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Cose d'Italia 2008
di G. G.
Le cose italiane, dopo il netto risultato delle ultime elezioni, invece di chiarirsi e semplificarsi così come quel risultato dava a credere, sembrano nuovamente complicarsi e rendersi difficili. Nessuna meraviglia. Nella vita politica di tutti i paesi, di tutti i popoli, di tutti i tempi nulla è mai davvero concluso fino a quando sul proscenio della storia non cala un sipario pesante e totale. Nei regimi liberi questo è ancora più vero e più facilmente dimostrabile, e, di fatto, è anche continuamente constatato. Vi sono, però, dei limiti a tutto, come si suole dire, e, soprattutto, contano, poi, il come e il perché quel che sembra acquisito si dimostra non tale, e, al contrario, si prova nuovamente in questione, se non a rischio.
Nel caso italiano è precisamente quel “come”, prima ancora del “perché”, ad attirare l’attenzione. Questa preminenza è, infatti, determinata dalla circostanza che le difficoltà e i problemi che agitano e puntualmente e così spesso tornano ad agitare la vita politica italiana tendono altrettanto puntualmente e spesso a connotarsi come problemi che comportano conflitti o incertezze di tipo istituzionale o, addirittura, e senz’altro, costituzionale. Quel che più frequentemente vengono in discussione sono ambiti, se non veri e propri, conflitti di competenza tra i massimi organi dello Stato. La Presidenza della Repubblica, il Governo, e in particolare il presidente del Consiglio dei Ministri, le due Camere, la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, le Regioni: ecco in rapida scorsa i più ricorrenti protagonisti della costante conflittualità, che, aperta o latente, si avverte ai vertici della vita politica italiana.
Non occorre essere analisti o commentatori della vita pubblica, e neppure studiosi di scienze politiche, particolarmente dotati di acume per capire quanto questo vada oltre la normalità di un qualsiasi sistema politico che abbia un minimo di interna coerenza e stabilità, e nel quale ad ogni pie’ sospinto non si debbano mettere in dubbio non già il senso e le prescrizioni di un qualsiasi punto o momento dell’ordinamento, ma addirittura gli stessi fondamenti ultimi del sistema, le pietre angolari sulle quali il sistema si dovrebbe reggere. E, tuttavia, quel che a noi di tutto ciò appare più preoccupante non è nemmeno la gravissima e rischiosa disfunzione istituzionale e politica che ne deriva. Quel che davvero ci appare più preoccupante è l’impatto diretto e profondo che tutto ciò non può mancare di avere sullo spirito pubblico, sulla vita morale e civile della cittadinanza, sui fondamenti etico-politici del sistema e dell’ordinamento, sulla consistenza che in tali circostanze una comunità è in grado di mantenere, consolidare ed ampliare per quanto ne riguarda il senso di identità e di appartenenza che è alla base di ogni esperienza e realtà di vita associata e che, nel caso di una grande nazione moderna, è ancora più essenziale.
Non vogliamo qui minimamente entrare nel merito di questo o quel caso di tale tipo verificatosi in data recente o non recente. Ci limitiamo soltanto a notare che i casi a cui ci riferiamo appaiono particolarmente gravi quando coinvolgono i rapporti fra l’ordine giudiziario e gli altri corpi dello Stato. Polemiche innumerevoli si sono svolte soprattutto per quanto riguarda l’invadenza attribuita alla magistratura in ogni altro campo di competenza pubblica e il suo eccesso di azione giudiziaria e di relative procedure. Dall’altra parte, c’è una denuncia ininterrotta della magistratura contro una presunta volontà delle forze politiche (e di alcune forze politiche, in particolare, e di qualche loro leader) di coartare la magistratura, di limitarne l’azione e di impedire in specie i suoi procedimenti contro i politici in generale e alcuni politici in particolare.
È su questo fronte delicato che si gioca la partita decisiva, e insieme più rischiosa, per la sopravvivenza stessa, prima e ben più che per il consolidamento della vita e degli ordinamenti liberal-democratici in Italia. Né si creda che questa sia una visione esagerata o deformata delle cose. Magari la si potesse persuasivamente definire come tale. E per non definirla tale, anche a prescindere da altre più ravvicinate e intrinseche ragioni che facilmente si possono addurre al riguardo, basterà notare come questi conflitti o scontri, o come altrimenti li si voglia denominare, tra i massimi livelli dell’ordinamento della Repubblica abbiano un’assai scarsa incidenza sul comportamento del corpo elettorale. Già le elezioni ultime ne sono state un’ampia conferma. Credere che il ciclone giudiziario abbattutosi sulla vita politica italiana fra il 1992 e il 1994 possa ripetersi in un futuro prossimo prevedibile appare sempre più lontano dalla realtà. E come si può ritenere fisiologico un così scarso interesse – quale le elezioni rivelano – per quei contrasti, scontri o altro che siano fra i massimi livelli dell’ordinamento dei quali stiamo parlando? Non se ne deve dedurre che la sensibilità pubblica nei riguardi della specificità e del ruolo istituzionale di quei livelli sia molto scarsa? E ciò non denota un distacco profondo fra il “paese legale” quale vive e opera (o dovrebbe vivere e operare) a norma dell’ordinamento e il “paese reale” che, invece, vive e opera secondo quella che avverte come la più concreta, diretta e immediata sfera del suo sentire, dei suoi interessi, dei suoi valori e di simili altri essenziali riferimenti: una sfera, dunque, che, nel caso che stiamo tentando di esaminare, si dimostra e si professa molto lontana da quella del paese legale?
