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Per una politica europea del 21° secolo
di Adolfo Battaglia
I-1) La politica estera di uno Stato si fonda, in linea generale, sulla considerazione della sua storia, della sua posizione geografica e delle sue esigenze di sviluppo civile ed economico. Chiamata a garantire la sicurezza e il futuro di un paese, non può basarsi su un approccio ideologico né su interessi contingenti. È per sua natura una politica di raggio medio-lungo; e ciò che vale per un singolo Stato vale anche per l’Unione degli Stati europei. Avviene invece che da tempo in Europa si dia priorità agli obbiettivi a breve, come ha rilevato tra i primi Mario Monti, perdendo di vista i cruciali problemi di lungo periodo. Gli interventi di emergenza operati per l’Irlanda, il Portogallo, la Grecia, l’Italia, la Spagna hanno fatto dimenticare che la dimensione della crisi accesasi nel 2007 non ammette risposte di carattere parziale. Esige invece nuovi indirizzi di periodo medio-lungo sui grandi temi che intrecciano fra loro questioni economiche e politiche, e che condizionano l’intero Occidente. Parallelamente, richiede la consapevolezza che il vincolo esterno, di carattere internazionale, ha assunto una rilevanza sulle politiche interne degli Stati che mai in passato era stata così forte. È invero la complessità del mondo globale a comportare tanto gli inesorabili limiti quanto le grandi opportunità generate dall’oggettivo grado di connessione ormai creatosi fra le nazioni, fra i problemi, fra le esigenze dei popoli.

I-2) La progressiva perdita di ruolo degli Stati nazionali ha costituito uno dei tratti significativi del Novecento europeo. Dopo la seconda guerra mondiale, per una serie ben nota di ragioni politiche economiche e morali, il fulcro della politica estera delle democrazie continentali è divenuta così la costruzione dell’unità europea. A distanza di oltre mezzo secolo, però, la questione che continua a porsi è sempre la stessa. L’Europa è riuscita a darsi una forte e organizzata realtà economica ma séguita a non avere alcuna dimensione né alcuna strategia d’ordine politico. E senza un chiaro indirizzo strategico, saldamente basato sulla realtà del nuovo ordine internazionale ormai configuratosi, non è più possibile per essa una presenza adeguata in un mondo profondamente cambiato. La situazione in cui si trova è ben diversa da quella del secolo scorso, quando costituì la posta della partita in corso fra le due superpotenze mondiali. Da allora la comunità europea è politicamente retrocessa, pur essendosi territorialmente dilatata ed economicamente integrata. La caduta del comunismo mondiale ha avuto su essa conseguenze politiche cataclismatiche. E vi si sono cumulati i problemi economici generati dall’avvio della globalizzazione e dal gigantesco spostamento di questioni e poteri verificatosi durante gli ultimi trent’anni del secolo scorso. In breve, la perdita di influenza politica ed economica del vecchio Continente non è più materia di discussione: e cominciare a dedurne conseguenze non opposte ma diverse da quelle tratte nei decenni scorsi sembra la prima condizione per affrontare le vicende del nuovo secolo.

I-3) In larghe parti delle classi dirigenti nazionali continuano invece a ripetersi schemi tralatizi e usurati. Il riferimento è tuttora all’idea di un’Europa potenza politica, se non “terza forza”, che il federalismo esprimeva. C’è quasi il timore di prendere atto che il disegno federalista in parte si è realizzato attraverso l’integrazione delle economie e i presidi istituzionali del mercato unico, e in parte non poteva non svanire dopo gli eventi mondiali che hanno contrassegnato la fine del Novecento e portato appunto ad inserire nell’UE e nella Nato la metà europea dell’impero sovietico. Nelle classi politiche, così come nella cultura e nella stampa, e come nella tecnocrazia di Bruxelles, si rilutta a considerare quanto le Cancellerie ben conoscono: che cioè nessuna delle 27 nazioni dell’Unione guarda più – neppure in modo “mascherato”, secondo l’espressione di Delors – all’idea degli Stati Uniti d’Europa. Anche l’idea di un’autorità economica dotata di poteri che soverchino le politiche fiscali nazionali viene periodicamente seppellita sotto silenziosi dissensi, malgrado le molte cose che parlano a suo favore. I leader della Germania e della Francia hanno scartato dal novero degli obbiettivi a medio termine l’idea degli eurobonds di copertura finanziaria (sarà già molto se verrà emesso un volume di projects-bonds europei che aiuti a finanziare grandi progetti infrastrutturali). Per l’Unione fiscale, a parere delle due maggiori nazioni europee, non è questo il tempo giusto. Il Trattato di Lisbona, pur annacquato com’è, stenta ad essere implementato. Non vi è per l’aria nulla di equivalente alla densità della prospettiva che animò le democrazie del dopoguerra: l’Europa è percorsa da un senso di vuoto e di incertezza che non sembra di facile superamento.

I-4) Molti europeisti continuano peraltro a ritenere che costituisca un’anomalia il differente ritmo di svolgimento dei processi economici e politici. Malgrado cinquant’anni di esperienza opposta si continua cioè a pensare che l’economia europea non possa fare a meno della sovranazionalità politica. Certo la dottrina funzionalista di Jean Monnet ha funzionato correttamente per parecchi decenni e passo dopo passo ha condotto al successo della moneta unica. Ma era esatta l’osservazione iniziale dei federalisti: che la costruzione economica non avrebbe portato necessariamente al salto nella dimensione politica. Mentre era errata l’idea dei federalisti che senza la dimensione politica la costruzione economica non avrebbe potuto sopravvivere. In realtà essa ha vissuto, ha progredito e vive senza che sia nata alcuna unione politica. Si potrebbe ripetere, per il sistema creatosi in Europa, l’esempio del calabrone fatto a suo tempo da Galbraith per il sistema capitalistico. Il calabrone ha una struttura aerodinamica e un peso che, teoricamente, escluderebbero ogni sua possibilità di volo. Invece vola tranquillamente, e anche velocemente. Del resto, ciò che avviene in Europa avviene anche in altri continenti: le questioni economiche portano a ravvicinare la distanza fra le nazioni mentre la loro condizione politica porta ad accrescerla. Ovviamente, tra momento economico e momento politico esiste una relazione. Ma si può ritenere per certo ciò che l’evidenza storica dimostra: il momento politico ha carattere prioritario e condizionante. E il fatto da cui ogni analisi deve realisticamente partire è che la condizione cui si è giunti nei processi europei non consente, per motivi politici, passi avanti sul terreno della sovranazionalità anche quando si lavora per la razionalizzazione dell’Unione economica, la saldezza dell’Eurozona e la tenuta dell’Euro: pilastri di un ordine europeo per il quale si è prospettata una batteria di modifiche dirette a renderlo più solido, senza peraltro porsi, neppure in modo “mascherato”, l’obbiettivo dell’Unione fiscale sovranazionale.

I-5) Nei primi anni del 2000 l’allargamento ad est dell’Unione Europea costituì una prima risposta, inevitabile quanto corretta, ai grandi fenomeni intervenuti su scala continentale. Ma, appunto, il passaggio dell’UE ad un assetto a 27 Stati, differenti fra loro per storia istituzioni e condizione economico-sociale, ha avuto un duplice effetto. Da una parte, ha concluso il dominio dello speciale “ciclo europeo” durato cinquant’anni; dall’altra, ha contribuito ad aprire il ciclo del secolo presente, centrato su un ristretto gruppo di realtà continentali, in forma di Stati nazionali, capeggiato dagli Stati Uniti e dalla Cina. Il destino politico dell’Europa sembra perciò dipendere, anzitutto, dalla
possibilità di entrare in quel gruppo ristretto. Una possibilità che la sua condizione storica, di per sé, non è più in grado di garantire; e che non può essere assicurata soltanto dalla sua rilevante struttura economica.

