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Il dopo referendum
di G. G.
La conclusione del referendum confermativo delle modifiche apportate alla seconda parte della Costituzione dalla precedente maggioranza è stata quella che non era troppo difficile prevedere. Tanto poco difficile da prevedere che proprio non si capisce da quale ragione sia stato spinto l’ex premier a impostare in ultimo la sua campagna elettorale per il NO come un pronunciamento a favore o a sfavore dell’attuale governo e della sua maggioranza.
Probabilmente Berlusconi avrà creduto che le modificazioni relative alla diminuzione del numero dei parlamentari, alla stabilità del governo e delle maggioranze, al rafforzamento del potere del premier rispetto al Parlamento (e alle forze politiche che stanno dietro i parlamentari), alla differenziazioni introdotte nelle rispettive funzioni della Camera dei Deputati e del Senato (e, quindi, a una forma di bicameralismo sentita come irrazionale e rallentatrice del procedimento politico e legislativo) e ad altri elementi dello stesso ordine prevalessero di gran lunga sulle questioni riguardanti la coesione e l’unità complessiva (cioè, nazionale e politica) del paese.
Altrettanto probabilmente si sarà, anzi, creduto che la cosiddetta
devolution e il rafforzamento della parte delle Regioni nel quadro istituzionale avrebbero costituito un grande elemento di richiamo per le forze politiche locali e, soprattutto, per l’opinione pubblica delle regioni settentrionali, alle quali si attribuiva un’ansia di distinzione nei confronti dello Stato italiano e, in particolare, dell’Italia del Sud tale da garantire – dato il peso demografico del Nord – la vittoria del SI anche se si scontava che nell’Italia centromeridionale l’opinione pubblica fosse diversamente orientata.
Alla resa dei conti, questi calcoli sono risultati tutti sbagliati, e specialmente lo è stato quello relativo alle regioni del Nord. Non solo il SI è prevalso solo in Lombardia e nel Veneto, e non in Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia (dunque, in più di un terzo del Nord), ma nelle stesse Lombardia e Veneto il margine di vantaggio del SI è stato alquanto inferiore al previsto: non più di una diecina di punti percentuali. Ben più: nelle città di Milano e di Venezia e in altri capoluoghi di provincia (e scusate se è poco, dicono alla televisione) è addirittura prevalso il NO.
Bastavano a facilitare la vittoria del SI questi errori di calcolo politico, che dipendevano da una scarsa valutazione della profondità e dell’effettivo valore del sentimento nazionale italiano e del suo ormai storico radicamento. Ad essi si sono poi aggiunte alcune delle ultime dichiarazioni elettorali di Berlusconi, (che dichiarava in anticipo indegni di essere italiani quelli che votavano per il NO) e di Bossi (che minacciava, se avesse vinto il NO, ma il SI avesse prevalso in Italia Settentrionale, di ricorrere all’ONU per le presunte rivendicazioni della cosiddetta Padania); ed è sempre un errore sottovalutare la possibile reazione dell’opinione pubblica a dichiarazioni irritanti, e un errore ancora maggiore è il ritenere che basti qualche smentita a correggere gli eventuali effetti nefasti delle prime dichiarazioni.
Quanto al sentimento nazionale italiano, la scarsa valutazione che se ne fa è, per la verità, quasi di rito in Italia, dove non si fa altro che parlare dell’«anomalia italiana» nel quadro delle nazioni europee e della debolezza del vincolo nazionale, a cui si dà per insensibile o poco sensibile il paese. Poi i fatti disdicono, nelle occasioni davvero discriminanti, questa scarsa valutazione, nella quale si confonde – crediamo – la questione del civismo con quella della nazionalità. E da questo punto di vista si deve ben vedere e capire che la prima vittoria dei sostenitori del NO è consistita proprio nel proporre il tema dell’unità nazionale come un tema eminente della scelta referendaria; e, a nostro avviso, questo tema è stato di gran lunga più efficace del tema della salvaguardia della Costituzione della Repubblica.
Sulla Costituzione noi continuiamo a credere che le vedute dell’opinione pubblica non siano così positive come si potrebbe credere in base a una interpretazione semplicistica dei risultati del referendum: e su questa interpretazione semplicistica è da riflettere bene, perché ne dipende il da fare nei prossimi mesi o anni in materia di riforme della Costituzione. Del resto, quale migliore dimostrazione si potrebbe avere del fatto che dell’ordinamento attuale gli Italiani non sono affatto così contenti come si dice, se, come si sa, sono gli stessi fautori del NO ad affermare che, chiusosi il referendum, bisogna pensare a riforme costituzionali condivise?