Certo, si può anche ritenere che tutte queste siano ubbie troppo generali e/o addirittura ideologiche: di un ideologismo dottrinario, cioè da dottrina politica, ma non radicate o ben poco radicate nel saldo terreno dei “fatti”. Sarebbe facile rispondere che quella dei “fatti” è una ideologia ancora peggiore, ma non vogliamo sfuggire al problema che potrebbe essere posto nel senso sopra indicato. È vero il livello della divaricazione tra paese legale e paese reale può correre molto sotto la superficie delle acque della cronaca politica e delle vicende quotidiane, anche le più vistose e più accese, della vita di una comunità. Ma è un livello che, prima o poi, fa sentire i suoi effetti, e tali effetti si rivelano allora, immancabilmente, devastanti, fino a riuscire letali per la comunità in cui si producono. Aggiungiamo, anzi, a rincrudire ulteriormente il significato di questa affermazione, che quegli effetti sono tanto peggiori quanto più tardi essi si fanno sentire.
Ma – si domanderà – tutto ciò ammesso, che cosa se ne deve dedurre come indicazione politica immediata e concreta per le forze e gli uomini che sono attori e responsabili della vita pubblica in Italia? È una richiesta ragionevole, ancorché un po’ pedestre. In ogni caso, non vi si deve rispondere con un discorso (o, come più spesso suole accadere, con un discorsetto) sulla necessità di un comportamento più virtuoso delle forze politiche e dei loro esponenti e leaders nella vita pubblica. Vi si deve rispondere – a nostro avviso – evocando la possibilità e, certo, la necessità di una iniziativa politica, che sia o non sia bipartisan, come ora tutti chiedono, ma che valga a ripristinare non per via normativa, bensì per la via dell’autorevolezza, del prestigio e del peso che può essere dischiusa e resa praticabile da una conduzione energica e di alto profilo delle cose pubbliche e da un conforme comportamento.
È questo, a ben vedere, ciò di cui soprattutto si avverte in Italia una cospicua, rovinosa carenza. Si hanno i voti, si vincono le elezioni, si portano avanti azioni politiche di grande impegno, lodevoli o non lodevoli che siano, ma il prestigio e la forza che sono dati anche da tutto ciò e, ancora prima e ancora più, dal modo e dal tono del governo, sono lontano dall’esperienza della vita pubblica in Italia. Il conflitto di interessi, la parzialità prevalente sull’interesse generale, la delegittimazione reciproca e continua di tutti verso tutti, la discordanza anche su dati elementari della realtà sono note che certamente non v’è nessuno degli Italiani che non abbia presente, e che più colpiscono, anche di primo acchito, gli osservatori stranieri. Non c’è, ad esempio (facciamo un esempio solo, ma fin troppo eloquente, crediamo), vincitore delle elezioni che a livello nazionale, regionale o locale si insedii al potere e che non denunci subito un gravissimo “vuoto” finanziario lasciato dagli avversari che lo hanno preceduto nell’esercizio dello stesso potere. Che cosa ne può dedurre il cittadino? Se nemmeno la contabilità pubblica, per la quale valgono tutti i meccanismi di garanzia e di controllo degli Stati moderni, sono attendibili e, nel passaggio da un governo a un altro, si comprovano alterati, inaffidabili, e ciò sempre nel peggio, mai nel meglio, di che cosa ci si potrà fidare? E nelle cose private non converrà mantenere un analogo regime di inaffidabilità, se un tale regime si dimostra così praticato nelle maggiori sedi pubbliche?
Chissà se, fra i tanti e tanto spesso opprimenti, discorsi di schieramenti, culture politiche, identità di partito, e altri simili luoghi comuni del dibattito politico italiano riuscirà mai a farsi strada la preoccupazione che abbiamo cercato di far valere e di motivare. Sarebbe sempre troppo tardi, ma non invano.
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