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Fare un po' il punto sul Mezzogiorno*
di Giuseppe Galasso
Non dovrebbe essere difficile, tutto sommato, fare il punto, oggi, sul Mezzogiorno. Gli studi e le informazioni statistiche, sia sul piano economico che sul piano sociologico e culturale, non scarseggiano (semmai, sono ridondanti fino al punto di possibili sviamenti o confusioni delle analisi che ne dipendono). Anche sul piano delle idee la condizione prevalente è, non senza una nota di paradossalità, piuttosto quella di una sovrabbondanza che di una scarsezza, e la condizione degli studi sul Mezzogiorno è, senza dubbio, di molto più avanzata e più ricca di quella della ripresa meridionalistica all’inizio del periodo post-fascista. Perciò il problema non è, quindi, quello di una certa pochezza culturale che alcuni pensano di poter imputare alla discussione meridionalistica attuale, anche se di questa discussione non poche appaiono le deviazioni distorcenti e fuorvianti, e anche se casi di vera e propria pochezza culturale non vi mancano affatto (ma distorsioni, fuorviamenti e pochezza non mancavano affatto neppure nel “vecchio”, né mancano mai in qualsiasi moto di cultura).
Il problema essenziale appare, dunque, perciò, da tempo quello delle scelte necessarie per operare sulle basi cognitive di cui oggi si dispone. Appare, cioè, essere il problema della politica che opera, più di quella che si informa, studia e riflette, pur restando del tutto pacifico (e non varrebbe neppure la pena di precisarlo) che informazione, studio e riflessione non si intendono, con ciò affatto conclusi, essendo anch’essi una dimensione imprescindibile della politica che sceglie e opera, e anzi un suo accompagnamento indispensabile al suo farsi e nel suo prendere consapevolezza dell’azione che svolge e dei relativi esiti. Né ha, perciò, molto senso che si distingua fra la politica o le scelte generali, che sarebbero petizioni poco concrete e poco vicine alla realtà, cosa più da politici e da intellettuali che da effettivi e pratici operatori sul campo, e le richieste particolari e specifiche che vengono formulate da tali effettivi e pratici operatori. Dovrebbe, infatti, essere chiaro che le richieste particolari e concrete hanno diritto alla massima possibile comprensione e a ogni appoggio possibile, ma sempre nel quadro di un senso generale di governo e di disegno politico e amministrativo, economico e sociale, del quale nessun tipo di politica degna di questo nome può fare a meno. E proprio l’esperienza, innanzitutto, insegna che il “concretismo”, così come il particolarismo, può generare inconvenienti per nulla minori di quelli tanto spesso attribuiti o attribuibili all’astrattismo e alle genericità delle dottrine e degli intellettuali.
È ormai acquisito sul piano statistico che i principali indicatori socio-economici concordano nell’indicare al 60% il livello complessivo di sviluppo dello stesso Mezzogiorno rispetto a quello della restante Italia. Da questo punto di vista dovrebbe anche essere pacifico che si tratta di un livello non superiore a quello di cinquant’anni fa, intorno al 1960. Livello che aveva fatto registrare dopo di allora un progresso, sia pure sempre entro margini ristretti, poi riassorbito nelle vicende degli ultimi decennii. Ugualmente acquisito dovrebbe essere che le politiche tentate nella ormai non breve storia dell’Italia repubblicana ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno non sono approdate al conseguimento del loro scopo. Il Mezzogiorno si è trasformato nel sessantennio repubblicano molto di più di quanto non si fosse trasformato nel sessantennio tra l’unificazione politica del paese e l’avvento del fascismo, ma il divario di condizioni tra la parte più sviluppata e la parte meno sviluppata della nuova Italia, di cui dopo i primi venti o trent’anni di unità si prese piena coscienza, non solo si è gradualmente consolidato, ma è andato addirittura ampliandosi. Ed è anche da dire che l’area più avanzata dello sviluppo del paese, inizialmente limitata al triangolo Genova-Torino-Milano, si è trasformata in un molto più esteso poligono irregolare che va dalle province pre-alpine alla maggior parte di quelle dell’Italia centrale, e comprendendo in sé, in ultimo anche, dopo alquanto più di un secolo di unità, le provincie del Nord-Est, a lungo rimaste in condizioni di poco migliori di quelle del Mezzogiorno, e, come quest’ultimo, terra di povera e poverissima emigrazione. Altrettanto, malgrado la «politica speciale» a suo favore, non è accaduto per le regioni meridionali e insulari, che pure, come già abbiamo notato, non sono affatto rimaste immobili e hanno fatto anch’esse registrare mutamenti cospicui.
