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Asterischi
di Giuseppe Galasso
REVISIONISMO RISORGIMENTALE
Si afferma sempre più, un po’ ovunque, che la storia e la cultura “ufficiale” (ma che significhi questo aggettivo i più di quelli che lo usano non sanno spiegare) hanno finora nascosto la “verità” sul Risorgimento e sull’unità italiana e sui loro torti o prepotenze o nefandezze e peggio. Ma è proprio così? Davvero soltanto ora si è chiarita una “verità” finora taciuta e nascosta?
Non è così. Avendo ripreso in mano, per una riedizione (da Rubbettino), Italia, mille anni, il profilo di storia d’Italia di Rosario Romeo edito nel 1981, quando il rumore antirisorgimentale non era quello di oggi, mi è occorso di riflettere una volta di più sull’infondato motivo del presunto oscuramento di quella “verità”.
Già Romeo ricordava che il «revisionismo risorgimentale», nato in gran parte subito dopo l’unificazione, parlava della «funzione decisiva delle minoranze intellettuali e politiche»; di «debolezza delle spinte sociali ed economiche dal basso»; di una «modernizzazione che non giunse mai a coinvolgere l’intera società italiana, ma approfondì anzi le antinomie sociali e culturali che stavano alla sua base»; di uno Stato che privilegiava sul piano politico e sociale una minoranza, e «nel quale presto si profilò il problema gravissimo» di una «estraneità alla vita politica delle masse contadine, per gran parte ancora soggette all’influsso clericale», e dell’«opposizione di quegli strati dell’artigianato cittadino» di tendenze repubblicane prima dell’unità; di «un’Italia unificata dall’iniziativa politica della borghesia settentrionale» e «con il duplice volto delle “due Italie”», e di una «conquista operata dall’una ai danni dell’altra»; di «caratteri autoritari ed “elitari” che per molti decenni conservò il nuovo Stato».
E, ciò, senza contare quel tipico «contrasto fra aspirazioni di grandezza e povertà di risorse materiali e morali», per cui già la prima guerra mondiale fece risaltare le «grandi debolezze» di un «paese per molta parte ancora contadino, da secoli disavvezzo ai grandi cimenti, troppo povero per competere da pari a pari con le altre grandi potenze». Senza contare, inoltre, il «regime fiscale» del nuovo Stato, «assai gravoso», specie per il Mezzogiorno, «più povero e sostanzialmente incapace di inserirsi nelle prospettive di sviluppo che si aprivano invece per le regioni settentrionali», per non parlare della «rivolta contadina nel Mezzogiorno che, nella forma del brigantaggio, infuriò fino al 1870 e costrinse lo Stato liberale a un grosso e sanguinoso sforzo di repressione», e, inoltre, della industrializzazione che, così come fu perseguita e realizzata, «accentuò in modo rilevante il divario fra Nord e Sud, operando quasi esclusivamente a vantaggio del nucleo industriale esistente, e concentrato in buona parte nelle regioni settentrionali». Senza contare, ancora, «gli effetti della crisi agraria, avvertiti soprattutto dopo il 1880», ai quali «i contadini reagirono, particolarmente nelle regioni meridionali, con il grandioso fenomeno dell’emigrazione, che costituì la più vistosa manifestazione di quel disagio che i meridionalisti denunciavano con sempre più grande vigore dinanzi all’opinione pubblica nazionale».
È un florilegio revisionistico, come si vede, eloquente di quel taciuto, a quanto si dice, “volto oscuro” del Risorgimento e dell’unità italiana, di cui così largamente si parla ora per il centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale. Si tratta, inoltre, di motivi presenti fin dagli inizi dell’unità nella storiografia come nella polemica politica e sociale. Non si tratta invece, dell’attuale revisionismo, i cui motivi sono in parte fondati, ma del quale non si può affatto recepire il senso generale di un sostanziale misconoscimento o negazione della grande opera storica svolta dall’Italia risorgimentale con la costruzione del nuovo Stato.
Ho, poi, citato qui Romeo, ossia uno storico pervaso di spirito e di ideali risorgimentali. Avrei potuto citare molti altri (non escluso me stesso), storici e non storici, poiché Romeo echeggiava, e lo diceva, cose dette e ridette (lo ripetiamo) dal 1860 a oggi, e innanzitutto da coloro che più ebbero a cuore la causa del Mezzogiorno, ossia i meridionalisti, oggi così spesso dimenticati o ben poco apprezzati, se non addirittura, in qualche caso, vilipesi. E altrettanto si può dire circa la sola vicenda del Sud. Ma di ciò a un’altra occasione. Qui basti notare che altro è criticare gli sviluppi e l’andamento, altro negare il profondo, decisivo valore di innovazione e di promozione civile ed etico-politica del Risorgimento e dell’unità. E la critica non è affatto una scoperta, e tanto meno un monopolio, dell’antirisorgimento di ieri e di oggi. È la sensazione che tutti gli italiani, e i protagonisti del Risorgimento per primi, ebbero dopo il successo, oltre ogni aspettative, della causa dell’unità nazionale, dopo, cioè, come amava dire il Croce, la cueillaison des fleurs.