I-6) Il tornare ad avere forza politica non dipende tanto, per l’Europa, dalla creazione di nuove e improbabili istituzioni sovranazionali; quanto invece dalla possibilità di tornare ad esser presto parte dirigente in una grande e forte realtà mondiale. Una realtà, più precisamente, definita dai principi e valori che possono definirsi “europei” e caratterizzata da un indirizzo che rappresenti uno stabile orientamento politico (e morale). L’unità europea costituiva un target fondamentale nel mondo bipolare e nell’età delle economie regionali. Oggi, nel mondo pluripolare della globalizzazione economica finanziaria e comunicativa, è l’unità dell’Occidente che sembra rappresentare il nuovo obbiettivo storico. E in questo senso alcuni pensano possa essere ripreso in forma aggiornata e realistica il great design kennediano, basandolo nuovamente sugli straordinari rapporti storici tra Europa e America, sulla comunanza di tradizione democratica e sui loro fondamentali interessi comuni d’ordine economico-politico. L’alternativa a una più stretta intesa euro-americana sembra oggi, realisticamente, non una Europa più unita ma più disunita e più debole, politicamente isolata ed economicamente non salda dopo la crisi in corso. Mentre i grandi problemi internazionali dello sviluppo e dei diritti umani e civili resterebbero affidati soltanto alla presenza e alla forza degli Stati Uniti.

I-7) D’altra parte il mondo globale, nel suo tragitto verso una forte struttura portante, sempre più richiede grandi realtà accomunate da problemi, civiltà e interessi; ed Europa e Stati Uniti, se rifiutassero questo trend, contravverrebbero ad uno dei chiari processi profilatisi fin dalla conclusione del secolo scorso. Al di là delle loro differenze, i due pilastri atlantici sono tuttora identificati nel panorama mondiale per i loro basilari tratti comuni: principi democratici, Stato di diritto, libertà e regole nell’economia di mercato, visione sociale. Su questa base comune si sono stretti insieme in momenti cruciali della storia del Novecento. Anzitutto nelle due guerre mondiali; poi nelle determinazioni post-belliche di Bretton Woods, che fondarono uno stabile ordine monetario mondiale ancora guardato con invidia; ancora, per il Piano Marshall e infine, nella lunga “guerra fredda”, durata quasi quarant’anni. Non diversamente accade anche oggi. In più occasioni la posizione americana – negli incontri di Varsavia del settembre 2011, nelle vicende critiche dell’UE, nell’orientamento pro-europeo del Fondo Monetario Internazionale, nella riunione del G-20 – ha teso a dare una scossa all’Europa, alla sua indecisione, ai suoi ritardi, alle sue incertezze di fronte alla gravità della condizione economica mondiale. Costituisce una novità rispetto agli orientamenti USA degli ultimi due decenni, rivolti verso il Pacifico. Riconosce la crucialità dell’Europa nell’equilibrio economico mondiale. E potrebbe forse costituire, se ne seguisse una adeguata risposta europea, il primo fondamento del rilancio di un Occidente più unito, che è anche indispensabile per giungere a un sistema monetario mondiale più confacente all’età globale.

I-8) La difficoltà di mirare d’improvviso tanto in alto da parte dei due maggiori blocchi economici del mondo può probabilmente venire stemperata da un periodo di posizioni concertate o comuni sui grandi e dirimenti problemi dell’attualità politica. Una continuità di indirizzo comune con un minimo di istituzionalizzazione funzionale rappresenterebbe un fatto politico nuovo e consentirebbe probabilmente di affrontare nel modo più efficace i quattro grandi problemi che sono sul tappeto della politica mondiale: il movimento rivoluzionario che percorre il Medio Oriente e il mondo arabo; il risorgere in Europa di impulsi nazionalisti che colpiscono anzitutto la Germania; l’indirizzo economico dei paesi occidentali in direzione dello sviluppo; l’ascesa economico-sociale delle nazioni emergenti in un quadro internazionale più equilibrato.

I-9) È possibile realizzare iniziative politiche adeguate, su questi o altri temi attraverso le odierne procedure dell’Unione Europea? È per l’Europa questione chiave, sulla quale basterà ripetere che istituzioni comuni a 27 Stati ben poco possono decidere di realmente impegnativo. Egualmente poco possono realizzare le strutture di Bruxelles dell’UE, che pur fanno il loro lavoro. Quanto occorre, in effetti, è azione politica, e una volta fallito il tentativo di dare il numero telefonico dell’Europa a chi la chiama, dando maggior peso al Presidente e al Ministro degli esteri dell’UE, resta soltanto l’opera di Stati capaci di traino politico. Può piacere o non piacere; ma il punto di riflessione – già sollevato dalla signora Merkel a Bruges nel 2010, seppure non puntualmente, parlando di “metodo intergovernativo” – è se una tale opera costituisca, o no, un’alternativa ai processi unitari europei. Se cioè rappresenti la ripresa della tragica prassi di Stati nazionali in permanente conflitto; o se non sia divenuta piuttosto una modalità inevitabile della politica europea. Anche pericolosa, se si vuole, perché realizzare una strategia continentale attraverso l’azione di Stati nazionali non sarà mai facile. Ma è una modalità divenuta probabilmente indispensabile, che può avere risultati positivi a patto di puntare su un disegno di respiro rispetto ai problemi dell’attualità politica: un disegno nel quale le questioni nazionali vengano ricondotte e le resistenze politiche superate proprio da quella certezza dell’intesa euro-americana che oggi manca, creando nel Continente non poche, anche se sotterranee, divisioni.

II° - L’Europa, gli Stati Uniti, la Turchia e le rivoluzioni nel mondo islamico

II-1) Medio Oriente e sponda africana del Mediterraneo sono stati per decenni un’area di crisi; e oggi la “primavera araba” lascia ancora incerti sull’esito delle rivoluzioni in corso. Non sarà facile far convivere i valori da cui le rivoluzioni sono mosse – che sono poi i valori che segnarono la storia europea, la libertà di opinione, la democrazia politica, l’eguaglianza di genere, l’equilibrio sociale – insieme con l’Islam, gli Iman e la legge coranica. Ma la fine della glaciazione in quell’area, alimentata anche dall’inesorabile progresso delle rivendicazioni del mondo femminile, è un fatto certo, dalle implicazioni enormi. Esse richiedono dall’Occidente indirizzi nuovi e più incisivi di quelli finora prodotti. E il primo punto da affrontare è, di nuovo: può agire l’UE o debbono agire gli Stati? È chiaro che finora hanno effettivamente agito solo alcuni Stati, con differenze rilevanti tra Francia, Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti (a parte il ritiro dal campo della Germania). La riserva degli Stati Uniti ad
ogni intervento militare nell’area venne meno dopo la esplicita richiesta in proposito della Lega araba. Ma vi si leggeva, al di là dei problemi interni americani, la volontà di caratterizzare gli S.U. nel mondo islamico sotto il profilo politico e civile, sulla traccia del ben noto discorso di Obama al Cairo all’inizio della sua presidenza. La Francia, forzando non solo l’Europa ma anche la Nato, ha finito per riproporre il problema di una comune strategia tra europei e americani per la sponda africana del Mediterraneo e, inevitabilmente, per il contiguo Medio Oriente. È una questione irrisolta ma è anche un punto semplice su cui bisognerebbe essere chiari.