La negatività di queste constatazioni è accresciuta, poi, dal fatto che per alcuni versi il divario fra le due Italie è stato peggiorato, per così dire, nella qualità, pur nella staticità tendenziale delle sue dimensioni statistiche; e a nostro avviso questo criterio del “peggioramento qualitativo” è un punto nuovo che bisogna far valere con la massima chiarezza e i dovuti approfondimenti nei discorsi sul Mezzogiorno.
Intendiamo riferirci con ciò innanzitutto al peso assunto dalla malavita organizzata nella vita sociale e morale, oltre che economica, delle regioni meridionali. Questo peso configura ormai non più soltanto una patologia sociale, ma una vera e propria degenerazione sia del tessuto sociale che delle sue dinamiche attuali e tendenziali. In altri termini, la malavita si configura da un lato, come sistema dell’antistato e alternativa dell’illegalità che si oppone alla legalità tutelata dallo Stato; e, dall’altro lato, come una deviazione che allontana inevitabilmente da una normale logica di sviluppo e condanna a un’accumulazione di risorse che si risolvono in rendite parassitarie invece che in elementi e fattori di sviluppo (il che, contro ogni apparenza in contrario, è vero anche quando si parla di malavita imprenditrice e capitalista).
Un secondo piano di peggioramento qualitativo è ormai rappresentato dal sistema scolastico e formativo. Su questo piano la situazione è addirittura paradossale. I meridionali fuori del Mezzogiorno si impongono con più che ordinaria frequenza quali elementi di prim’ordine a ogni livello, con grandissima capacità di conseguire e superare qualsiasi grado di istruzione e di formazione venga richiesto e con corrispondenti capacità di gestione e di conduzione anche in organismi dalle molteplici funzioni. Il Mezzogiorno stesso, a sua volta, presenta al proprio interno livelli di eccellenza scolastica e formativa, oltre che di ricerca e di attività scientifica e culturale, sia nelle sue Università che fuori di esse. Tuttavia, la media del sistema scolastico e formativo nel suo insieme non è affatto soddisfacente. Inchieste recenti, che non indulgono affatto all’ottimismo nei riguardi del sistema scolastico italiano, rilevano concordemente per il Sud un livello più basso, quantificabile, secondo le diverse valutazioni, in 20, e anche molti più, punti percentuali in fatto di qualità e di rendimento scolastico. Si tratta, certo, di materia in cui le quantificazioni sono oltremodo difficili, e sempre discutibili. Si avrebbe, tuttavia, torto a sottovalutare l’indicazione da trarne al di là di ogni difficoltà o discutibilità dell’indicatore. Del resto, non è accettabile che si faccia gran festa e molto rumore ogni volta che in graduatorie nazionali o internazionali si ottiene il minimo riconoscimento per le qualità del sistema scolastico e formativo del Mezzogiorno, e, viceversa, quando le indicazioni sono negative, ogni pretesto è buono per invalidarle o per dubitarne. Se si pensa che in molte zone del Mezzogiorno, tra cui Napoli, si registra ancora una non lieve evasione dell’obbligo scolastico, e che questo dato è pur esso un indicatore di primaria importanza sociale, sarà ancora meno facile sottovalutare il peso dell’elemento che andiamo prospettando.
Un terzo piano – nello stesso ordine di problemi di cui qui discutiamo – riguarda la classe politico-amministrativa. Era stata generale non si dice la speranza, ma l’impressione che il terremoto politico-giudiziario dei primi anni ’90 avrebbe dato luogo a un netto miglioramento della situazione, specialmente meridionale, anche e proprio sul piano della classe politico-amministrativa. A distanza, ormai, di circa un quindicennio bisogna pur cominciare a dire molto apertamente che così non è stato; o che lo è stato tanto poco da indurre perfino a chiedersi se in quel terremoto politico-giudiziario non vi fosse qualcosa di sbagliato. Dagli Abruzzi alla Sicilia gli aspetti e le fasi di rinnovamento, che certo non sono mancati, appaiono ormai, da qualche anno, non solo esauriti, ma addirittura largamente invertiti di senso. Lo scarso rilievo della rappresentanza meridionale a livello parlamentare e di governo negli ultimi anni è stato la traduzione, al maggiore livello istituzionale, di tale deterioramento, che ha contribuito a determinare nell’opinione pubblica quel senso di vuoto deluso e paralizzante che molti analisti politici hanno rilevato. E se si dirà che questa notazione non vale solo per il Mezzogiorno, perché si può bene estendere all’Italia in generale, si dirà qualcosa su cui non si potrà essere in dissenso. Ma rimarrà pure indubbio che si tratta di qualcosa di molto più diffuso e, altresì, di molto più importante per ciò che riguarda il Mezzogiorno.
