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Nord-Est e Mezzogiorno
di Piero Craveri
Un numero de Quaderni di economia italiana, curato da Mariano D’Antonio col titolo Il Mezzogiorno. Dall’intervento straordinario alla politica regionale europea, presentato da Paolo Savona, costituisce, attraverso i suoi numerosi saggi ben documentati, un assai utile consuntivo dello stato dell’arte. Prima di entrare nel merito avanzo un’osservazione, che non vuol essere una critica, ma un necessario complemento di analisi. Il discorso complessivo dei saggi in questione è volto a sondare, nelle odierne condizioni generali di sviluppo dell’economia italiana e della sua integrazione in quella internazionale, la via in fine non procrastinabile, perché senza alternative, di uno sviluppo “endogeno” dell’economia meridionale ed ad individuare i fattori di interrelazione col sistema economico nazionale ed europeo che possano aprire questa strada.
Se questa è un’ipotesi virtuale possibile, pur nelle difficoltà che la realtà pone, quello che mi sembra più difficile è delineare un percorso di mutamento “endogeno” delle istituzioni politiche meridionali, che sono un anello indispensabile di quello più generale socio-economico. Qui la caduta verso il basso non dà segni di possibile ripresa. La riflessione che intendo fare riguarda in primo luogo la Campania. Altre regioni meridionali si trovano in condizioni diverse ed ognuna richiede un’analisi a sé, ma tutte lamentano un intreccio di problemi, tra classe politica, classe amministrativa e componenti diverse della società, che tende piuttosto a somma zero in fatto di un’evoluzione capace di sostenere le nuove determinanti di sviluppo economico.
Viene poco considerato il fatto che le vicende ultime, ma non solo, anche l’impoverimento generale del tessuto politico che si è determinato in questi anni, hanno portato ad un pressoché totale azzeramento di quell’autorevolezza delle istituzioni politiche locali che sola permette l’esercizio di funzioni di governo. In un sistema rappresentativo il ceto politico trasmette orientamenti e interessi che sono propri del corpo elettorale all’interno delle istituzioni, ma a partire da questo deve essere anche in grado di rendere operanti le funzioni di governo al cui scopo le istituzioni stesse sono costituite. Le istituzioni politiche danno principalmente vita proprio a questo circuito dal basso in alto e dall’alto verso il basso. Ora il sistema delle istituzioni campane ha del tutto perso il secondo anello di questo circuito, non è più in grado di trasmettere nessuna direttiva generale di governo. La responsabilità politica di ciò è da imputare in primo luogo all’attuale maggioranza di governo della Regione, ma non si ferma qui perché la minoranza è stata in questi anni compartecipe di questo processo di esaurimento della funzione politico-istituzionale, tanto che lo stesso ricorso al momento elettivo difficilmente determinerà un mutamento, ma al più una mutuazione.
Questa perdita di autorità della classe politica è derivata da una carenza di capacità di governo che, nella forma in cui si è manifestata, non era davvero prevedibile. Nella storia postunitaria mai Napoli era caduta così in basso. Più grave ancora è che questa caduta si presenta come un punto di non ritorno. Sono infatti pressoché scomparse le forme elementari di formazione e ricambio della classe politica. Fenomeno questo che si presenta come problema nazionale, ma a Napoli assume connotati abnormi.

***


Il sistema politico nazionale, così come si è evoluto alla data di oggi presenta caratteristiche peculiari rispetto agli altri paesi europei, dove le vecchie tradizioni politiche socialiste, cattoliche, conservatrici e liberali sono trasmutate in questa fase della contemporaneità, mantenendo un legame di continuità col passato. Questo vuol dire che abbiamo nei paesi europei “partiti” nel senso tradizionale del termine, per quanto mutati, anche profondamente, nei loro plurimi rapporti con la società. In Italia dall’Europa sembra si sia mutuato soltanto il modello prevalente di sistema politico basato sull’alternanza, con basi assai fragili, perché fondate su leggi elettorali provvisorie e discutibili e solcate da una contraddizione pluridecennale relativa al modello costituzionale da adottare, che vede procedere in parallelo due obbiettivi, quello di una più accentuata regionalizzazione (il cosiddetto federalismo) e quello di un rafforzamento del governo centrale con una ridefinizione dei suoi rapporti col potere legislativo (ed anche invero con quello giudiziario) e con il preconizzato (e in parte attuato) nuovo assetto di poteri regionali.
