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Da Berlusconi a Monti
di G. G.
Siamo con la situazione italiana sempre, più o meno, allo stesso punto. O, meglio, eravamo fino al vertice europeo del 23 ottobre, quando sono emersi in sede europea come mai prima dubbi forti su una debolezza dell’Italia nell’affrontare i problemi della crisi globale in atto e su un rischio di grandi difficoltà italiane su questo piano, e vi è stato il sin troppo noto episodio delle risa o dei sorrisi con cui da parte francese e tedesca sono state commentate le dichiarazioni di Berlusconi sui propositi italiani al riguardo.
Fino al 23 ottobre si poteva, più o meno, ragionare così, seguendo, peraltro, il filo di discorsi che si protraevano da qualche tempo con una certa monotonia:
«Il governo ha ristabilito la sua maggioranza in Parlamento, ma parlare di un suo rafforzamento è piuttosto difficile. Immediatamente ricominciano quelli che sono chiamati “mal di pancia”: termine molto volgare, che da solo dà l’idea di un non trascurabile, anzi profondo deterioramento del costume, della riflessione e del dibattito politico nella vita pubblica italiana degli ultimi anni. E i “mal di pancia” sono il meno. Ben più grave è che resta oscillante la linea del governo non solo e non tanto per quel che riguarda la politica economica e finanziaria, e, quindi, alla fine, anche la politica sociale, quanto per ciò che riguarda le prospettive politiche alle quali l’azione del governo dovrebbe mirare e alle quali questa azione dovrebbe condurre la sua maggioranza e il paese. Per l’economia e la finanza si tratta, infatti, pur sempre di un ambito profondamente condizionato dalla situazione globale. Molte decisioni sono obbligate. Alcune scelte, a meglio guardarle, non sono tali, ma rispondono, piuttosto, a spinte della situazione o a provvedimenti e decisioni nascenti sul piano internazionale o, comunque, in sede sopranazionale. Il campo che più rimane aperto all’iniziativa nazionale sembra pur sempre quello fiscale, e su questa materia le opinioni e le scelte possono essere molto diverse. Almeno fino ad ora, nessun paese investito seriamente dalla crisi ne è uscito, infatti, a quel che pare, soltanto o principalmente per la via di una sia pur energica stretta fiscale. Le vie che sono giudicate migliori, e che tali sono ritenute in base ai loro effetti, sono quelle rivolte, da un lato, alla riduzione della spesa pubblica (con conseguente abbattimento del debito nazionale) e, dall’altro lato, all’incremento dell’attività produttiva e del PIL. Due direzioni in ordine alle quali la leva fiscale può essere di forte sostegno ed è, comunque, indispensabile, anche in forte misura, ma, sempre a quel che appare, non è risolutiva.
È quindi, probabile che, da questo punto di vista, i mutamenti dell’attuale governo e maggioranza, e perfino un avvento dell’opposizione al potere, non riescano affatto, ove si verificassero, quella panacea miglioratrice dell’attuale stato delle cose, che i fautori di un tale avvento dicono di credere. Ma questo governo è – ciò premesso – in grado di indicare al paese sulla base di quale assetto politico si debba sviluppare il corso futuro delle cose italiane e dove debba portare questo corso non solo rispetto alla crisi, ma anche al di là di essa o, eventualmente, in costanza di tale crisi? È in grado di farlo la maggioranza parlamentare che appoggia il governo? Oppure si pensa che non vi sia altro da fare che seguire il corso delle cose nella sua presente problematicità e incertezza e oscillante precarietà; e che il meglio sia rappresentato da una robusta capacità di adattamento a un tale lamentevole stato delle cose interne ed estere, in cui attualmente ci troviamo, sicché quella prospettiva che si desidera si configuri solo come un più o meno accorto, ma permanente barcamenarsi fra gli scogli della crisi globale?
Sono cose che, in modo vario a seconda dei momenti e dei problemi, abbiamo detto qui di frequente. Il solo fatto che si sia costretti o indotti a ripeterle è, peraltro, un indizio, minore quanto si voglia, dello stato delle cose. E come si fa a pensare e a dire altre cose, se nella maggioranza, al di là della compattezza, importantissima e volta per volta decisiva, dimostrata in occasione dei voti di fiducia in Parlamento, la fibrillazione (ed è un po’ eufemistico questo termine) è generale e costante?