È chiaro, almeno per noi, che il triplice piano del peggioramento qualitativo a cui ci siamo riferiti, richiede – che si condivida o non si condivida il giudizio di peggioramento – un’attenzione del tutto prioritaria anche ai fini delle scelte della politica più auspicabile dal punto di vista meridionale. Non vale chiedersi il perché di un tale peggioramento. Se ci si vuole stare alle diagnosi antropologico-culturali, si ha solo l’imbarazzo della scelta, dal “familismo amorale” di Banfield all’assenza di civismo e di morale civica di Putnam e, in ultimo, alle delizie del “pensiero meridiano”. Altrettanto può dirsi delle interpretazioni vetero-classiste, e ancora di più di quelle revisionistiche in senso filo-borbonico e antirisorgimentale. Un secolo fa era di moda pure la spiegazione razzista, che ai nostri giorni è in qualche modo adombrata dai ripetuti sproloqui del movimento politico dei lumbard. Sarà, invece, il caso, forse, di rimettersi alla considerazione storica sia sul piano del bilancio dell’azione condotta per il Mezzogiorno e della generale linea politica italiana nei suoi effetti sullo stesso Mezzogiorno, sia sul piano di come il Mezzogiorno ha vissuto quell’azione e questa linea politica.
Su questo secondo piano un’indicazione valida può essere probabilmente dedotta dal considerare che i valori della civiltà industriale e moderna sono stati e sono presenti, e sono stati e sono realizzati, nel Mezzogiorno assai più come valori di importazione e di imitazione che come valori propri per la loro genesi e per il loro vissuto. Il Mezzogiorno non vi è affatto refrattario per una qualsiasi ragione antropologica, come dimostrano le ampie presenze della modernità nel contesto meridionale e le loro vicende, finora volte a un complessivo, benché saltuario, disorganico e frammentato, incremento. Ne può derivare, perciò, che più si promuove la produzione e la crescita spontanea, diretta, non indotta dall’esterno, dei valori della modernità nel Mezzogiorno, più ci si avvicina al superamento della condizione tuttora deprecata e deprecabile dello stesso Mezzogiorno nel contesto italiano.
Sul piano della politica per il Mezzogiorno e delle sue implicazioni italiane e meridionali, il discorso è molto complesso e andrebbe partitamente articolato. Qui ci limitiamo a qualche considerazione più essenziale.
Ricordiamo innanzitutto, che la “politica speciale” per il Mezzogiorno ha praticato varie vie, fino al momento in cui si è esaurita l’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno.
Tra queste vie ci sono state in un primo momento le scelte: 1) di dotare le regioni meridionali di quelli che all’inizio furono definiti pre-requisiti dello sviluppo e, in particolare, dell’industrializzazione; 2) di accentuare, in seguito, questo sforzo di dotazione con la politica delle infrastrutture, che puntava su quella dei pre-requisiti, considerati, per così dire, più generali e meno specifici dal punto di vista meridionale; 3) di assegnare a questa politica risorse aggiuntive per il Mezzogiorno rispetto a quelle disponibili nell’ordinario processo della vita economica e del governo delle risorse del paese; 4) di fidare che da pre-requisiti e infrastrutture sarebbe stato sollecitato un moto spontaneo di sviluppo, anche industriale, delle regioni meridionali; 5) di aggiungere particolari forme di incentivi al fine di accelerare e di favorire questo moto spontaneo.
