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Tolstoj filosofo
di Carlo Scognamiglio
Lo scorso autunno si sono celebrati i cento anni dalla morte di Lev Tolstoj, spentosi nella dimora del capostazione di Astapovo, aggredito da una febbre che poneva fine a una fuga malriuscita, e a una vita straordinaria. La Cambridge University Press ha dunque colto l’occasione per consegnare alle stampe un volume d’anniversario, una piccola ed elegante collezione di saggi dedicati al padre spirituale della Russia contemporanea, intitolato sobriamente: Anniversary Essays on Tolstoy1. La curatrice, Donna Tussing Orwin, annuncia nella sua nota introduttiva lo spirito del libro, quando si appoggia brevemente sull’avvertimento di non considerare Tolstoj soltanto come protagonista della letteratura mondiale, ma anche come moral thinker, vale a dire di saper portare alla luce l’aspetto filosofico della sua imponente produzione intellettuale. Quasi tutti i saggi qui raccolti, infatti, lasciano intravedere questo profilo analitico, senza perdere di vista la straordinaria virtù letteraria dell’autore di Guerra e pace. Senz’altro gli autori coinvolti nella collettanea provano a tracciare percorsi interpretativi originali, che aggiungono qualcosa di nuovo alla già sterminata letteratura critica tolstojana - il che, per ovvie ragioni, appare il miglior modo possibile per celebrare un autore -, ma la vera peculiarità del testo consiste appunto nel lasciar risaltare in modo inedito le qualità filosofiche di una mente irrequieta e poderosa.
Il secondo dei saggi contenuti in questo volume (scritto da Andreas Schönle, editor del «Tolstoy Studies Journal»), pone infatti Tolstoj in diretto contatto con Kant e Schopenhauer (due autori, con particolare attenzione a quest’ultimo, assai significativi nella meditazione tolstoiana), partendo da un confronto a distanza relativo ai diversi modi di concepire il “sublime”, e sottolineando poi la peculiarità tolstoiana nel raccontare la morte. La lezione schopenhaueriana sembra evidente in Guerra e pace, in special modo nella fenomenologia della morte del principe Andrej, il quale si aliena da tutte le cose mondane, e sembra contemplare qualcos’altro, di più importante, rispetto alle circostanze in cui è materialmente immerso; persino rispetto alla presenza della sorella al suo capezzale, o dell’amato figlioletto, egli assume un atteggiamento di distanza, quasi di scherno. Nulla lo smuove da quella condizione apparentemente algida e sprezzante, fino alla rivelazione del segreto della morte: «“I died - I awoke. Yes, death is waking up”, could have come straight out of Schopenhauer»2. Ancor più sintomatica in questo senso è la rivelazione finale di Ivàn Il’i nel racconto a lui dedicato, dove con maggiore profondità si manifesta il significato di quel che Tolstoj concepisce quale rapporto tra la vita e la morte, consegnato al segreto ermeneutico del sogno del moribondo Il’i : «fino alle tre rimase in un tormentoso assopimento. Gli sembrava che lo stessero ficcando, facendogli male, in un qualche sacco, stretto, nero e profondo, e che ve lo ficcassero sempre di più ma senza riuscire a farcelo passare. E questa cosa per lui orribile si concretava in sofferenza. Ed egli ha paura, e vuole precipitarvi dentro, e lotta e cerca di aiutarsi. Ed ecco che, all’improvviso, si strappò via di lì, e cadde, e rientrò in sé»3. Diversamente da come Schönle legge, credo erroneamente, questo lavoro onirico, il sacco buio è la vita trascorsa nella vanità del tutto, dell’ostinato e futile attaccamento alla vita stessa, la luce non è la vita né la morte, ma la verità che l’esperienza della morte assegna alla vita. Solo così, dopo una tormentosa agonia, insistentemente descritta da Tolstoj, Ivan Il’ic può esclamare spirando: «è finita la morte. Non esiste più»4. Ma la posizione di Tolstoj non è evidentemente sovrapponibile a quella di Schopenhauer proprio in relazione al nesso morte-vita. Scrive infatti Schönle: «for if for the German philosopher life serves merely the survival of the species, in light of which individual existence becomes nearly pointless, in Tolstoy’s spheric imagery each individual drop seeks to reflect the light of God and is thus endowed with a vocation that makes its existence both indispensable and meaningful»5.
Ponendo così un solco tra sé e il filosofo tedesco, Tolstoj non respinge del tutto il valore della vita istintuale, sebbene la tema. Nel primo saggio di questo volume Caryl Emerson mette elegantemente in evidenza questo punto attraverso un’indagine sul rapporto tra Tolstoj e la musica, riflettendo sull’importanza di tale linguaggio artistico sulla vena creativa dello scrittore, e sulla forza musicale di alcuni suoi testi (si pensi, prima di ogni altro, alla potente Sonata a Kreutzer). La musica rappresenta per Tolstoj l’espressione più compiuta della forza della sensualità, e come tale egli esprime nei suoi confronti un’ambivalenza affettiva oscillante tra attrazione e terrore.
Il più significativo contributo di Schopenhauer nel complesso configurarsi della filosofia tolstojana va invece ricercato nell’idea di esistenza inconscia, da lui trasfigurata in Guerra e pace nella figura di Platon Karataev, la cui presenza, precisa lo stesso Tolstoj, non ha significato come esperienza separata, ma solo come parte di un intero, che egli sente continuativamente; non a caso, sottolinea opportunamente Schönle, Karataev è interamente privo di introspezione.