II-2) L’ingresso della Turchia nella vicenda dell’area ha una straordinaria importanza da cui un Occidente che fosse unito potrebbe trarre forte giovamento. La Turchia di Erdogan presenta un modello politico totalmente differente da quelli presenti in quelle terre: uno Stato democratico, laico, islamico ma non teocratico, con una fortissima capacità di sviluppo economico e una forza militare sostanziosa. Rispetto alle due potenze dell’area, Iran e Arabia Saudita, rispetto a sultanati, teocrazie e rivoluzioni, è un modello non solo più forte ma anche più attraente per popolazioni che cercano una via. Potrebbe nello stesso tempo favorire la soluzione del conflitto tra Israele e Palestina, per la credibilità che la Turchia possiede tanto presso i paesi in conflitto quanto nell’area islamica. Un successo della Turchia, supportata da indirizzi adeguati degli Stati europei, e dietro di loro dagli Stati Uniti, costituirebbe anzi un forte elemento di stabilizzazione dell’intera area, centrato non sulla fluidità dei magma politici ma su una forte entità organizzata a Stato, che è oltre tutto uno Stato alleato dell’Occidente.

II-3) Anche per questo, a maggior ragione, l’Occidente non può limitarsi a dichiarazioni di volontà sullo sviluppo economico di quelle aree cruciali, come hanno finora fatto sia il G8 che l’Ecofin. Accanto agli aspetti economici, ci sono molte altre questioni che il mondo islamico avverte come importanti, nel suo presente momento “costituente”. Sono questioni politiche, giuridiche, culturali, sociali, tecnologiche, di comunicazione, di costume, di ruolo della persona individua: tutte le questioni tipiche dell’era post-ideologica arrivata anche in quella regione. Non si tratta solo, dunque, di mettere a disposizione risorse finanziarie. Si tratta di realizzare complesse e coordinate politiche per le quali anche gli Stati Uniti vedono esattamene la maggiore credibilità del fenomeno istituzionale europeo di fronte ai problemi del Mediterraneo e del Medio Oriente. È errata l’affermazione che gli Stati Uniti non guardino più all’Europa: sono tornati a farlo per lo stesso tipo di ragioni per cui guardano al Pacifico, perché vi scorgono forze in movimento e la possibilità di conflitti potenzialmente gravi per la stabilità internazionale: sui quali l’Europa potrebbe forse meglio operare. D’altra parte, il Pentagono vedrà tagliati fortemente i suoi bilanci nei prossimi anni fiscali e gli Stati Uniti inevitabilmente diminuiranno il loro potenziale di intervento militare sul piano mondiale. La loro necessità di compensarlo con un influente soft power lascia ovviamente spazio all’Unione Europea.

II-4) Accanto al suo soft power, d’altra parte, l’Europa può mettere in campo una forza militare modesta ma in molti casi non inutile. Sarebbe difficile però che l’uno e l’altra avessero l’efficacia necessaria se le iniziative europee e americane fossero scoordinate, disomogenee o addirittura contraddittorie. Se non si presentasse una visione comune fra le forze democratiche del mondo occidentale in grado di influenzare l’evoluzione delle rivoluzioni arabe. Non si comprende perché le diplomazie esitino a trarre qualche conclusione operativa da una circostanza così ovvia. Non si vedono ostacoli insuperabili alla elaborazione di una strategia euro-americana per il Mediterraneo e il Medio-Oriente, superando l’attuale distribuzione di sanzioni economiche all’impazzata. Collaborano fra loro le Banche centrali dell’Occidente, non possono collaborare fra loro le diplomazie?

III° - Un’intesa Europa-Usa sul terreno degli indirizzi economici

III-1) Un’intesa concertata tra Europa e Stati Uniti sugli indirizzi economici e finanziari è altresì lo strumento più convincente per rispondere alla questione cruciale che agita i mercati e incide sulla condizione economica mondiale: la sicurezza dei loro crediti a fronte di debiti sovrani ingigantitisi e destinati a rimanere un serio problema per un tempo non breve. I mercati sembrano relativamente interessati a misure monetarie o fiscali a carattere nazionale o intergovernativo. Essi hanno posto un problema politico ben più importante, che concerne non una nazione o un’altra ma l’intero mondo dell’Occidente ove è esplosa la crisi: pongono cioè il problema di una complessiva strategia dell’Occidente che realizzi lo sviluppo economico, il solo fattore capace di restituire le certezze indispensabili ad abbassare il grado della loro pressione. Sotto questi profili la dimensione dello Stato nazionale era da tempo divenuta per i mercati poco credibile in sé. Ma nel mondo economico internazionale è divenuta ormai poco credibile anche la dimensione europea. Si crede sempre meno alla forza e alla volontà politica dei paesi dell’UE. Le loro esitazioni nella grande crisi attuale hanno rafforzato tale convinzione. Senza dare al problema una risposta internazionalmente convincente, senza una svolta politico-economica che abbia rilevanza ed eco mondiale, senza offrire un approccio innovativo a mercati perplessi e ad opinioni pubbliche logorate (senza, probabilmente, rimettere mano ai Trattati, in particolare per quanto riguarda i poteri di intervento della Bce e il suo rapporto con l’Efsf) è difficile che per l’economia e la finanza europea la strada diventerà in discesa.

III-2) La gigantesca crisi americana dei sub-prime è diventata in Europa la crisi del debito sovrano coniugata con quella del sistema bancario. Al di là delle polemiche, i punti da affrontare sembrano ora almeno cinque. Il primo è la necessità di consolidare l’Eurozona e l’Euro, stante che la loro caduta avrebbe costi travolgenti per l’intero sistema economico mondiale. Il secondo è che la condizione politica dei paesi europei non sembra consentire, come si è già notato, mutamenti profondi nelle istituzioni comunitarie né cessioni di sovranità ad una nuova autorità europea. Il terzo punto è che questo stesso dato di fatto implica per molte importanti nazioni extraeuropee un impegno a contribuire a spegnere le crisi europee; e un’intesa preliminare tra Europa e Stati Uniti sarebbe per tutti un elemento di sicurezza e di prospettiva. Il quarto punto è che i sacrifici imposti alle nazioni grandi, medie e piccole dovrebbero essere il più rapidamente possibile compensati dalla ripresa della crescita economica, necessaria ovunque ma indispensabile oggi in Europa prima dell’esplodere di gravi crisi sociali che sarebbero pericolosissime per la vita democratica di molte nazioni. Per il che, quinto, si tratta soprattutto di mettere in moto nei paesi occidentali (in un grado o in un altro a seconda delle maggioranze di governo scelte dagli elettori) indirizzi economico-politici che abbiano qualità riformatrice, impatto e senso di prospettiva. È l’intera economia occidentale che soffre di perdita di competitività ed esige nuovi orientamenti per avanzare su nuove strade. Un problema decisivo che si congiunge con quello di garantire la stabilità sociale e di contrastare i fenomeni di chiusura nazionalistica profilatisi all’orizzonte (a cominciare, come si nota ampiamente più avanti, dalla Germania).