Più o meno, e alquanto variamente formulato, il problema della successione a Berlusconi è sul tappeto. È incerto solo – ed è, però, questione grossissima – se la successione a Berlusconi a capo del governo significhi anche una conclusione della sua esperienza politica. Le indicazioni di Berlusconi (Alfano, Letta) per la successione non appaiono risolutive. Alfano, che pure si muove con un certo piglio, deve ancora dimostrare di aver messo salde radici nel suo partito. In questo partito i galli a cantare sono sempre di più. È diventato ridicolmente facile mettersi a capo di cinque o sei parlamentari o eletti nelle Regioni e in altre sedi, e proclamare la nascita di una nuova componente della maggioranza, avanzando richieste e pretese, il cui respiro politico è, pressoché sempre, davvero corto o cortissimo. La “rivoluzione liberale”, annunciata a suo tempo da Berlusconi, si è persa per la strada. Lo scenario più evocato è quello di una connessione sempre maggiore col partito popolare europeo; ma, data la composizione estremamente varia di tale partito, anche questo significa ben poco.
E che dire del ruolo della Lega nella maggioranza? Nella sostanza, la Lega rimane un autentico punto di forza della maggioranza, e il rapporto fra Bossi e Berlusconi dimostra di resistere, sia pure con qualche affanno, alle tempeste della congiuntura. Un dato nuovo è, però, che, più di ogni altro momento precedente, anche la Lega sembra cominciare a essere animata da tensioni e particolarismi di non trascurabile portata: basti pensare al permanente interrogativo che sembra sospeso su Maroni, o al dissenso addirittura sulle finalità federalistiche, per non dire secessionistiche, della Lega e sulla priorità da riconoscere ai valori dell’unità nazionale italiana, che è stato espresso dal sindaco di Verona, Tosi. Senza contare, inoltre, le notizie, non più tanto rare, di scontri e di eterodossie che si verificano in assemblee e congressi locali del partito. Bossi per ora sembra al comando, ma il dubbio sulla durata e l’efficacia della sua conduzione si è fatto strada in misura che fino a pochissimo tempo fa non appariva probabile.
Quanto all’opposizione, ci risparmiamo le notazioni che abbiamo altre volte esposto sulla sua debolezza e sulla sua crescente incredibilità, nonché sulla evidente assenza di un progetto alternativo a quello (se progetto è) che la maggioranza traduce nei fatti del suo governo. E quanto al cosiddetto terzo polo, quel che ne appare più chiaro continua ad essere l’intenzione di prendere in mano le cose del paese, giocando sul valore determinate e sul ruolo interdittivo, di cui una anche modesta crescita dei suoi voti, congiunta alla crisi sia della maggioranza che dell’opposizione, darebbe ad esso la possibilità di giovarsi».

Così si poteva argomentare fino al 23 ottobre, e così avevamo scritto per questo editoriale. Dopo il 23 ottobre la situazione è indubbiamente cambiata, e ha reso necessaria la seguente continuazione del discorso:
«Dal vertice europeo del 26 ottobre, seguito a quello del 23, è venuta un’accettazione senza riserve del piano predisposto del governo italiano di misure, strutturali e non, per affrontare la crisi globale in atto, che per l’Italia, dicono, presenta margini di pericolosità non molto lontani da quelli che hanno portato la Grecia alla bancarotta. Questa opinione sembra, per la verità, non del tutto attendibile. I numeri dell’Italia in senso contrario sembrano notevoli, e per alcuni aspetti altri paesi europei, anche di quelli che più fanno la voce grossa, non appaiono messi molto meglio dell’Italia. Ma già questa considerazione porta a un problema di prima grandezza. Anche l’Italia sembra, infatti, essere rassegnata al duopolio franco-germanico in una funzione, in pratica, di guida dell’Unione Europea e di accettarlo senza troppe discussioni. Ma può questo stato di fatto tradursi in una condizione permanente dell’Unione e della sua gestione politica?
È vero. Germania e Francia sono i due paesi più potenti dell’area dell’euro, il primo per la sua complessiva forza economica, il secondo per la sua forza finanziaria. Ma, mentre la Germania non appare ancora investita da forti turbative della sua complessiva condizione, la Francia ha già ricevuto qualche segnale di attenzione, in senso negativo, da parte delle agenzie di rating, e ha inoltre, un debito pubblico non molto lontano da quello italiano (1.600 miliardi di euro contro 1.900), senza contare che il suo portafoglio nazionale è abbondantemente imbottito di titoli del debito greco e di altri paesi ritenuti a rischio. Né la congiuntura economica promette di essere in Francia molto migliore che in Italia, e neppure la Germania è immune da una tale prospettiva. In compenso l’Italia sembra avere banche complessivamente in migliori condizioni che altrove; ha un risparmio privato e un debito dei privati molto migliori che altrove; ed è sempre la seconda economia industriale dell’Unione dopo la Germania.
Dunque, il monopolio direzionale che nell’area dell’euro si sono arrogate Francia e Germania dipende essenzialmente dalla forza politica con la quale i due paesi hanno saputo imporlo e, di fatto, lo praticano; tanto è vero che, quando si tratta di problemi che investono tutta l’Unione e non solo la zona euro, il binomio franco-tedesco si trasforma in trinomio, con la partecipazione dell’Inghilterra: ossia, la partecipazione di un paese che, per l’appunto, politicamente, quali che siano le sue condizioni economiche e finanziarie (non buone, oggi), non accetterebbe mai una condizione di minorità rispetto a nessun altro paese in una Unione fondata sul principio di una libera associazione di paesi sovrani.