Ma la caratteristica precipua del nuovo assetto del sistema politico italiano è quello di essere costituito da due blocchi di forze politiche, che non hanno carattere di “partiti” nel senso tradizionale del termine, né è chiaro quale forma-partito verranno ad assumere nel prossimo futuro. L’unica cosa certa è che il legame di continuità con la tradizione politica quasi secolare del passato è stato definitivamente rotta. Fino a ieri avevamo, pur se sotto mentite spoglie, comunisti, neofascisti, cattolici presenti nell’arena politica. Oggi si è andati oltre anche questi residuali presupposti. Il sistema partitico italiano ha assunto caratteristiche che potremmo dire “americane”, senza tuttavia la struttura e la tradizione dei partiti americani, per non dire della necessaria cornice costituzionale.
Sono formazioni partitiche che pretendono avere un carattere ideologico e in effetti hanno perso quell’ancoraggio senza darsi altri contenuti plausibili. Sono inoltre formazioni politiche, per quanto diffuse sul territorio nazionale, senza struttura istituzionale, governate da gruppi oligarchici, senza regole interne di selezione della classe dirigente. Non sappiamo quali procedure si darà per procedere alla suo definitivo assetto il PdL. Il PD attraversa ancora la sua fase costituente. La formula delle primarie, che ne ha contraddistinto la fase di avvio, può difficilmente divenire il criterio elettivo dei suoi gruppi dirigenti. È, tra l’altro, una forzatura di questo strumento selettivo che ha la sua funzione propria con riguardo alle cariche elettive, e neppure tutte.
Negli Stati Uniti, ad esempio, caratterizza la individuazione delle candidature per il Presidente, i Governatori, i Senatori, non altrettanto per la Camera dei Rappresentanti e per le Assemblee degli Stati, il che dovrebbe insegnare qualcosa a un sistema costituzionale quale quello italiano.
Va considerato tuttavia che questo vuoto istituzionale della forma-partito a livello nazionale è caratterizzato da dinamiche molto diverse a livello regionale. Qui in alcune regioni, a livello delle istituzioni locali, il vuoto è stato riempito da un amalgama nuovo tra società produttiva, classe politica, amministrazioni locali. Nell’ultimo ventennio il tessuto sociale del Nord è mutato profondamente, seguendo le modifiche strutturali del sistema produttivo. Proprio da queste ultime è nata l’eclisse delle vecchie forme di rappresentanza tradizionalmente legate ai partiti e sindacati e alle organizzazione degli interessi diffusi. La disarticolazione del sistema produttivo, soprattutto nel settore dei servizi alle imprese, ha dato la spinta verso un processo di terziarizzazione che ha reso più molecolare il tessuto sociale. Il sistema produttivo è andato, d’altra parte, adeguandosi ai parametri di competitività dettati dal mercato internazionale in termini di flessibilità, articolazione, pluralità funzionale del sistema. Un processo di trasmutazione che ha visto un parziale declino della grande impresa e una stabilizzazione centrata su un sistema di medie e piccole imprese. Questa trasmutazione richiede il prodursi di sistemi a rete con base territoriale, in cui anche i servizi pubblici hanno un ruolo decisivo e in cui l’insieme dei processi richiede gradi elevati di comunicazione e integrazione. Si è proceduto assai oltre la tradizionale dimensione del “distretto produttivo”. Resta sempre un deficit assai alto al Nord di grandi infrastrutture pubbliche. Quello che ha marciato in questi anni è stata proprio l’azione territoriale operata dagli enti locali, regioni, province e comuni, rispetto a cui vanno considerate due dimensioni diverse, quella delle grandi aree urbane e quella delle aggregazioni su scala più ridotta. È interessante notare come nelle regioni settentrionali il fenomeno della Lega Nord si sia radicato in queste seconde, creando un’efficace rete di amministratori locali, senza riuscire ad egemonizzare invece più complessi agglomerati. Il Piemonte e la Liguria hanno riflesso questa divisione anche politicamente: le aree postfordiste, torinese e genovese, sono state di appannaggio della sinistra, le province della destra. La stessa distinzione in Lombardia e Veneto passa, invece, tra Forza Italia e la Lega. Ancora diversa la situazione delle regioni del Centro in cui si è piuttosto assistito alla tenuta difensiva del vecchio modello di integrazione sociale comunista, con qualche sopraggiunta crepa, di cui sia il fenomeno dell’emigrazione, sia quello del contenimento delle spinte conflittuali socio-politiche dell’estrema sinistra sono il sintomo più evidente.