III-3) Una stretta intesa tra Europa e Stati Uniti sul terreno economico non costituirebbe certamente una stranezza. A partire dalla crisi apertasi nel 2007 si è anzi manifestata con evidenza attraverso l’intesa fra le tre Banche Centrali (Federal Reserve, Bce, Banca d’Inghilterra). Fu un’intesa a livello tecnico che portò ad approfondire insieme i problemi, fondere gli interessi, identificare comuni risposte. Passi ulteriori spettano ad autorità non tecniche ma politiche, sulla base della circostanza che è del tutto comune l’interesse ad una forte ripresa economica. Non differente è del resto la posizione del Fondo Monetario Internazionale, espressa nel settembre 2011 a Jakson Hole dalla signora Lagarde: che ha chiesto un’azione «forte» di fronte «ai rischi legati ad una crescita debole e ai debiti sovrani», ammonendo che «l’Europa deve smetterla con gli equivoci e le incertezze sulla direzione da prendere». Ma il fatto più importante è che l’esigenza di collaborazione internazionale per affrontare i nodi della crisi mondiale si è allargata su richiesta americana, com’è noto, ai paesi del G-20. Sicchè la concertazione euro-americana si profilerebbe beneficamente come l’avanguardia compatta di un più ampio fronte internazionale.

III-4) D’altra parte, se le strette monetarie e i tagli di spesa non saranno compensati da una strategia capace di rassicurare le società sulle possibilità del ritorno allo sviluppo, è ben probabile che in molte nazioni europee le difficoltà sociali accrescerebbero le perplessità dei mercati sulla loro condizione, in un circolo vizioso poco controllabile. A sua volta, l’European Council on Foreign Relations, in un documento dell’estate 2011, ha notato che le iniziative tese semplicemente a salvare l’Euro potrebbero condurre ad un’Europa a due velocità in due possibili modi. La prima è che l’approfondimento dell’integrazione delle politiche economiche tra i 17 paesi dell’Euro-zona porti ad una spaccatura tra essi e gli altri 10 Stati membri dell’UE. La seconda possibilità è quella di una scissione più profonda tra i paesi creditori e quelli debitori, con una crescente divergenza tra la competitività di questi due gruppi come risultato dei bail-in e il permanente peso del debito sulle nazioni indebitate. Sono due possibilità, come si vede, che si risolverebbero entrambe nella caduta di ogni sana prospettiva europea. L’idea delle “cooperazioni rafforzate” è stata utile, in passato. Ma il trattato di Maastricht non poteva ovviamente prevedere una condizione come quella presente: e le cooperazioni rafforzate dovrebbero oggi essere escluse dal novero delle vie d’uscita dalla crisi, colpendo l’elemento che è ancora una forza dell’Europa, l’unità ormai raggiunta. È davvero possibile invertire il tragitto di allargamento a nuovi Stati che è durato sessant’anni? Un tale turnaround comporterebbe un ritorno alla divisione tra nazioni willing and able e nazioni non disponibili a creare Autorità federali. Ma, già, è difficile stabilire quali siano oggi, veramente, gli Stati disponibili alla cessione della sovranità politica in favore delle istituzioni di Bruxelles. E, inoltre, le conseguenze di disorientamento o di balcanizzazione che potrebbero derivare dal problema appaiono temibili. Dove andrebbero gli Stati dell’Est? Non si darebbe un aiuto alle forze estreme che agitano le società centro-europee? Quale percorso implicitamente additeremmo al Regno Unito? I paesi latini ad alto debito sovrano dove si collocherebbero? E gli Stati scandinavi? Ciò che occorre non è questo. È una svolta della politica europea di fronte ai problemi che il cammino del mondo ha cominciato da tempo a porre al vecchio Continente, compresa la G.B.

III-5) I paesi europei sono invece in difficoltà, stretti per un verso dall’esigenza obbiettiva di ridurre l’eccesso di debito e per l’altro dal peso politico della Germania: che attraverso le politiche finanziarie restrittive cui cerca di portare l’intero Continente corre il rischio di fissarlo nella stagnazione. Si pone dunque, dopo quella d’ordine politico, una seconda questione di natura non congiunturale. Molti economisti l’hanno già sottolineata: il ritorno allo sviluppo dei paesi europei non può aversi, isolatamente, in ambito nazionale né regionale. Ha bisogno piuttosto di essere collocato in un quadro internazionale che per essere convincente deve fondarsi sui due principali protagonisti della vita economica mondiale. Si tratta di superare i conati nazionalistici che circolano nel Continente, sciogliere la stretta recessiva sull’economia europea e implementare in comune le politiche della età dell’economia della conoscenza che è succeduta all’età dell’economia di welfare. Ben al di là della presente congiuntura, Europa e Stati Uniti hanno lo stesso permanente interesse ad una politica di sviluppo: senza la sicurezza del quale, come si diceva, non solo non esisterebbe risposta valida ai mercati in materia di debito ma sarebbe anche più arduo controllare i temi della stabilità sociale alterata dalle modifiche strutturali dell’economia, e affrontare la crescita mondiale dei paesi emergenti.

III-6) Per avere un’intesa euro-americana sono essenziali, in primo luogo, le posizioni della Germania e degli Stati Uniti. In questi ultimi, l’esigenza dello sviluppo è sentita da ambedue i partiti, di governo e di opposizione, in maniera più viva che nella complessa condizione tedesca. Mentre una nuova riflessione sta ora sopravvenendo in Usa, come si notava, circa la potenziale importanza dell’Europa nella soluzione dei problemi internazionali: una riflessione ben comprensibile nell’epoca in cui le caratteristiche dei modelli debbono avere dietro di sé, più che mai, non la superficialità del contingente ma la forza della legittimità storica che ad esse assegna il tempo. Che il baricentro della crescita economica si sia spostato verso l’Asia non è dubbio. Ma l’Occidente, da una parte continua a possedere la forza economica che gli deriva da un accumulo secolare; e possiede, dall’altra, una forza d’intervento politico superiore a quella di qualsiasi altra entità internazionale. Sarebbe un errore confondere problemi diversi; e valutare i pesi politici sulla sola base dei tassi di sviluppo derivanti da differenti condizioni. Si capisce che gli Stati Uniti stiano attenti a contrastare l’espansione economica cinese in Asia. Non è però inutile ricordare che l’Europa è il maggiore partner commerciale di Pechino, essendo gli scambi cino-europei più rilevanti di quelli Cina-Usa, con forte surplus della potenza asiatica (che ha dunque tutto l’interesse a conservare un Euro forte per favorire le sue esportazioni). Mentre gli investimenti cinesi in Europa sono aumentati nel 2010, rispetto al 2009, di quasi il 300%, chiaro sintomo dell’interesse e dell’importanza che il nuovo gigante asiatico attribuisce alla vicenda economica e monetaria del vecchio Continente.

III-7) Si può essere abbastanza sicuri che, pur in una congiuntura mondiale poco favorevole, oltre la Germania anche gli Stati Uniti torneranno presto ad una crescita sostanziosa (non a caso la solidità dei loro fondamentali economici è mostrata dai loro tassi d’interesse sui titoli di Stato a lungo termine). Esistono cioè in ambedue gli Stati le condizioni strutturali, infrastrutturali, di ricerca scientifica e tecnologica, di volontà imprenditoriale, di forte etica del lavoro, che potranno facilitare il loro slancio economico, mentre l’UE, in assenza di svolte significative, sembra complessivamente destinata a marcare il passo. Ben inteso, la liquidità non manca. Ma è la mancanza di fiducia nella sua condizione generale che ovviamente riduce la disposizione al rischio e all’investimento. Le misure della Bce, della Commissione di Bruxelles, dell’Efsf, dei Vertici UE, potranno anche essere perfettamente appropriate: ma si tratterà sempre di misure di sostegno collaterale. Occorrerebbero invece misure dirette organicamente alla crescita, basandole su ciò che si può chiamare uno scatto politico. In altri termini l’avere un Occidente più unito è una delle condizioni più importanti per disperdere i timori della definitiva sopraffazione delle economie occidentali. Invece al problema della stabilizzazione economica dell’Occidente non corrisponde ancora una prospettiva credibile del suo futuro politico. Le questioni di cui si è discorso in questi paragrafi vanno dunque insieme. Quale indirizzo strategico debbano perseguire i paesi europei e in quale contesto politico avverrà la ripresa economica della Germania e degli Stati Uniti sono lo stesso problema.