Affrontare questo problema è, dunque, ormai un problema di grande importanza della politica italiana (e se lo dovrebbero porre, invero, tutti gli altri paesi dell’Unione). Un problema che, peraltro, la condizione politica attuale del governo, considerata sia dal punto di vista della maggioranza che dell’opposizione non promette di essere davvero affrontato, a ragionevole scadenza, come si dovrebbe. Le reazioni seguite all’indubbio successo del governo al secondo vertice europeo lo dimostrano; e, per il momento, noi non vogliamo né commentare queste reazioni,né prevederne i probabili sviluppi. Ci limitiamo solo a dire, nell’attesa di tali sviluppi, che siamo ormai ancor più vicini a quel momento topico delle vicende italiane, del quale abbiamo cercato di dare conto, con una certa tempestività, e per quanto possibile, nelle analisi che fino ad oggi abbiamo sottoposto ai lettori».

Eravamo a questo punto, quando tra la fine di ottobre e i primi di novembre la situazione italiana ha conosciuto un’improvvisa accelerazione, che ha portato alle dimissioni del governo Berlusconi. Perché tanta improvvisa decisione? Non ne sappiamo niente, e preferiamo non azzardare altre ipotesi, al di là di quella più semplice, e cioè che l’interessato, ossia Berlusconi, abbia reso esplicita una presa di coscienza, che, forse, nel suo foro interiore aveva già presente, del gravissimo deterioramento a cui non soltanto il rallentamento progressivo dell’azione di governo, ma anche, e molto di più, il suo sconcertante comportamento pubblico e privato hanno portato, dissolvendo un successo trionfale come quello ottenuto alle elezioni del 2008. E, se è così, ha fatto bene a non avvalersi della maggioranza di cui ancora dispone in Senato e a non tentare una continua ricerca per raccattare un’esigua maggioranza alla Camera, come ha dimostrato di saper fare, ma infruttuosamente, dal dicembre 2010 in poi. Il videomessaggio che ha poi rivolto al paese sembra farlo pensare, e tocca ora a lui di dimostrarsi coerente a questa sua ultima (nuova?) linea.
Con una regia sapientissima, il presidente Napolitano ha saputo passare subito da un appena velato incoraggiamento alla crisi di governo a un deciso avvio alla soluzione di essa mediante l’incarico a Mario Monti (con la sorpresa della nomina, nel momento culminante, del professore a senatore a vita, avendo tutti capito l’intento politico di una nomina mossa da esigenze superiori a quelle richieste per una tale nomina). Naturalmente, il presidente Napolitano è il primo a sapere che il cambio alla guida del governo non è di per se stesso risolutivo; e sa pure che il senatore Monti non potrà che continuare, per una parte, nella politica economico-finanziaria del governo caduto. Ma sa pure che Monti ha una credibilità sicura e intatta nell’opinione internazionale; che il suo avallo dà al nuovo presidente del Consiglio un’autorevolezza che non può essere contestata più o meno allegramente o apertamente da nessuno; e che la forza della situazione italiana è tale da imporre, più che richiedere, certe linee di azione. Che il presidente della Repubblica abbia saputo far valere queste circostanze per avviare un certo corso politico e di governo è stata un vera fortuna per il paese. Ogni azione politica presenta sempre margini di rischio, e nessuno è infallibile. Ma non è un caso che all’azione del presidente Napolitano tutti, e non conta quanto convintamente e sinceramente, non abbiano potuto far mancare il loro plauso, perfino la Lega che in partenza non ne ha accettato la linea, e perfino Di Pietro, all’inizio così bellicoso (e certo piegato anche dall’accenno minaccioso di Bersani alle conseguenze che un suo atteggiamento negativo avrebbe avuto sulla futura alleanza elettorale di sinistra).
Ora la palla passa ai partiti e al Parlamento. L’interesse del paese a una gestione rapida dell’emergenza politica e finanziaria che si attraversa è fin troppo evidente. E c’è un solo augurio da fare: che il governo Monti possa fare presto e bene quelle azioni di politica economica e finanziaria e di tutela della dignità e del ruolo internazionale dell’Italia che il governo Berlusconi, in definitiva, non ha saputo o potuto avviare (e certo anche, se non soprattutto, per il grave deterioramento della figura del capo del governo). I partiti e il Parlamento non possono (o non potrebbero) e non debbono (o non dovrebbero) mancare di farne il conto dovuto. E qui per ora, all’atto dell’incarico a Monti, è opportuno fermarsi.
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