Non insisteremmo, perciò, su questo elemento. Rivaluteremmo, invece, più scrupolosamente quell’elemento della nazionalità – e cioè di un senso nazionale più vivo di quanto suppone la convinzione vulgata e volgare che confonde, come si è detto, civismo e nazionalità – e, soprattutto, tenderemmo a considerare molto seriamente l’impegno di attuare, comunque, una revisione della Costituzione.
Ne va della stabilità del quadro politico attuale, almeno per coloro che affermano di volerlo salvaguardare. La materia non manca. Nell’intervento di Antonio Maccanico – che viene pubblicato in questo numero della nostra rivista, ma espone riflessioni, evidentemente, pre-elettorali – sono indicate, sia pure implicitamente, alcuni punti sui quali una rimeditazione è più immediatamente necessaria; e a tale rimeditazione cercheremo di contribuire, per quella piccola parte che, ovviamente, può essere la nostra.
Intanto, aggiungiamo solo che ritenere il centro-destra più o meno definitivamente atterrato per la sconfitta referendaria sarebbe un errore politico gravissimo, addirittura rovinoso. I motivi della sconfitta referendaria sono, come abbiamo cercato di dire, al tempo stesso più semplici e più complessi di quanto molti credono.
Quel che appare davvero a terra è solo la petulanza della Lega Nord, ridotta ora a parlare di Lombardo-Veneto, visto che – Bossi
dixit – l’Italia a sud del Po non lo segue e visto che la Padania, ossia l’area padana sta tanto a sinistra quanto a destra del fiume. Ma, se discutibile e di penosa ignoranza è la geografia dello stesso Bossi, ancora di più sorprende la sua approssimazione politica, considerato che in quel Lombardo-Veneto da lui vagheggiato le città gli sono rimaste ostili, anche clamorosamente, in casi come quello di Milano, che, invece, nelle recentissime elezioni amministrative si sono schierate per il centro-destra. A meno che, naturalmente, per Bossi non conti più Ponte di Legno che Milano. E, ciononostante, anche così la Lega stessa non è per nulla da trascurare come realtà politica ed elettorale.
Il suo consolidato radicamento in molte aree settentrionali sarà difficile da eliminare. Ancora meno va trascurata la notoria capacità, il fiuto politico, le risorse di immaginazione politica dello stesso Bossi, certo di gran lunga il migliore dei suoi (anche a non considerare la plebaglia politica di cui si è circondato, nella quale la palma della volgarità canagliesca va attribuita questa volta al peraltro, per le sue prodezze in materia, già ben noto Speroni «l’Italia fa schifo e gli Italiani fanno schifo, perché hanno votato in maggioranza per il NO» – e certo egli ha superato così non solo i varii Calderoni, Borghezio, ma perfino Bossi, quando a Venezia invitò una signora, che aveva esposto il tricolore italiano alla sua finestra per manifestare la sua avversione alla Lega, ad affogare nel cesso quella bandiera).
Anche a prescindere da tutto ciò, c’è poi una ragione molto più forte e cogente acché l’attuale maggioranza e governo non commettano l’errore di credere tutto risolto con l’esito del referendum; ed è la ragione che si può molto eccellentemente sintetizzare nella seguente domanda: sono il governo e la maggioranza attuali davvero tanto convinti della loro solidità, tanto persuasi della loro granitica coesione, tanto certi di non avere di fronte a sé problemi di rapporti e di equilibri interni da non aver nulla da temere circa le loro prospettive di durata o, più ancora, circa la continuità, organicità e incisiva fecondità della loro azione di governo?
Insomma, se il centro-destra esce dalle tre tornate elettorali susseguitesi negli ultimi due mesi con le ossa decisamente rotte, non è che il centro-sinistra possa incondizionatamente esultare. A tacer d’altro, dovrebbero radicalmente preoccupare e indurre a una solerzia critica e politica di straordinaria vigilanza e acutezza sia i margini assolutamente ristretti della vittoria nelle elezioni del 9 aprile, sia il carattere politico e per molti versi assolutamente composito e presumibilmente poco suscettibile di duratura non diciamo coesione, ma anche solo convergenza della maggioranza che sostiene il governo attuale.
Il successo maggiore di questa maggioranza e quello che appare finora il successo più felice, per quel che ha significato, e significherà è stata l’elezione del presidente Napolitano: una scelta indiscutibilmente eccellente. Ma nessuno può illudersi che per lo stesso presidente Napolitano questo significhi, in nessun più lontano modo, un condizionamento della sua funzione istituzionale. Bisognerebbe non avere alcuna idea della personalità politica e civile di Giorgio Napolitano per poterlo anche minimamente sospettare. Le prospettive politiche dell’attuale maggioranza e governo vanno considerate in sé e per sé. Ed è per questa assai poco lieve ragione che le giudichiamo tali da doversene non vogliamo dire drammaticamente, ma certo per lo meno
fortemente preoccupare.
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