IV° - Uno schieramento internazionale contro la ripresa del nazionalismo europeo

IV-1) Le politiche di integrazione europea sono oggi di fatto bloccate dal vigore assunto dalla spinta degli interessi nazionali. Il fatto è che il nazionalismo torna a circolare in Europa come mai nell’ultimo mezzo secolo. Naturalmente, malgrado l’enormità di quanto è avvenuto in Norvegia, esso non alimenta oggi gli stessi fantasmi che turbarono la prima metà del Novecento. Ma la sua ripresa non può essere sottovalutata. Non rappresenta una reviviscenza improvvisa. Dietro di essa c’è una vicenda e un tragitto culturale e politico che molto hanno già inciso sulla vita europea. Ed è proprio l’albero del nazionalismo che crescendo in nazioni diverse, in condizione di luce e calore diverse, produce le stesse odiose aberrazioni, lo sciovinismo, il razzismo, l’antisionismo, il protezionismo, la paura dello straniero, la chiusura misoneista, il timore del diverso. L’espansione islamica in Occidente non deve essere considerata la molla più importante delle odierne spinte nazionalistiche. Esse vivono della loro storia e hanno avuto nel Continente il loro terreno di coltura, le loro manifestazioni più estreme e, anche, le loro storiche sconfitte.

IV-2) Il nazionalismo è risorto nel secondo dopoguerra attraverso l’ambigua formula politica dell’“Europa delle patrie” lanciata dalla figura suggestiva del gen. De Gaulle. Fu la formula che si contrappose ai processi di sovranazionalità sospinti dall’europeismo, ed ebbe come risultato non solo di antagonizzarli ma anche di mettere in moto una valanga col tempo ingrossatasi. Dapprima, in effetti, il nazionalismo ha convissuto con l’europeismo, rifiutando negli anni ’90 la sua proposta più avanzata, suggerita in Germania dal documento Schauble-Lamers. Poi, nella condizione storico-politica determinatasi verso la fine del secolo, il vecchio drago ha rialzato la testa in ogni paese europeo. Il rifiuto popolare dell’immigrazione extra-comunitaria lo ha certo potentemente aiutato. Ma è significativo delle sue possibili derive che nella Francia ostile all’“idraulico polacco”, la candidata del Fronte nazionale alla presidenza della Repubblica abbia addirittura avanzato una rivendicazione territoriale, chiedendo l’annessione alla Francia della Vallonia belga. È un fatto, d’altra parte, che forze di estrema destra hanno avuto in molte nazioni il successo che non conoscevano da parecchi decenni. È un fatto che i processi di integrazione sovranazionale sono fermi in Europa da quasi venti anni, bloccati da remore di spirito nazionalistico.

IV-3) In effetti si viene oggi proclamando apertamente il principio che gli interessi nazionali debbono prevalere su ogni altro interesse. Si scatenano così due processi egualmente distruttivi. Da una parte si elidono i principi e i vincoli di solidarietà senza i quali nessuna comunità al mondo può reggere a lungo. Dall’altra, non si propone alla propria nazione alcun grande obbiettivo
esterno che l’induca a non chiudersi e a non preoccuparsi soltanto di sé. Né si tiene conto che il nazionalismo è stato ed è l’avversario storico dell’Europeismo, inteso come forma rappresentativa di imperativi politico-morali irrinunziabili. Se il nazionalismo avanza l’europeismo regredisce. Mentre se il nazionalismo regredisce possono divenire più impegnati gli sforzi per dare carattere più integrato all’Europa. Invece, la mancanza d’intesa fra le forze antinazionaliste del mondo atlantico fa correre un duplice rischio: in Europa l’affermazione di una nuova “missione tedesca” e negli Stati Uniti la ripresa di “missione americana” neo-con: due ipotesi egualmente preoccupanti.

IV-4) È ben possibile che a creare questo situazione abbia contribuito la diminuita forza degli Stati Uniti nello scacchiere mondiale e quella maggiore acquisita dalla Germania nel quadro europeo. Ma quando lo spirito nazionalista circolante in Europa passa dalla Slovenia, per dire, alla Germania, è inevitabile che il grado di difficoltà dei problemi salga. Le remore a suo tempo frapposte ai bail-out per la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo, al di là di ogni questione tecnica, rispecchiavano un fondo nazionalista del tutto evidente. La signora Merkel ha domandato più volte perché i suoi concittadini debbano pagare i conti di tutti i popoli che hanno dissipato colpevolmente il loro denaro. E il felice stato dell’economia tedesca, generato dalla tempestività della sua ristrutturazione, attestava la ragionevolezza della domanda. Ma attestava anche la sensazione che sempre più influente è la porzione di opinione pubblica favorevole all’abbandono del principio della priorità europeista. Il primo passo avanti in questa direzione l’aveva del resto già compiuto il Cancelliere Schroeder. Ma altro era la politica verso l’Est, inizialmente proposta da Brandt nel quadro di una concezione europeistica solida. Altro sono oggi, nella crisi in cui è caduta l’Europa, le politiche verso l’Est che riprendono antiche spinte presenti nel mondo tedesco, rafforzando obbiettivamente la spinta nazionalista.

IV-5) Il fenomeno nazionalista tedesco deve essere considerato preoccupante perché non si sprigiona soltanto da reazioni d’ordine emotivo ma da una varietà di motivi, economici e sociali, giuridici e costituzionali. Le due sentenze della Corte Costituzionale di Karlsruhe, quella del 2009 e quella del 2011, fissano il ruolo primario del Parlamento tedesco di fronte a qualsiasi atto che crei automatismi economici europei o implichi la cessione di poteri sovrani. In sei mesi ben due primarie autorità economiche del mondo tedesco si sono dimesse nel 2011 dalla Banca centrale europea, in dissenso con la politica di aiuto ai paesi finanziariamente dissestati. Il mondo industriale e finanziario che guarda alla fortuna delle esportazioni e al vicino e lontano Oriente crescentemente supporta l’onda euro-scettica. Gli elettori chiamati al voto non l’hanno certo sconfessata. Più in generale, sondaggi ripetuti hanno rilevato che la maggioranza del popolo tedesco non può più dirsi pro-europea. C’è insomma in Germania un movimento che monta, con un disegno formalmente non definito ma sicuramente tanto anti-europeo quanto pericoloso. Sarebbe strano che la Cancelliera tedesca, pur nascendo politicamente da un europeista come Kohl, non ne tenesse conto. È costretta a navigare in effetti tra ponente e levante. Sul terreno internazionale porta la Germania a dissociarsi in Libia dai suoi alleati; sul terreno finanziario nei Vertici dell’Ue si fa strappare per necessità, volta a volta, ciò che forse personalmente già condivide. È un giuoco politico al limite dell’acrobazia; ma la Germania resta divisa e non c’è bisogno di sottolineare quanto sia rischiosa la sua possibile lacerazione.