In un secondo momento, poiché questo moto spontaneo non si manifestava se non in misura del tutto esigua, si passò a una fase di diretto intervento pubblico nella iniziativa economico-imprenditoriale con l’impianto di iniziative industriali in settori strategici quali la siderurgia, la meccanica, la chimica, a cura dell’allora cospicuo Ministero delle Partecipazioni Statali e di altre istanze pubbliche. Anche in questo nuovo momento permaneva la supposizione che le nuove iniziative avrebbero determinato di per sé un indotto ampio e significativo di iniziativa imprenditoriale meridionale, più semplice e più praticabile di quel che a questo fine richiedeva il livello dei pre-requisiti e delle infrastrutture. Allo stesso fine fu moltiplicato e molto articolato il sistema degli incentivi, e si ebbe, inoltre, un ricorso alla cooperazione con enti pubblici quali le Regioni e con le forze sociali (imprenditori, sindacati), passando spesso anche a sistemi e prassi di concertazione o di accordi periferici e locali.
I risultati furono ancora una volta scarsi, e si cercò di ovviarvi ricorrendo a un incremento massiccio delle risorse messe a disposizione della “politica speciale”, fino a quando, anche per la sproporzione crescente fra queste incrementate risorse e i sempre scarsi risultati che se ne ottenevano, fu deciso di sopprimere la Cassa per il Mezzogiorno e di chiudere, in pratica, la “politica speciale”. Subentrarono allora varie fasi negli atteggiamenti e nelle procedure seguite a favore dello stesso Mezzogiorno: la fase già accennata addirittura di liquidazione di ciò che avevano significato la stessa “politica speciale” e la tradizione del pensiero meridionalistico da cui essa aveva tratto l’impulso; la fase perfino di negazione della specificità e problematicità della “questione meridionale”; la fase di ottimismo circa le tendenze manifestate dal Mezzogiorno nel senso di un organico e generale avvio al riequilibrio del divario con l’altra Italia. In questa fase non si riuscì a inventare un gran che in materia di strumentazione e provvedimenti per una tale politica di riequilibrio e di sviluppo. Cabina di regia, incentivi, infrastrutture, concertazione e simili sono stati parafrasi di ciò che si era pensato, detto e fatto nella fase della “politica speciale”. Il frutto più nuovo è stato, forse, quello della politica dei “distretti”, non sempre, peraltro, intesa e praticata con rigore di idee e di azione. Contemporaneamente, si avevano la liquidazione del sistema creditizio meridionale, assorbito, per oltre il 99%, in quello centro-settentrionale; un eguale fenomeno in varie branche produttive, sebbene in forma meno massiccia; la progressiva riduzione del peso politico del Mezzogiorno nel Parlamento e nel governo; una vera e propria impennata del fastidio dei “nordici” per i “sudici” querimoniosi, inconcludenti e spreconi; un oblio completo di quanto delle risorse messe a disposizione dei “sudici” sia rifluito al Nord con grandi vantaggi di sue aziende e di varie posizioni produttive, grazie ad appalti di impianti, servizi e forniture; un oblio ancora maggiore, se possibile, di quel che la “politica speciale”, malgrado tutto, aveva pur fatto e realizzato o significato; una completa ignoranza degli impieghi assistenziali ben più cospicui (a livello di scala) per alcune zone del Nord (Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige); un’uguale ignoranza della complessiva esiguità delle risorse destinate al Mezzogiorno in termini di investimenti netti a fine produttivo, come già si faceva notare da più parti alla fine degli scorsi anni ’70 (anche se non può essere ignorato il discorso sulla resa proporzionalmente minore in loco dei fondi destinati al Mezzogiorno, che costituisce un grave handicap di ogni richiesta meridionale nel gioco politico nazionale).
La situazione attuale offre un panorama caratterizzato dalle macerie sia della fase precedente che della fase recente. Con l’inserzione, però, intanto, di alcuni altri elementi da considerare e valutare attentamente.