Di questi processi le nuove élites politiche locali sono protagoniste e coprono al loro livello il vuoto politico e strutturale delle attuali forme-partito. Come queste si integreranno nei nuovi modelli nazionali di partito che dovranno essere messi a punto nei prossimi anni è vicenda cruciale dell’evoluzione del nostro sistema politico di cui è difficile intravedere nelle attuali premesse una qualche soluzione plausibile.

***


Processi analoghi di ristrutturazione del sistema produttivo e di conseguenza della struttura sociale sono assai più marginali nella realtà meridionale. È, tuttavia, presente una pluralità di linee di tendenza di cui bisogna tener conto. Da questo punto di vista analisi macroeconomiche generali sull’intera realtà del Mezzogiorno, per quanto sempre utili a fissare alcuni presupposti, come quelle che in questo Quaderno si evincono dal saggio di Mariano D’Antonio, possono essere perfino distorsive. Senza lavori micro di natura socioeconomica non potremmo oggi svolgere un’analisi appropriata, come invece siamo in grado di fare, della “questione settentrionale”.
Si prenda ad esempio il recente studio della Svimez su Federalismo e Mezzogiorno (22 febbraio 2007). L’attenzione è posta sugli effetti della annunciata attuazione di un disegno di federalismo fiscale. Le proposte che sono in discussione delineano un quadro estremamente negativo per le Regioni meridionali. Senza un indirizzo di trasferimenti aggiuntivi statali al prevedibile gettito fiscale delle regioni meridionali, lo stesso livello standard di servizi pubblici, già ora di fatto inferiore in termini di qualità ed efficienza nel Mezzogiorno, rischia di essere messo in discussione in termini di capacità della spesa pubblica. Se a questo si aggiungono le spese delle infrastrutture pubbliche e le politiche di sostegno dell’attività produttiva che si presumono indispensabili allo sviluppo del Mezzogiorno, il gap torna ad essere incolmabile.
Questa constatazione non può, tuttavia, oggi politicamente risolversi in una presa di posizione centralistica ed antifederalistica. Le Regioni meridionali, d’altra parte, non sembrano quasi partecipare al dibattito che accompagna l’introduzione del federalismo fiscale. Ma il problema ulteriore è che nessuna Regione meridionale, al di là del fissare di volta in volta i propri deficit di settore, ha presente quali siano i propri fabbisogni rispetto a determinati standard, anche questi a priori determinati e quindi perseguiti come obbiettivi, è tanto meno ha un’idea di quali siano le proprie necessità infrastrutturali in relazione ai problemi di sviluppo economico e produttivo. Manca, inoltre, un necessario coordinamento tra Regioni che faccia emergere i fabbisogni complessivi in relazione a queste ultime necessità in termini di progettazione ed intervento. Da questo punto di vista l’eliminazione di strutture centralizzate a ciò preposte non è stato sostituito da alcune forma di procedure e strumenti.
Eppure questa capacità progettuale, e una nuova capacità esecutiva rispetto ad essa, diventano nei prossimi anni a venire indispensabili, perché la politica dei trasferimenti necessariamente cambierà. Sarà sempre più difficile accrescere semplicemente un’indistinta capacità di spesa per le Regioni meridionali. Avremo piuttosto trasferimenti a progetto e ad obbiettivi di settore. Le amministrazioni locali meridionali non sembrano essere preparate a ciò e le strutture di ricerca che nel Mezzogiorno si occupano di questi problemi dovrebbero orientarsi a contribuire a questo necessario mutamento di impostazione intellettuale e politica, nonché porre il problema politico-amministrativo nel Mezzogiorno, della necessità di un radicale mutamento dei loro obbiettivi e delle loro strutture.

***


Di recente la Regione Campania ha visto aprirsi una polemica tra l’assessore alle attività produttive, Mariano D’Antonio, e il responsabile dei fondi europei, Isaia Sales. L’assessore ha criticato Sales per una progettazione di interventi che ha definito “a pioggia”, provocandone le dimissioni. Dal canto suo, a questo fine, l’assessore ha riaperto un tavolo di consultazione con le parti sociali. L’obbiezione di principio dell’assessore è condivisibile. Il metodo alternativo avviato è, invece, la dimostrazione che in Campania la progettazione non sa altrimenti essere concepita che “a pioggia” e come una tale stortura di indirizzo politico e di capacità amministrativa non possa essere risolta nel breve periodo, richiedendo chiarezza di idee circa gli obbiettivi da perseguire e grande capacità di innovazione delle strutture amministrative.