Quei fiori non sono oggi altrettanto freschi e fragranti che allora? E che cosa è più naturale di una così lunga vicenda? Ma quei fiori hanno, intanto, fruttificato indiscutibilmente con abbondanza; e noi amiamo credere che anche le odierne difficoltà, perplessità o negazioni a proposito del Risorgimento e dell’unità, siano dopo tutto, una prova che essi non hanno ancora cessato di dare tutti i frutti di cui erano suscettibili. E se richiamassimo le nostre attuali responsabilità o incapacità attuali di procurare questa ulteriore fioritura molto più che soffermarci e insistere sulle responsabilità e le incapacità del passato? Non sarebbe più virile, più sensato e più educativo per noi e per chi verrà dopo di noi? La risposta non dovrebbe lasciar adito a nessun dubbio.

MEZZOGIORNO E SECESSIONE
Come, forse, non era facile prevedere, ma come non si è mancato di far subito rilevare da varie parti, la manovra di bilancio che ha squassato la gestione delle finanze nazionali e il dibattito e il confronto politico che già erano in una fase di fibrillazione, ha fatto quasi arenare i discorsi sul federalismo fiscale, e, comunque, ne ha rallentato i tempi. Che venga meno la richiesta di istituirlo e attuarlo a pieno regime non è per nulla probabile. La richiesta resterà in campo. Solo, non sappiamo se le difficoltà emerse con la manovra la esacerberanno, o se finiranno per attenuarne il vigore.
Questi dubbi debbono essersi affacciati anche negli ambienti più federalistici della Lega Nord. Si sarà notato che, dopo molto tempo, Bossi è tornato a parlare, sia pure sporadicamente, di secessione. In queste condizioni (ha detto) è meglio la secessione, e si riferiva appunto alla situazione apertasi con la manovra. L’Italia è finita – ha aggiunto; la soluzione è la Padania. Non che la cosa impressioni: le previsioni e le posizioni di Bossi valgono, notoriamente, soprattutto in funzione delle circostanze in cui sono affacciate. Non si possono, comunque, ignorare.
Nello stesso tempo, Bossi ha detto pure che lui, Tremonti e Calderoli portavano i loro Ministeri al Nord (come se i Ministeri e le loro sedi dipendessero dai ministri e dalle loro scelte personali). E l’impressione generale è stata che sia la questione delle sedi ministeriali, sia il ritorno al discorso della secessione siano, più che altro, un diversivo rispetto a certe scelte federalistiche oltranzistiche, oggi ancor più deluse. Una delusione aggravata dai tagli che fatalmente la manovra doveva apportare e ha apportato al trasferimento di risorse dallo Stato alle Regioni e agli Enti locali, e che la Lega ha cercato di alleviare con la proposta di soppressione delle province: tutte, non solo le più piccole.
A nostro avviso, però, non solo di questo si tratta. Anche Bossi, col suo indubbio fiuto politico, avverte (crediamo) che oggi la questione più sentita anche al Nord non è quella federalistica e secessionistica, bensì quella di un’avversione crescente, e non del tutto pacifica, alla classe politica e alle sue posizioni. Monta così, dopo quella del 1992, una nuova ondata di opinione, oggi, però, indirizzata molto più contro la politica e i politici che contro i partiti. Di quella del ’92 Bossi e la Lega furono i maggiori araldi e beneficiari; oggi, rischiano di essere tra le vittime della nuova ondata come tutti gli altri.
La diagnosi di crisi della spinta federalistica e della Lega dovrebbe tornare gradita ai meridionali. Essi hanno fortemente avversato, e spesso con buoni argomenti, l’idea del federalismo fiscale, e fin dall’inizio hanno deprecato e osteggiato l’idea leghista della secessione. Ora dovrebbero, quindi, rallegrarsi.
Peraltro, l’avversione meridionale alla petizione leghista della secessione si è accompagnata a una denuncia sempre più aspra delle violenze e dei torti che si ritengono fatti al Sud dal Risorgimento e dall’unità italiana, sconvolgendo, se non distruggendo, una sua precedente agiatezza e un suo promettente sviluppo, e riducendolo a “colonia interna” del Nord.
In base a tali giudizi e denunce si dovrebbe pensare che la secessione sia molto più congeniale e conveniente al Sud che al Nord. Che cosa di meglio che sfuggire alla condizione di “colonia interna” e all’oppressione del Nord, se in questa condizione si è tradotta l’unità italiana? Nel Sud sono, invece, nati in questi anni varii partiti o movimenti sudisti, ma un vero e proprio vangelo secessionista non si è sentito predicare da nessuno in modi e misure in qualche modo apprezzabili. Quando se ne sente accennare è a opera di esponenti di gruppuscoli senz’alcuna importanza, spesso rappresentanti solo di se stessi.
Tutto sommato, questa è una prova di saggezza e ragionevolezza, ma la contraddizione con la denuncia e la deplorazione dell’unità italiana rimane, e, anche se non lo si avverte, indebolisce non poco quella denuncia e deplorazione.