IV-6) Il dibattito in corso in Germania tra forze pro-europee e forze nazionaliste è dunque di estrema importanza. È sperabile non sia accentuata dalle elezioni politiche del 2012, da cui dipende in definitiva l’indirizzo strategico del paese-guida del continente. Ma non deve ingannare il paradosso di un nazionalismo che nella difesa dell’Euro sembra far propria un’esigenza europeista. In effetti non sembra che Germania possa permettersi di rinunziare all’Euro se vuole difendere un’economia (e un welfare) basata su un Pil largamente dipendente dal volume del commercio di esportazione. Tra l’altro, è sull’Eurozona che si riversa buona parte delle esportazioni tedesche: e anche per questo, guardando un attimo al di là della contingenza, è ben probabile che l’Euro verrà comunque tutelato. Per le stesse ragioni, a un tempo nazionali ed europee, opererà il cosiddetto Fondo salva-Stati (l’Efsf). E fioriranno le proposte per accrescere l’efficacia delle regole e dell’acquis economico-finanziario dell’UE, senza per questo passare ad una vera e propria Unione fiscale. Si potrebbe insomma non essere pessimisti sul destino dell’Eurozona. Ma non per questo il problema della presenza dell‘Europa nel mondo, come fattore di direzione politica, sarebbe stato risolto. E se si allargasse nell’opinione pubblica tedesca la dura base di interessi e sentimenti che è propria del nazionalismo, se si manifestasse un trend significativo di riduzione della crescita, allora è ben possibile che avremmo in Europa, imposte dalla Germania, strette finanziarie assai più aspre di quelle odierne. Tremonti apparirebbe allora un forsennato espansionista. E può pensarsi che sulla perdurante stagnazione economica di molti paesi europei si affermerebbe una nuova posizione della nazione tedesca, assai più ambiziosa e pericolosa di quella odierna. L’Europa, come comunità di nazioni e di visione morale, non potrebbe non esserne colpita.

IV-7) Quali orientamenti e atteggiamenti sono oggi necessari per aiutare le forze europeiste a vincere la loro battaglia? È un fatto che la comunità occidentale ha avuto sulla Germania un peso inusuale nelle relazioni internazionali. Per cinquant’anni essa ha contribuito in modo determinante a indirizzare la rotta di quel grande paese. Nella condizione dell’Europa odierna molti contavano ora sul moderno riformismo francese. Se il suo principale esponente avesse assunto con autorità internazionale la guida della Francia la Germania non avrebbe potuto non tenerne conto. La rovinosa caduta di Strauss-Kahn, non sanata dalla revisione intervenuta a suo favore, ha rappresentato in questo senso un disastro che a breve termine non sembra riparabile. E la Francia difficilmente potrà dare agli equilibri europei più di quanto ha dato Sarkozy: che è qualche cosa ma non è sufficiente. Allora chi potrebbe operare? L’Italia, la Spagna, la Polonia? Difficile, nella loro condizione. Occorrerebbe dunque che, come in passato, si schierasse non una nazione ma l’intero Occidente, con un richiamo forte al destino comune. Occorrerebbe che il paese leader del mondo atlantico si impegnasse assieme alla democrazia europea, e in particolare quella britannica, non nella ricerca di impossibili istituzioni comuni ma in concrete e coordinate politiche. Occorrerebbe che la Germania venisse “chiamata” da un gesto antinazionalista significativo, quale può essere l’accordo sul suo seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. È indispensabile, insomma, che l’opinione pubblica tedesca venga rassicurata. È soprattutto la sua percezione di un Occidente più unito e più forte che può trainarla sulla strada giusta. Solo la sua sicurezza di poter far fronte alle realtà competitive del mondo globale può riuscire a diminuire fra i tedeschi, come del resto fra tutti gli europei, il senso di diffidenza e forse paura che le realtà sconosciute surrettiziamente inducono. Può darsi che anche tutto questo non possa bastare. Ma senza almeno questo sarà più difficile che la Germania possa riprendere un cammino schiettamente europeo.

V° - L’Occidente e lo sviluppo internazionale equilibrato

V-1) Dovunque nel mondo, paesi emergenti si muovono risolutamente verso lo sviluppo economico e la democrazia politica, fine dell’epoca della povertà e della fame; e l’assestamento di questo fenomeno d’ordine certamente storico avviene in una condizione internazionale dominata da potenze di dimensione continentale. In questo quadro, gli Stati europei danno un aiuto allo sviluppo che consente una presenza a ciascuno di essi. L’UE destina anch’essa fondi rilevanti, ma produce politicamente poco più di una rincorsa dei problemi, con la prevalente preoccupazione di preventivi accordi interni fra 27 nazioni, ciascuna con i propri interessi nazionali. È una contraddizione che alimenta la difficoltà di una ulteriore espansione dei peculiari valori civili europei: è raro il caso di una stabile affermazione di principi e concezioni non sorretti dall’opera politica. Anche sotto questo particolare profilo si pone dunque al vecchio Continente il problema della dimensione più utile a consentirne la presenza nel mondo, un problema parallelo alla vera questione posta dalle nazioni emergenti: quale sarà la sigla di questo secolo, l’insieme dei valori di riferimento, il raggio di estensione della democrazia? È questa per l’Europa, ancora più che per gli Usa, la posta in gioco, perché si tratta della sua anima prima ancora della sua economia.

V-2) Il riequilibrio tra paesi sviluppati ed emergenti, tra “ricchi e poveri”, è problema di estrema complessità che occorrerebbe realizzare salvaguardando sia i valori e la condizione dei primi sia le aspirazioni alla crescita dei secondi. È perciò un riequilibrio che difficilmente può avvenire a breve termine, ciò implicando drastiche modifiche negative del reddito e dell’occupazione nei paesi sviluppati, crisi sociali pericolose, tensioni internazionali non lievi. Il compito della politica è quello di assicurare un periodo di aggiustamento progressivo, con tipi di crescita differenziati e in grado di rispondere con sufficiente credibilità ai problemi degli uni e degli altri. Indispensabile sembra anche, nella definizione delle politiche di riequilibrio mondiale, l’inserimento più puntuale delle grandi questioni scientifiche che tradizionalmente hanno vissuto separate dal mondo della politica. Il cambiamento climatico, l’opera di tutela rispetto al degrado ambientale, l’impatto di entrambe sui sistemi di welfare, le terapie geniche, sono divenute questioni che non possono essere esaminate separatamente da quelle economiche. Una fra le tante novità del secolo è costituita dai vincoli internazionali scientifici e tecnici che si intrecciano tra loro, complicando i problemi e rendendo sempre più necessarie politiche onnicomprensive globali.

V-3) Già oggi, peraltro, il tema di una strategia mirata allo sviluppo parallelo, seppure differenziato, del sud e del nord sembra esigere una serie di interventi specifici: a) una politica mondiale delle emergenze dotata di robuste e stabili risorse finanziarie non meno che del coordinamento delle strutture Onu operanti in materia di fame, povertà, malattie, carestie, disastri ambientali; b) una revisione del sistema monetario internazionale, per metterlo meglio in grado di fare la sua parte nelle politiche di sviluppo; c) un rafforzato indirizzo di liberalizzazione del commercio internazionale, superando protezionismi e riserve nazionali; d) il coordinamento dei maggiori possessori di asset economici, al fine di non dare spazio eccessivo ad interessi egoistici in contraddizione con politiche generali.

