non si può certo dire che tutto da cinque secoli a questa parte si giochi sull’antitesi fra moderno e antimoderno. Tuttavia, in quei termini è senz’altro il nocciolo dei dilemmi che hanno agitato e agitano l’essere e l’esistere dell’uomo nei tempi moderni, pur se molte esperienze dimostrano che la modernità non ha alternative nel suo tempo. E ciò a prescindere da ogni discorso sui valori, sui problemi di biologia e di genetica o di manipolazione estetica o funzionale e sui tanti altri problemi sorti nel frattempo, nonché dalle contraddizioni frequenti e gravi di modernisti e antimodernisti.
È un male? Per nulla. Del resto, ha pure un suo significato quello che si potrebbe definire l’antimodernismo modernizzante, che evoca l’atomo pulito, le pale eoliche (discutibili e discusse per il paesaggio e per altre forme di danno ecologico) e le energie alternative perché solo naturali, e così via. È l’antimodernismo, si può anche dire, di un “progresso senza avventure”, come una volta si diceva di certe idee e strategie politiche. Vuol dire, crediamo, che modernità e progresso non si possono facilmente esorcizzare, ma anche che nell’antimoderno può esservi qualcosa che neppure il moderno può rifiutare. E allora: la logica del progresso (modernità) è limitabile o condizionabile a nostro avviso e facoltà? La via della modernità, una volta intrapresa, può essere altrimenti orientata?
Sono interrogativi moderni. E bisogna convincersi che solo la modernità, che li ha posti, può dare ad essi, risposte, se non persuasive e definitive, almeno plausibili, praticabili e accettabili sia ai fini dell’enorme e irrinunciabile progresso non solo materiale (anche in qualità e gioia del vivere) datoci dalla modernità, sia ai fini del “vivere bene” nell’alto senso morale e civile di questo vivere nel pensiero antico e nel moderno umanesimo.



DUALISMO ITALIANO – In un recente convegno presso il Biogem di Ariano Irpino sulle origini del dualismo italiano mi è accaduto di ricordare come, pur con precedenti più antichi, una divisione dell’Italia in due grandi regioni storiche si produca solo con l’arrivo in Italia dei Longobardi nel 568, che diede davvero luogo a una crescente diversità fra le due aree. Alla fine, fra il Mille e il 1300 il Sud si qualificò per la sua economia agraria, il Nord in senso più manifatturiero, mercantile e finanziario.
Il dualismo non impedì, però, il formarsi di un legame unitario della penisola. La complementarità tra le due Italie stabilì fra loro un rapporto di “scambio ineguale” nel duplice contesto mediterraneo ed europeo. Il “sistema italiano” è stato, ed è, infatti, come un edificio con molte porte e finestre aperte e con tante relazioni con l’esterno influenti anche sui rapporti interni al “sistema”.
Il dualismo comportò una condizione di subalternità del Sud, ma non una sua assenza di attività e di iniziative. Già per svolgere la sua parte subalterna l’area più debole ha dovuto avere attività e iniziative, per cui è potuta stare sul grande mercato con un’offerta interessante. Né basta. Esposto a tutti i venti delle vicende storiche, il dualismo italiano ha avuto fasi alterne di espansione o recessione; e non è neppure il contrasto frontale di due aree omogenee, con tutto il negativo da un lato e il positivo dall’altro, poiché in ciascuna area vi sono zone di assai varia condizione. È, piuttosto, il mobile intreccio di un mosaico policromo bipartito, con una forte prevalenza di toni opposti al Nord e al Sud. Le ragioni del dualismo sono state molteplici. A partire dal primato commerciale che dopo il Mille le città del Nord acquisirono nel Mediterraneo e in Europa. Un tempo si vedeva nella mancata partecipazione meridionale alle Crociate la ragione prima della disparità fra Nord e Sud. L’altra, e prevalente, spiegazione si riferiva all’introduzione nel Sud del regime feudale, a opera dei Normanni, nell’XI e XII secolo, mentre al Nord si affermavano i Comuni.
Nessuna di queste due tesi persuade più. Molte città italiane fiorirono senza partecipare alle Crociate. D’altra parte, pur in un giudizio critico sul feudalesimo nella storia civile del Sud, si è acquisita della realtà feudale meridionale un’idea più complessa, con aspetti anche di promozione, e solo dal Cinque o Seicento in poi di più forte remora sociale. A sua volta, gran parte della società si è adagiata, nel Sud, nelle ampie pieghe del sistema feudale, con una reciproca compenetrazione di interessi, che ha perpetuato mentalità e comportamenti feudali anche dopo la scomparsa del feudalesimo.
Il feudalesimo non è stato, inoltre, protagonista esclusivo. Preminente rispetto alla sua fu, in complesso, la parte della monarchia, che con esso combatté una guerra plurisecolare per il controllo dello Stato e della vita sociale, risoltasi solo nella prima metà del ’500. Allora, però, il successo della monarchia fu pagato, anche nel Sud come in Europa, con una sorta di “compromesso storico”, che alla feudalità conservò un primato sociale e ampi privilegi.