Posso immaginare una risposta: oggi, dopo un secolo e mezzo di soprusi, col Sud ridotto a un cane legato alla catena dell’unità, l’indipendenza è stata resa praticamente impossibile. Ma, se la risposta è questa, essa è ancora peggiore della contraddizione fra denuncia e difesa dell’unità. Non ci sono catene che non valga la pena di spezzare, se le cose stanno come si depreca, né ci sono, per questo, limiti di tempo (l’Irlanda lo ha fatto dopo oltre due secoli). Se non lo si fa, vuol dire che l’unità aveva e ha le sue ragioni, con vincoli di interdipendenza e di comuni interessi, oltre che di legami personali e familiari, molto più forti che nel 1860, ed è perciò sentita come opera, insieme, sia del Nord che del Sud. Lo stesso, del resto accade, a parti rovesciate, nel Nord, dove la petizione leghista della secessione non ha affatto “sfondato”. E perciò abbiamo sempre ritenuto che disfare l’unità italiana sia molto più difficile di quanto, a suo tempo, fu il farla.


* * *


MICHELLE CAMPAGNOLO BOUVIER
La scomparsa di Michelle Bouvier, di antica famiglia calvinista e pastorale di Ginevra, che andò sposa a Umberto Campagnolo, figura di non trascurabile rilievo nella vita civile e culturale dell’Italia del ’900, è stata un lutto per la cultura e per l’associazionismo politico-culturale italiano: una volta tanto, la frase di rito ha una sua indubitabile validità, e impone, anzi, che la si usi.
Dire Campagnolo e dire Michelle voleva dire Società Europea di Cultura: uno dei più singolari fenomeni di militanza politica e culturale nell’Italia e nell’Europa uscite dalla seconda guerra mondiale. Era stata ideata da Campagnolo, seguendo una via diversa dal federalismo europeistico di Altiero Spinelli e di tanti altri. Era una società intesa soprattutto ad affermare e a mantenere l’autonomia della cultura nel quadro politico in cui essa si muove, ma anche a sollecitarne, in tale quadro, la presenza attiva e un ruolo primario. Perciò Campagnolo parlava di “politica della cultura”, e pensava la sua come una società culturale europea, perché posta in Europa, ma non di “cultura europea”. Il suo sguardo andava, cioè, oltre i confini dello stesso europeismo, e in ciò gli fu fedele interprete e prosecutrice Michelle quando, scomparso il marito, fu lei a reggere per un trentennio, il peso materiale di quella Società.
È giusto ricordarla e renderle omaggio. Lo facciamo qui con le parole di Arrigo Levi nell’articolo-necrologio apparso ne «La Stampa» del 13 aprile 2011:
«Si è spenta a Venezia, all’età di 82 anni, Michelle Campagnolo Bouvier, segretario generale internazionale della Società Europea di Cultura, insignita dal governo italiano della medaglia d’oro per meriti culturali. Aveva combattuto, da alcuni anni, la malattia che l’aveva colpita con la stessa energia con la quale aveva promosso, fino alla sua scomparsa, le iniziative della SEC, miranti, dal giorno della sua fondazione più di mezzo secolo fa, a promuovere un dialogo di pace tra gli uomini di cultura di tutta Europa e d’America.
La società creata da Umberto Campagnolo, primo segretario, dopo la guerra, del Movimento Federalista Europeo in Italia, era riuscita, con la partecipazione di personaggi illustri di ogni Paese, a fare incontrare “l’Est e l’Ovest” anche nei momenti più critici della guerra fredda e dei rapporti fra gli Stati. Un dialogo costruttivo, che aveva affrontato tutti i difficili problemi del mondo del secondo dopoguerra, era stato mantenuto sempre vivo, e ne avevano dato continua testimonianza le pagine della rivista della SEC, «Comprendre», oggi diretta da Giuseppe Galasso, le cui pubblicazioni sono riprese recentemente. Norberto Bobbio aveva dato, accanto a Campagnolo, un contributo particolarmente rilevante alla formulazione di quella che è stata definita la “politica della cultura”, con i suoi interventi, poi raccolti in volume, ai congressi periodici della SEC.
Dopo la scomparsa del fondatore, la SEC, oggi sotto la presidenza di Vincenzo Cappelletti, e grazie all’opera instancabile di Michelle Campagnolo, aveva continuato a promuovere incontri che anche negli ultimi anni, in momenti fortunatamente più sereni e più favorevoli a un dialogo di dimensioni ormai globali, hanno saputo affrontare in modo costruttivo le nuove opportunità, così come i problemi vecchi e nuovi che si propongono agli uomini di cultura impegnati nella costruzione di rapporti di pace fra tutte le nazioni».
Il nostro augurio è che anche dopo la scomparsa di Michelle la Società Europea di Cultura, pur priva di una impegno di dedizione come quello che ella assicurava con la sua passione civile e col suo calvinistico senso del dovere, continui nel suo importante ruolo culturale e civile. Lo meritano la passione di lei e del marito e fondatore della Società, ma lo merita anche, per quel che è stata e per quel che è e può essere, la Società che deve ad essi già molti decennii di una vita operosa e meritoria.
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