V-4) A questi fini, ciò a cui sembra di poter puntare realisticamente è la valorizzazione dello strumento del G-20, nella stessa direzione prevista dalla sua prima convocazione ad opera del Premier britannico Brown. Il G-20, a sua
volta, può operare con minori difficoltà avendo un minimo di struttura portante, cioè un primo momento di aggregazione non ideologica ma politica, che possa facilitare la discussione e la deliberazione collettiva. Del resto, per una crescita più rapida ed equilibrata, occorre giungere finalmente sia al superamento del gap tra la politica e la scienza, sia al superamento della divisione di natura ideologica che separa l’Occidente e il mondo emergente. E per avviarsi su questa strada non si può che puntare, da una parte, sulla considerazione delle soluzioni economiche e tecniche obbiettivamente più valide, a prescindere dalle appartenenze politiche; e dall’altra, sulla scelta del personale dirigente degli organismi internazionali che sia obbiettivamente il migliore, a qualunque emisfero, colore, ideologia o religione appartenga. Su questi temi l’intesa tra Europa e Stati Uniti avrebbe un senso prospettico rilevante. Ma anche su altri terreni appare egualmente importante. Per fare un solo esempio, relativo ad una questione traumatica per i paesi europei, il fenomeno della emigrazione dalle nazioni africane è difficile possa essere controllato in assenza di un grande “Piano Marshall” euro-americano con la collaborazione dell’Unione africana. Si vuol provare a farlo, o l’Europa attende invece che la Cina finisca di investire nell’area occupando posizioni di prim’ordine?

VI° - L’Europa, gli Stati Uniti e la questione delle istituzioni

VI-1) Una politica europea del 21° secolo non deve lanciare l’idea di istituzioni euro-americane, delle quali non si vede alcun inizio di maturazione. Naturalmente, la politica passa attraverso le istituzioni, ma le istituzioni sono anime morte se non sono pervase dalla politica. Né esistono modelli di istituzioni applicabili indifferentemente di qua e di là. Le istituzioni sono anch’esse frutto della storia e in definitiva ad essa spetta lo stabilire quelle che siano volta a volta agibili. Ciò è particolarmente vero nella vita internazionale, in cui è sempre e comunque la politica a definire quanto è ritenuto istituzionalmente utile in ciascuna situazione e quali fra gli infiniti strumenti teoricamente a disposizione debbano essere specificamente utilizzati. Così, allo stato attuale della condizione degli Stati Uniti e dell’Europa non bisogna cercare che una perfetta Minerva esca dal cervello di Giove per guidare entrambi i continenti. Occorrerebbe piuttosto individuare l’indirizzo di fondo che essi dovrebbero insieme perseguire sui grandi problemi che parimenti li attanagliano. Un indirizzo di fondo: riconoscibile e riconosciuto, capace di pesare sulla condizione mondiale, dotato di strumenti volta a volta identificati attraverso le vie che la politica conosce e consente. Insomma, nel rapporto Usa-Ue non è decisivo mettere in piedi strutture istituzionali dotate di maggiori o minori poteri; conta invece il fatto politico d’ordine mondiale che si creerebbe. E se per questo c’è inizialmente bisogno di un momento formale, deve dirsi che esso largamente dipenderà dalla situazione generale in cui l’intesa euro-americana si collocherà e dai leader politici che la promuoveranno.

VI-2) Si possono tuttavia segnalare alcuni precedenti – senza andare al monumento rappresentato, nel bene e nel male, dal complesso delle strutture dell’Unione Europea. Può notarsi anzitutto che fra molti paesi europei dell’Unione (Francia e Germania; Francia e Italia; Germania e Italia, Spagna e Francia, ecc.) si è da tempo instaurato l’uso di una consultazione a livello di ministri. E non si vede la ragione per la quale paesi di continenti diversi che appartengono tutti all’Alleanza Atlantica e già lavorano insieme nella Nato non possano ripetere l’esperienza di incontri periodici con frequenza analoga a quella cui si dedicano i banchieri centrali e quelli privati. Non potrebbe che venire qualcosa di utile da incontri puntuali su punti specifici tra, da una parte, i rappresentanti dell’Unione Europea e i ministri nazionali più impegnati sul problemi da discutere; e dall’altra parte, i ministri americani competenti accompagnati dai loro Assistant Secretary. Sarebbe forse anche possibile che un segretariato leggero e senza pretese, ben differente da quello che il piano Fouchet prevedeva per “l’Europa delle patrie”, possa facilitare lo stabile incontro periodico dei Vertici europei e americani. Da una parte, cioè, il Presidente e il ministro degli Esteri dell’Ue, il Presidente della Commissione e il Presidente di turno del Consiglio Europeo, da un lato; dall’altro il Presidente americano, il vice Presidente e il Segretario di Stato dall’altro. Su un ordine del giorno che, per eliminare al possibile l’area fritta cerimoniale, dovrebbe vertere su un oggetto preciso e preventivamente discusso sia in sede di Consiglio dei ministri europei sia in sede di Gabinetto americano. Possono esservi altresì consultazioni periodiche tra rappresentanti del Congresso americano e del Parlamento europeo, direttamente organizzate dai segretariati dei due organismi, su questioni legislative o regolamentari d’interesse comune. Non poche questioni emotive o di costume che separano politicamente europei ed americani potrebbero forse, così, essere superate: in fondo, come si dice comunemente, quattro occhi vedono sempre meglio di due.

VI-3) Di maggiore importanza impatto ed eco avrebbe la realizzazione di un mercato unico euro-atlantico. È un’idea che ha incontrato finora perplessità: ma occorrerebbe non darvi troppo rilievo anche perché, quanto a perplessità, quelle che a suo tempo circondarono l’idea del mercato unico europeo erano ben maggiori. Un mercato unico atlantico, come già si diceva, sembra omogeneo all’era globale così come quello europeo era parallelo all’età delle economie regionali. Esso costituirebbe un sicuro strumento di quella crescita economica di cui gli Stati Uniti e gli Stati dell’Unione Europea hanno eguale profondo bisogno. In materia gli studi di carattere tecnico-economico si sono addensati nell’Ue, fin dall’epoca di Romano Prodi. Ma è chiaro che il mercato unico, ancor più che un obbiettivo economico in sé valido, sarebbe il simbolo e l’espressione della nuova vicenda politica apertasi tra il vecchio e il nuovo Continente. Sotto veste economica si profilerebbe, in realtà, una volontà di intesa politica dell’Occidente: qualcosa, cioè, di immediato valore politico internazionale il cui peso interesse e significato si è in precedenza notato e su cui è superfluo dilungarsi. Tra l’altro, quello del mercato unico sembra uno dei progetti più efficaci per schierare forze d’urto poderose contro il nazionalismo economico e politico risorgente in Europa. E si potrebbe pensare, per gli aspetti istituzionali, a una struttura leggera similare a quella messa in piedi dal mercato Usa-Canada-Messico, già sperimentata nel Continente americano.

VI-4) La Nato è la struttura, ben organizzata e pesante, in cui fino a questo momento si è realizzata la più intensa collaborazione fra americani ed europei. È utile che vi si lavori con razionalizzazioni tecniche che ne livellino il
peso finanziario, come oggi è indispensabile; ma è utile anche che non venga indebolita. Realizzata nell’epoca del bipolarismo Usa-Urss, essa stenta a trovare una nuova funzione nel mondo diverso nato nel 1989 dalla “rivoluzione in Europa”, secondo l’espressione di Dahrendorf. Non può oggi assumere altro che il carattere di una sorta di riserva militare della politica, tanto più utile quanto meno ve ne è bisogno. La Nato in altre parole dovrebbe mantenere intatte la sua struttura e la sua efficienza; ma non può costituire lo strumento della politica internazionale di tipo nuovo che il nuovo secolo sta disegnando. Oltre tutto, la prontezza con la quale si muovono i soggetti internazionali, e la rapidità con cui mutano le situazioni, accentuano la necessità di presenze politiche, non di strutture militari. Se solo si guarda alle aree di crisi nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, subito si scorge quale è il tipo di risposta che richiedono i mutamenti già verificatisi e quelli che inevitabilmente li seguiranno. Per fare un solo esempio: fino a ieri la Turchia era l’anello di chiusura della Nato, in una posizione importante rispetto all’ostile mondo sovietico; quando questo si è sciolto, la funzione e la vita della Turchia si sono rivolte verso l’Unione Europea; la sua sostanziale ostilità all’ingresso in Europa l’ha adesso spostata, come già si diceva, sul versante Medioorientale, dove punta a minori tensioni e maggiore destino: Attraverso, appunto, la politica.