Maggiore fu la parte della monarchia nella storia del Sud per la gestione delle risorse del paese, poiché i suoi bisogni di capitali liquidi la resero sempre più dipendente dalla grande finanza del tempo. Ciò portò a favorire, in cambio delle risorse ottenute, la penetrazione delle potenze mercantili estere nel paese, con privilegi e vantaggi che ne resero più facile e più rapida la conquista del mercato meridionale, già nella logica economica del tempo. Nel ’300 di questa penetrazione furono protagonisti i mercanti toscani; poi, nel ’500 e ’600, i genovesi. Già nel ’400 si diffuse, perciò, il luogo comune per cui si diceva che il paese abbondava di ogni tipo di risorse, ma gli stranieri vi si arricchivano e i meridionali, per la loro infingardaggine, restavano poveri: uno stereotipo durato tenace nei secoli (ma i mercanti sfruttavano, e anche, però, stimolavano l’economia locale).
Col declino post-rinascimentale dell’Italia e quello del Mediterraneo quale mare dei traffici mondiali le cose peggiorarono. Le grandi potenze economiche moderne, francesi e inglesi in testa, soppiantarono gli italiani nel primato euromediterraneo. La complementarità del sistema italiano, pur continuando con minore intensità, venne disarticolata nella subalternità di tutta l’Italia verso i paesi transalpini e si ebbe una sorta di regionalizzazione dell’economia peninsulare.
Ciò vuol dire che tutto il divario accumulato fra le due Italie dal ’300 al ’600 svanì, e che la loro condizione nel 1861 era più o meno la stessa? La ricerca storica fa riconoscere che il dualismo del paese preesiste al 1861, ma che da allora si sono avute condizioni per cui la precedente dualità è diventata la “questione meridionale”. Bisogna, perciò, distinguere fra loro il dualismo di prima e quello di dopo l’unità, senza confonderli e senza tagli chirurgici, salvandone sia la continuità che le novità e le rotture dal 1861 in poi.


MERCATO DEL LAVORO: LA QUESTIONE DELLA QUALITÀ – Solo da poco una preoccupazione di ordine demografico si è fatta strada nei discorsi di politica economica e sociale dell’Italia, e ancor più di recente, specificamente, per il Mezzogiorno.
È accaduto per i problemi che l’invecchiamento e il decrescente incremento naturale della popolazione, con un conseguente, diverso afflusso delle nuove generazioni al lavoro hanno determinato in materia di previdenza sociale. Si registra, come si sa, una proporzione decrescente dei contributi previdenziali dei lavoratori in attività e delle imprese che li impiegano rispetto al monte-pensioni in costante aumento per l’allungarsi della durata media della vita. Con una tale tendenza, le preoccupazioni dei lavoratori per le loro pensioni future o già in percezione sono più che comprensibili, e le stesse istituzioni e le forze politiche hanno dovuto prendere al riguardo posizioni e decisioni, tuttora ancora lontane dall’essere rassicuranti.
Ancor più di recente si è aggiunta a questa la preoccupazione quella relativa alla necessità di alimentare lo sviluppo con leve di lavoratori sempre folte, che il sempre meno attivo movimento naturale della popolazione non garantisce più come in passato. Si aggiunga, poi, che tutti questi problemi si intrecciano con quelli determinati dalla disoccupazione, che ha raggiunto ormai un alto livello stabile, specie per i giovani (sono ormai considerati tali, quanto alla prima occupazione, uomini e donne oltre i trent’anni). E si aggiunga pure che l’insieme di questi problemi è ancor più complicato da un mutamento psicologico-sociale e culturale, per cui molti lavori sono fuori della mentalità e dei comportamenti delle giovani generazioni, e certo non per disdegno del lavoro, e neppure solo per le basse retribuzioni proprie di quasi tutto il mercato del lavoro italiano, bensì per uno sviluppo generale di tutte le società e le aree avanzate.
È nata da tutto ciò il problema dell’immigrazione europea ed extra-europea, che anche nel Mezzogiorno è notevole, benché molto inferiore a quella nel Nord; ed è nata anche la necessità di considerare benefica questa immigrazione, malgrado la disoccupazione italiana e i pregiudizi sempre molto diffusi al riguardo.
Le preoccupazioni per tutto ciò dovrebbero essere molto superiori a quelle attuali, pur già cresciute rispetto a ieri (ma senza ispirare ancora una politica della famiglia adeguata a queste necessità). Ben poco o nulla, invece, si nota, non diciamo di preoccupazione, bensì anche solo di percezione del problema per quanto riguarda le dimensioni non quantitative, ma qualitative del mercato del lavoro in un futuro vicinissimo.
Eppure gli studi agitano già il problema con ricerche e proposte ancora insufficienti, ma già notevoli. Si prevede, tra l’altro, che già nei prossimi anni Venti del nostro secolo (cioè, domani!) il mercato del lavoro richiederà lavoratori con una preparazione tecnico-professionale e culturale alquanto diversa da quella attuale, così come diversi e più differenziati saranno i tipi di attività e di affari che le imprese cureranno; dando una crescente centralità al lavoro intellettuale creativo e a mansioni di flessibilità e responsabilità particolari.