Il primo è il nuovo contesto europeo. Esso ha implicazioni e interferenze molteplici coi problemi del Mezzogiorno. Di solito è sulla questione dei fondi europei che si appunta l’attenzione generale; e nulla bisogna a questo riguardo aggiungere a quanto già è stato ampiamente scritto e detto nelle cronache politiche e giornalistiche, a cominciare dalla scarsa capacità di utilizzazione di quei fondi dimostrata dalle Regioni meridionali per finire alla concorrenza nell’assegnazione degli stessi fondi da parte di paesi di nuovo ingresso nell’Unione Europea, che hanno maggiori titoli in materia e che fanno pensare ai fondi per il 2007-2013 come gli ultimi di cui si potrà fruire da parte italiana, con il conseguente problema di massimizzare in tutto e per tutto la loro gestione fino a quando vi saranno. Ma l’incidenza dell’Unione non è limitata a questo. Essa investe un ampio fronte di norme, interventi, pianificazione, regolamenti e altro, per i quali certo non possono essere le Regioni gli interlocutori competenti e appropriati, poiché si tratta di materie di schietta pertinenza dei governi nazionali. È, però, anche questo un fronte sul quale va misurata la capacità delle Regioni, specialmente nel Mezzogiorno, di essere validi interlocutori del proprio governo. Finora questa capacità ha conosciuto momenti migliori e momenti peggiori. Nel complesso non si può dire, però, che la conferenza Stato-Regioni, organo principale ai fini predetti, abbia davvero decollato come strumento dell’attività politica, legislativa, amministrativa in Italia. Si deve, perciò, portare la Conferenza Stato-Regioni a un alquanto maggiore grado di funzionalità politica e operativa. Ancora di più, però, dev’essere potenziato e migliorato il coordinamento delle Regioni meridionali, che finora è stato, a dirla francamente una completa delusione non solo sul fronte dei rapporti con lo Stato e con la Conferenza Stato-Religioni, bensì, e ancora di più, sul fronte della cooperazione fra le stesse Regioni meridionali nei più varii campi delle loro competenze e della loro attività politica, normativa, amministrativa.
Un secondo elemento da tener presente è che, mentre nel Mezzogiorno si avevano gli sviluppi qui sommariamente riassunti, anche nelle restanti parti del paese si avevano modificazioni e sviluppi di primario rilievo, che non vanno in alcun modo confusi con le più che opinabili questioni fatte disordinatamente valere dalla Lega Nord. Ora si parla, a ragione, di «nuove domande del Nord», ossia di una serie di richieste avanzate e moderne, da cui dipende l’avvenire, oggi messo seriamente in discussione, dell’Italia come paese tra i più sviluppati d’Europa e del mondo. Di queste «nuove domande del Nord» il Sud si deve fare altrettanto deciso e intransigente sostenitore. È su questo piano che si misurerà in gran parte la rinnovata capacità – se vi sarà – delle classi dirigenti meridionali di mantenere, e rendere ancor più evidente, il carattere nazionale del problema del Mezzogiorno. È vero: l’Italia è andata avanti pur trascinandosi dietro la palla di piombo della “questione meridionale”. Ma oggi siamo in grado di apprezzare meglio una notevole permanenza di precarietà dello sviluppo italiano; e possiamo anche apprezzare meglio quanto più consistente e più solido lo sviluppo dell’Italia sarebbe stato, se il problema della palla di piombo dell’arretratezza o del molto minore sviluppo del Mezzogiorno fosse stato tempestivamente risolto. È, questa, una grande carta politica da fare, evidentemente, valere e rendere una carta di successo a breve termine, perché il ritmo di sviluppo delle cose appare tale da indurre a credere che, chiusasi l’attuale congiuntura, si avranno condizioni ed equilibri, in cui sarà oltremodo difficile affermare, insieme con quelle comuni con il Nord, le specifiche domande del Mezzogiorno, a loro volta irrinunciabili, ma che potranno riuscire tali solo se sapranno assumere tutti i caratteri di domande elaborate e formulate in un’ottica sempre nazionale, e per nulla con grettezza e parzialità soltanto meridionale. Non va, infatti, mai dimenticato che un crollo del livello di sviluppo e di collocazione internazionale della parte di punta dell’economia italiana, quale è quella collocata in così larga misura nel Nord del paese, coinvolgerebbe il Sud con effetti disastrosi. E oggi siamo al punto che in questo senso si teme molto per l’Italia, con la generale stagnazione del suo tasso di sviluppo, con la prospettiva di diventare essa tutta quanta una specie di Sud dell’Europa, con la previsione che entro un decennio o poco più essa si possa ritrovare raggiunta e collocata allo stesso livello di paesi come la Romania. Temi, questi, ai quali si lega anche la questione del “federalismo fiscale” e del “federalismo solidale”, che rappresentano indubbiamente una nube piuttosto scura sul futuro del Mezzogiorno anche a breve termine.
A un terzo elemento accenneremo appena. È quello costituito dall’immigrazione di ormai vere e proprie masse allogene in Italia. Nel Mezzogiorno, più povero e con una domanda di lavoro molto minore che altrove, l’immigrazione è molto meno cospicua che nell’Italia, del Nord. È, però, già oggi un problema di dimensioni non trascurabili, che si aggiunge ai molti già da affrontare, specialmente per quanto riguarda il governo delle aree urbane e quello di determinate attività economiche (edilizia e agricoltura, in primo luogo).