VII° - Conclusioni, la ripresa dell’integrazione europea nell’unità atlantica

VII-1) Se si domanda, legittimamente, quali siano le forze che possono mettere in moto questi processi, dove stia la capacità di iniziativa politica, dove la leadership idonea a condurla, occorrono risposte che non puntino a carismaticità inesistenti ma alla necessità di consapevolezze diffuse. La situazione europea che si visse nel secondo dopoguerra può rappresentare un utile esempio. Allora, l’idea dell’integrazione veniva violentemente ostacolata da un potente movimento comunista internazionale ed era alimentata, all’inizio, solo da poche personalità del mondo politico e intellettuale, Jean Monnet, Lionel Robbins, Carlo Sforza, Henry Brugmans, Luigi Einaudi, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi fra i primi. La loro capacità di analisi, l’urgenza dei problemi obbiettivi, il dialogo politico, la decisione degli Stati democratici di sopravvivere, ebbene fu questo che si impose: trovando, come era naturale, i leader indispensabili per avanzare sul terreno sconosciuto da percorrere: e vennero gli Schuman, gli Adenauer, gli Spaak, i De Gasperi. Anche oggi la battaglia culturale e politica, l’analisi fredda delle cose, il rifiuto di ideologismi vecchia maniera, l’abbandono di pregiudizi legati spesso ad insufficiente conoscenza storica, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, è tutto questo che apre a cammini nuovi e a forze dirigenti più giovani.

VII-2) Occorre partire da alcune conclusioni certe: che è terminato il cinquantennale ciclo europeo iniziatosi nel 1949; che l’Europa non può stare senza dimensione politica; che per avere peso nel mondo d’oggi ha bisogno di un unico indirizzo strategico sui maggiori problemi internazionali; che gli indirizzi politici si portano avanti con gli strumenti storicamente possibili, quali sono tornate ad essere le realtà istituzionali nazionali; che la crisi economico-finanziaria dei paesi occidentali ha bisogno di determinazioni adeguate e comuni per assicurare prospettive di sviluppo più sicure; che a questo fine occorre una più stretta collaborazione tra i due pilastri storici della politica Atlantica, entrambi in difficoltà sulla questione cruciale della crescita economica e dell’occupazione; che una tale intesa sarebbe inizialmente favorita, e poi sostenuta nel tempo, dalla collaborazione euro-americana sui grandi problemi internazionali di questi decenni; che i principali di essi, ai di là dei momenti di crisi in differenti areee, sono la crescita industriale e civile delle nazioni emergenti, la rivoluzione interna al mondo islamico, il raccordo fra i problemi economici e quelli scientifici e tecnici relativi ai mutamenti climatici, alla tutela ambientale, alla durata della salute; che ai fini di soluzione valide i grandi problemi non esigono il confronto fra una miriade di Stati ma di pochi grandi blocchi entro i quali maturino convinzioni sufficientemente omogenee di opinioni pubbliche divenute ovunque più forti.

VII-3) Ecco, se si parte da queste conclusioni e dalle analisi che ne conseguono, allora il quadro che si è cercato qui di disegnare dovrebbe esser considerato più realistico e meno problematico di quanto possa apparire a un primo sguardo. Certo, tenere insieme un processo in crisi, come quello dell’unità europea, e un processo in via di formazione, come quello dell’unità atlantica, non sarà mai facile. Tuttavia diverrà anche più difficile se i due processi saranno visti come divergenti od opposti. Al contrario, i tempi e i modi di entrambi sono interrelati. L’integrazione europea, dopo la moneta unica per 17 nazioni, non può procedere se non in un quadro politico più generale che attenui le diffidenze, o gli impulsi alla chiusura, da cui sono mossi oggi parecchi Stati, anche dell’Unione Monetaria. E d’altra parte non è senza significato che nella crisi presente sia gli Stati Uniti sia la Gran Bretagna, con le loro monete irrinunziabili, abbiano chiesto esplicitamente agli europei di stringersi meglio fra loro su un terreno comune. Ma ci si deve limitare alla intesa fra le Banche Centrali o si deve andare oltre? Non è forse significativo che per mille ragioni l’Europa continui a considerare ineliminabile il rapporto con gli Stati Uniti? E non è egualmente significativo che negli Stati Uniti cominci a manifestarsi la propensione a considerare l’Europa non meno ma più importante nell’epoca in cui i Piccoli di un tempo stanno sopravanzando i Grandi? Non è forse vero che sotto aspetti molteplici normalmente trascurati dalla politica (ma in realtà sempre più impegnativi, da quello demografico a quello migratorio e a quello economico) le due rive dell’Atlantico sono di fronte alle stesse montagna da scalare? E nel mondo globale, dove operano grandi e nuove realtà ricche di differenti ispirazioni ed orientamenti, le due entità atlantiche fondate sugli stessi principi hanno davvero convenienza a marciare divise? Cerro, è frequente l’osservazione che negli Stati Uniti si considerano gli Stati europei come alleati irrequieti e difficili. È un dato da tenere presente, seppure anche gli europei abbiano spesso qualcosa da rimproverare agli Usa. Però, probabilmente, non ha torto chi osserva che verrà presto il giorno in cui saranno proprio gli Stati Uniti a sollecitare l’unità politica dell’Europa per poter meglio arrivare ad intese sicure, come del resto già fecero all’epoca del conflitto con l’Unione Sovietica staliniana.

VII-4) Questa proposta di politica europea per il 21° secolo vorrebbe rappresentare anche un contributo a combattere quel sentimento di declino che circola largamente nel vecchio Continente. È difficile, in effetti, che esso riesca a dotarsi di una forza politica maggiore di quella odierna senza giungere a una più armonica unità di intenti con lo storico alleato americano. Né si riesce a comprendere come l’obiettivo di dare maggiore spazio di successo ai tratti “universali” della civiltà europea, possa prescindere dalla strategia di un Occidente più unito e perciò più capace di iniziativa, con respiro non solo economico ma politico culturale e morale. Sarà dunque solo il vigore dell’iniziativa dell’Occidente, non la prosecuzione dei tragitti tradizionali, che permetterà all’Europa la ripresa dei processi di integrazione e il rafforzamento dei poteri sovranazionali di istituzioni ringiovanite. C’è un nesso tra iniziativa occidentale e unità europea che è ormai evidente, anche se non è stato ancora provato. Ma non si sbaglia constatando che i percorsi finora seguiti dal vecchio Continente sono arrivati di fronte ad un muro che deve essere aggirato per poter continuare il cammino. Alla classe dirigente europea servirebbe dunque visione strategica e capacità tattica. E servirebbero, più che rimpianti per il buon tempo andato, volontà e senso del futuro. Si è, complessivamente, di fronte agrandi questioni che rifuggono da pensieri brevi. È indispensabile la presenza di nuove forze e di nuovi leader. Essi non hanno ancora invaso il campo della politica ma sembrano richiesti con chiarezza da tutta un’analisi non ideologica della realtà contemporanea. E dunque può pensarsi legittimamente che, prima o poi, e certo meglio prima che poi, siano destinati ad arrivare, e ad unirsi a quanti già operano nello stesso senso sulla grande scena della politica, dell’economia e della diplomazia.
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