Quali nuove politiche del personale ne seguiranno? Come preparare aziende, dirigenti e lavoratori a questi mutamento, da preveder ancor più profondo di quello, già così cospicuo, degli ultimi venti anni? Quasi nessuno se ne preoccupa (notiamo, però, un convegno di S3Studium a Milano il 25 ottobre su questo tema e sul relativo ruolo delle direzioni del personale dopo una certa perdita della loro centralità fino a qualche decennio fa). E, perciò, se invece di proseguire attardate (e costosissime) attività di formazione, prendessimo nella dovuta considerazione i problemi qui accennati, il beneficio sarebbe indubbio. E in specie nel Mezzogiorno, mettendo i suoi innumerevoli giovani disoccupati in condizione di non dovere forzatamente emigrare o, almeno, di emigrare il meglio attrezzati che sia possibile per le esigenze di una società avanzata, in cui non fare la figura degli ultimi della classe.


LA QUESTIONE DELLE PROVINCE – La soppressione delle Province come articolazione territoriale dell’ordinamento italiano fu un cavallo di battaglia di Ugo La Malfa negli anni in cui si discuteva di attuare la norma costituzionale per le Regioni a statuto ordinario, che furono avviate nel 1970.
Per La Malfa – che seguiva un secolare orientamento del Partito Repubblicano di Mazzini e di Cattaneo – l’attuazione dell’istituto regionale invalidava alla base il fondamento dell’articolazione amministrativa del territorio in Province. Le Regioni avrebbero potuto e dovuto fornire da allora in poi quel termine medio fra il Comune e l’amministrazione centrale dello Stato, cui da sempre provvedeva la Provincia. Era una questione di razionalizzazione della Pubblica Amministrazione e del rapporto fra cittadino e Stato. Per La Malfa contava, però, ancora di più che la soppressione delle Province rappresentasse un grande risparmio nel bilancio dello Stato. Snellimento della sempre verdeggiante foresta amministrativa e dimagrimento non trascurabile della spesa pubblica erano, perciò, elementi ugualmente forti nell’attrarre La Malfa.
Fu una battaglia del tutto perduta, sia perché nella classe politica si è sempre legati all’esistente più di quanto si pensi (e così è anche oggi), sia per varie altre, e non tutte cattive, ragioni. Ora il tema è stato ripreso, ma solo in termini di taglio della spesa pubblica. La dimensione istituzionale, cara a La Malfa, sembra assente.
La visione solo finanziaria non è, però, corretta. A contraddistinguere le Province intervenivano anche altri fattori. L’istituzione di una prefettura e di altri uffici dello Stato in una certa zona costituiva, infatti, un forte fattore di promozione urbana e di intensificazione della locale vita civile. In un paese come il Mezzogirono in cui la città ha sempre avuto una vita non rigogliosa e più dipendente che ordinatrice e direttiva del territorio, la Provincia (anche le Sottoprefetture, a loro tempo) dava o poteva dare impulsi che a livello locale stentavano a delinearsi. Del resto, il rapporto fra sviluppo della Pubblica Amministrazione e sviluppo della società locale è un rapporto ben noto agli storici dell’età moderna.
Non si trattava, quindi, soltanto di ambizioni e orgogli campanilistici e burocratici. Ma oggi è ancora così? Diremmo di no. I fattori non pubblici e non amministrativi dello sviluppo territoriale sono oggi di gran lunga prevalenti. Anche per la costituzione di termini medi fra Stato e Comuni, sempre opportuni, si può oggi disporre di una serie di istanze nuove o rinnovate, come consorzi di comuni, comunità montane, città metropolitane etc. Anche se questa molteplicità è sfruttata solo in parte (salvo che per le comunità montane) o, addirittura, non è ancora regolata (come per la città metropolitana), si tratta pur sempre di quadro molto più articolato di una volta, con effetti anche sullo spazio istituzionale delle Province. Delle quali quel che oggi soprattutto sembra sopravvivere è il motivo di identità territoriale storica che le Province hanno sempre rappresentato, e che certo nel Sud è stato più forte che in altre parti d’Italia. Ma davvero questo motivo sopravvive? A sentire le rivendicazioni di certe zone rispetto al loro capoluogo provinciale non pare affatto così.
Insomma, sulla questione delle Province anche dal punto di vista del Sud non sembrano esservi molti dubbi. Qualche bello spirito pensa pure che si possano sopprimere le Province e rimpicciolire le Regioni, che così aumenterebbero di numero, ma, si dice, attenuerebbero l’impatto psico-sociale di quella soppressione. Un rimedio, davvero, peggiore del male. Si affronti, invece, il problema vero: ossia la necessità di superare vecchie e fossilizzate identità territoriali e di costruire identità nuove legate all’esperienza e alla creatività del tempo di oggi. Un tempo che, tra globalizzazione e sviluppo, impone ovunque vestiti diversi da quelli di un passato più o meno remoto, e, nel caso del Sud, già messo in crisi radicale dal non aver accompagnato in modi e misure efficaci il passaggio a una piena modernizzazione.
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