Un ultimo elemento, che qui vorremmo far presente in forma altrettanto sintetica, riguarda la riqualificazione e riformulazione delle domande del Sud: beninteso delle “nuove domande del Sud”, da affiancare, come si è detto, a quelle del Nord, in parte coincidendo con esse e in parte aggiungendosi ad esse in quanto specifiche del Sud. È superfluo sottolineare l’importanza del tema, sul quale corrono molte, ma non tutte chiare, e soprattutto, disorganiche opinioni: servizi, infrastrutture, credito etc. etc., e specialmente “fiscalità di vantaggio”, come ora si chiamano gli incentivi. È chiaro, invece, che si tratta di un quadro da considerare nella sua tradizionale triplice dimensione: nazionale, meridionale e Regione per Regione in modo da risultare compatibile e sinergico; un quadro da delineare e realizzare con il massimo di disegno organico e previsionale possibile, benché senza mai cadere, da un lato, nell’ottica ingannevole e infeconda di pretenziose programmazioni onnipervasive e onniprevidenti, e, dall’altro alto, nella tentazione delle dispersive serie di interventi a pioggia, dettati più da visuali politiche, corporative e municipali che da un criterio di sana politica economica e sociale. E anche da questo punto di vista una riconsiderazione dell’azione e del ritorno a una relativamente maggiore responsabilità da attribuire allo Stato nei confronti di Regioni e di enti locali appare come un punto sul quale richiamare la massima attenzione.
Il disegno al massimo possibile organico e previsionale, ma senza alcuna intenzione di tradizionali pianificazioni o programmazioni, al quale ci riferiamo comporta oggi, peraltro, come ben si sa, anche una quarta, ulteriore e condeterminante dimensione, rappresentata dall’Unione Europea, i cui interventi in materia delle politiche di sviluppo delle aree meno avanzate comprese nei suoi ormai molto ampi confini hanno assunto una natura e una consistenza tale da farne (soprattutto per quanto riguarda fondi ad hoc, incentivi, fisco, scambi all’interno e all’esterno della stessa Unione) un riferimento primario e crescente delle politiche nazionali di sviluppo relative a quelle stesse aree. L’Unione pensa, invero, al Mezzogiorno come a un naturale trampolino di lancio della sua proiezione nel Mediterraneo e verso la sponda meridionale del grande Mare Interno.
È una visione conveniente anche al Mezzogiorno per ragioni geografiche, storiche ed economiche che non c’è bisogno di ricordare, ma che hanno, però, bisogno di essere integrate organicamente con l’esigenza, da sempre prioritaria per il Mezzogiorno. L’esigenza, cioè, di legare il proprio destino e il proprio sviluppo civile innanzitutto all’Europa avanzata, all’area dell’Occidente europeo. Ciò è da sempre accaduto, più che in ogni altro campo, per quanto concerne vita e cultura intellettuale, e a questo riguardo si è visto spesso il Mezzogiorno in primo piano. Non altrettanto si deve dire in termini di civiltà e cultura materiale, di struttura e attrezzatura e relativa dinamica economica e tecnica, di equilibrio socio-economico, di costume e disciplina sociale, di regime di sicurezza e legalità, secondo il disegno di rincorsa e di vincolamento all’Europa che fu fin dall’inizio quello del maggiore meridionalismo (e di Giustino Fortunato in testa a tutti), ma che appare ancora non vicino a una sua non si dice piena, ma almeno soddisfacente realizzazione. E per ciò, senza entrare qui nei dettagli necessari a questo riguardo, ci limitiamo a notare che, come quella nazionale, così anche la dimensione europea delle vedute meridionalistiche deve ricevere un’attenzione specifica e crescente. Bisogna evitare, in sostanza, che essa si riduca soltanto alla richiesta di fondi strutturali e di incentivi o facilitazioni particolari, e curando, invece, che comprenda, in primo luogo, gli interessi e le prospettive più specifiche del Mezzogiorno nella considerazione complessiva delle politiche generali (e quelle di sviluppo in primo luogo) dell’Unione.