D’altra parte, in Campania abbiamo assistito al tracollo dell’Ente regionale. Bassolino ha fortemente incrementato, nonché posto su nuove basi la vecchia, tradizionale struttura amministrativo-clientelare. Vi ha portato una sola innovazione, verticalizzando tutti i processi di spesa regionale, riservando a sé stesso, sulla base di essi, i criteri di mediazione politica e clientelare. Non ha potuto contare sulla continuazione del buon tempo antico, rispetto a cui ha inoltre mostrato una minore capacità politica e progettuale sui problemi generali di indirizzo, come del resto la vicenda dei rifiuti mostra in modo drammatico. Quello che non ha messo in conto è che gli attuali flussi di spesa pubblica, assai minori che nel passato, non sono sufficienti a reggere il funzionamento del vecchio sistema clientelare. Causa non secondaria dell’ampliarsi dell’area dell’illegalità diffusa. Si è così, a Napoli, approfondita una divisione, sempre esistita, tra due aree, che c’è sempre stata, una legale, terziaria, produttiva e commerciale, a largo sostegno clientelare, un’altra illegale. Il problema nuovo e grave è oggi costituito dal fatto che l’area illegale ha preso il sopravvento su quella legale. Il fenomeno del crollo della rappresentanza politica a cui abbiamo accennato all’inizio ne è una conseguenza. Si è creato un mix di comportamenti che ha carattere anarchico e rispetto a cui si può contare solo sulla residua forza pubblica dello Stato.
Questo apre un’ulteriore riflessione sul tema della legalità. La legalità, anche nel Quaderno da cui siamo partiti, è assunta come precondizione indispensabile di un processo di sviluppo. Eppure, questo è un obbiettivo assai difficile da perseguire nell’area napoletana. Qualche settimana fa il Capo dello Stato, in un suo intervento nella sede dell’Università Suor Orsola Benincasa, ha fatto cenno al fatto che i rifiuti tossici, che da più di un ventennio vengono versati in Campania, provengono in massima parte dal Nord. Giorni dopo un colonnello dei carabinieri, preposto a un’indagine su questo tema, ha chiarito la natura di questo processo. Rifiuti che partono dal Nord con normali bolle di carico, attraversano tutto il territorio nazionale e in determinati luoghi della Toscana e del Lazio mutano queste ultime in nuove bolle di carico, senza nessun intervento reale di depurazione, attestando una trasformazione che non c’è stata di questi rifiuti da nocivi a depurati, e come tali formalmente in fine sversati in Campania nelle discariche abusive. Da questa dichiarazione si apprende anche che la camorra non gestisce questo traffico, ma controllando il territorio, interviene prelevando una tangente dalle imprese preposte a questo traffico illecito, commisurata al loro guadagno. Si evince così, inoltre, che da decenni la camorra ha il controllo del territorio, lo Stato invece no.
Un’altra considerazione necessaria sulla illegalità riguarda i comparti produttivi in cui essa particolarmente si manifesta, abbigliamento, conceria e quant’altro. Sono attività produttive consistenti, senza le quali l’area napoletana sarebbe messa in ginocchio. L’illegalità consente di mantenere un livello dei prezzi concorrenziale con i prodotti asiatici. Ci sono pochi studi a riguardo. Per comparazione, recenti rilevazioni riguardanti la Puglia ci mostrano che in quella regione il declino delle produzioni tradizionali è stato in questi anni fortissimo. Per loro natura queste attività produttive subiscono ed intrecciano relazioni con la criminalità organizzata. Ma non vanno confuse con essa. “Gomorra” è un adagio comprensivo di realtà diverse, appropriato nel descrivere il filo di illegalità che le lega, ma non altrettanto nel rilevare i problemi socio-economici che ne conseguono. Il problema della emersione legale, o almeno semi legale, di queste attività produttive rimane un tabù, avvertito, ma mai affrontato e risolto dalla politica locale, perché non può avere forma clientelare, come spesso ha avuto.
Un sistema impantanato che non offre prospettive moltiplica, naturalmente, i fattori negativi che agiscono sul tessuto sociale. E forse il dato peggiore della situazione campana sta nella mancanza di qualsiasi iniziativa politica nuova che apra almeno un processo virtuale positivo.
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