Sarebbe presuntuoso, se non sciocco, pensare che il punto sul Mezzogiorno oggi, che ci eravamo proposti qui all’inizio, sia tutto presentato e svolto in quanto abbiamo detto qui. Nessun dubbio è, tuttavia, possibile che l’essenziale e ciò che più è determinante risulti senz’altro da quanto si è detto. E ne discende, a nostro avviso, un problema di fondo: chi può o deve essere il soggetto politico protagonista, oltre che promotore, dell’azione politica conforme alle nuove necessità e domande del Sud? quali gruppi sociali sono da mobilitare più specificamente, allo stesso fine, nell’ambito più generale dell’opinione nazionale e meridionale, oggi molto disinteressata e poco sensibile alle tematiche meridionali? quali sono i piani e i modi più idonei a conseguire mobilitazioni e consensi intorno alle nuove necessità e alle nuove domande del Mezzogiorno?
È a questi interrogativi che si deve rispondere, in primo luogo, dalla classe politica italiana, poiché nazionale (c’è bisogno di dirlo?) e non macroregionale del Sud, è la questione di cui si tratta. Ma si deve poi, in effetti, rispondere innanzitutto e soprattutto dalla classe politica meridionale. Solo così si potrà trasformare la paralizzante impasse, nella quale da una quindicina o ventina di anni si è imprigionato e sterilizzato il discorso sul Mezzogiorno, in una piattaforma di lancio di una nuova, più positiva e più risolutiva stagione del problema aperto rappresentato dal Mezzogiorno; in una nuova e più viva e vivificante stagione del meridionalismo; in un’occasione felice e feconda di risultati sia nella politica italiana che in quella europea. È inutile parlare di “nuovo Mezzogiorno” o di “nuovo discorso sul Mezzogiorno”, se non si parte da qui.
È sempre vero, infatti, che il “problema del Mezzogiorno” è innanzitutto il “problema dei meridionali”. E non lo si deve mai dimenticare. La rappresentazione settentrionale e corrente del Mezzogiorno come grande e costosa “area assistita” del paese è davvero semplicistica e fuorviante. Ma se si pretende di parlare dello stesso Mezzogiorno come di una risorsa oltre che come di un peso per il paese, e se non si pretende che il paese debba sopportare questo peso (in quanto però – sia chiaro – effettivamente sussiste) non solo per ragioni di equità e di diritto costituzionale, ma perché quell’asserita risorsa dimostra di essere tale e di produrne gli effetti, allora è dal Mezzogiorno stesso che deve partire la prima e maggiore scintilla di un nuovo suo sviluppo. Non si può parlare in eterno delle virtù e delle potenzialità nascoste o sottoutilizzate del Mezzogiorno senza rendersi del tutto incredibili a questo riguardo. Non c’è nessuna ragione di pudore nel riconoscere, e chiedere che venga riconosciuto, che il Mezzogiorno può e deve essere aiutato a trovare la via di un vero e definitivo superamento del divario, soprattutto, ma non soltanto, socioeconomico, con la restante Italia. È altrettanto, e anzi ancor più chiaro, che l’aiuto presuppone, e in ogni caso impone, la responsabilità della propria iniziativa, di un proprio integrale impegno di azione in tal senso.
Le prospettive non sono le migliori. Essere il Sud di un’Italia che figuri tra i 7 o 8 Grandi del mondo non è piacevole. Essere il Sud di un’Italia che sia essa stessa, come abbiamo detto, un Sud dell’Europa sarebbe assai meno gradevole. Noi non siamo affatto pessimisti per ciò che riguarda l’Italia. Siamo, anzi, per essa decisamente ottimisti, e pensiamo che, con qualche fatica e, ancor più, con qualche raggiustamento, l’Italia potrà mantenere, nella sostanza, la sua attuale collocazione internazionale di paese avanzato. È per il Mezzogiorno che continuiamo ad avere perplessità, e ci appare perciò decisivo che alle questioni, di cui abbiamo cercato qui di illustrare i termini essenziali, si risponda – da parte delle classi dirigenti (e in particolare dalla classe politico-amministrativa) e della società italiana, e innanzitutto e soprattutto da parte del Mezzogiorno stesso – nei modi e nei tempi che allo stato delle cose sembrano prevedibili, e che non appaiono particolarmente generosi.





NOTE
* Diamo qui il testo della relazione presentata a un convegno organizzato dal Coordinamento provinciale del Partito Democratico di Napoli, il 7 aprile 2008.^
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