Tuttavia, secondo un mio personale percorso interpretativo, Tolstoj non è considerabile come un mistico radicale, bensì occorrerebbe riconoscere in lui un involontario pensatore dialettico. Il suo panteismo si costruisce in un movimento oscillatorio tra individuo e totalità. In questo senso, Karataev compare come mito nebulloso e affascinante, ma la verità è dei Pierre e dei Levin, i quali intuiscono l’unità sostanziale del sé e del cosmo - per vie e modalità differenti - sebbene a tratti tornino su sé stessi, in una progressione spirituale che non si esaurisce mai in una posizione solidamente stoica né completamente mistica. Nonostante un’istintiva diffidenza nei confronti della filosofia hegeliana, indottagli forse dal forte influsso su lui esercitato proprio dallo Schopenhauer, Tolstoj tocca ripetutamente nella sua produzione momenti di contatto concettuale proprio con l’autore della Fenomenologia dello spirito.
Pietro Citati, nel suo celebre Tolstoj (la prima edizione è del 1983, ora è riproposto da Adelphi), definisce Guerra e Pace come «uno dei supremi romanzi simbolico-filosofici del secolo scorso»6, ma da subito manifesta una sincera difficoltà nel processo di decifrazione della sua stessa definizione, poiché «Tolstoj sembra proclamare il sì e il no di qualsiasi cosa, rappresentando un’idea o un’immagine o un simbolo, e subito dopo il loro contrario»7. Tale movimento oscillatorio dipende in realtà dall’inconsapevole (ma effettiva) natura dialettica del pensiero tolstoiano. Guerra e Pace, a partire dallo stesso titolo, è un capolavoro di rappresentazione dialettica della totalità del movimento storico. Come scrive Citati, «i caratteri, le vite, le esperienze, i pensieri del principe Andrej Bolkonskij e di Pierre Bezuchov si corrispondono in ogni parte, come il dritto e il rovescio, l’immagine e il suo riflesso speculare […] dobbiamo soltanto tener chiara ed estrema nelle nostre menti la fatale antitesi della realtà, seguendo volta a volta Andrej e Pierre in fondo a ognuna delle proprie esperienze, e poi risolvere questa antitesi su un piano più alto, come insegna l’epilogo di Guerra e Pace»8. Se Pierre è l’unico personaggio privo di una maschera formalistica da spendere in società, Andrej è perfettamente in grado di esprimere la propria indifferenza esistenziale utilizzando una maschera appropriata alle circostanze. Pierre è molto diverso dal suo più grande amico: «nelle varianti, porta il segno dell’informe perfino nei lineamenti del volto (“turgidi, rozzi, non delineati”, mentre quelli del principe Andrej sono “fini, duri, e chiaramente delineati”)»9. Pierre è buono, sincero, amato e amabile; Andrej è sprezzante, distaccato, indifferente. E ancora: «mentre il principe Andrej è una dura e tagliente silice, [Pierre] è molle e fluido, mite e avvolgente come l’acqua, che adegua la propria forma al luogo dove una mano la versa»10. Analoga antiteticità si riscontra nel rapporto tra i due grandi interpreti del corso storico, i due condottieri di popoli: Napoleone e Kutuzov. Il primo governa la superficie della storia, il secondo ne intuisce il moto profondo; l’uno attivo, l’altro passivo; il primo ostenta il proprio genio, il secondo scompare dietro le proprie funzioni.
Si può insistere su questo profilo antitetico della scrittura tolstojana ricordando la struttura narrativa di Anna Karenina, dove le due vicende, simmetricamente contrapposte, non si risolvono in alcun modo l’una nell’altra. Ma si incrociano solo in alcuni fugaci passaggi, eppure trovano senso ed equilibrio esclusivamente nella sintesi della coesistenza. Anna e Levin sono due tesi sulla vitalità e sulla naturalità del vivere, che giocano due partite analoghe per simmetria rovesciata. Anna cede al sopravvento del desiderio sulla ragione, consapevole fin dal principio del ribaltamento dialettico di una felicità vitalistica nella sua negazione (e la vicenda narrata è quella di una lunga e sofferente realizzazione di ciò che è già colto dalla coscienza: la necessità dell’autodistruzione implicita nella prospettiva dell’autorealizzazione). La storia di Levin è più complessa, ma si risolve in un’opzione meditativa che si tramuta, misuratasi con esperienze articolate, nel discioglimento del sé nella quotidianità degli equilibri esistenziali. Senza la storia di Anna, quella di Levin non avrebbe alcun significato prototipico, e viceversa. I due movimenti si sostengono vicendevolmente per disegnare la complessità dell’esistenza. Levin e Anna sono in realtà la stessa persona (cioè lo stesso Tolstoj), e la vita umana che essi rappresentano è proprio quel movimento sintetico di un’opposizione di opposizioni.
Nell’epilogo di Guerra e pace le diverse e altalenanti considerazioni sulla storia riprendono quel medesimo carattere dialettico precedentemente segnalato dai personaggi, ma ad un livello più elevato. Tolstoj pare oscillare tra una metafisica teleologica e un casualismo meccanicistico. Questa ambiguità deriva probabilmente da una doppia analogia cui Tolstoj ricorre per rielaborare il movimento storico. La sua mente evoca alternativamente il modello della determinazione organica e quella inorganica. La storia gli appare dunque per un verso una vita, e peraltro una catena causale priva di significato. Il suo senso è ritrovato nel movimento dei popoli da occidente a oriente e viceversa; questo moto è descritto da Tolstoj come un immenso respiro, come il dato di esistenza di una vita infinita. Ma al tempo stesso la storia è caratterizzata da moti meccanici. Le manovre militari e le dinamiche di combattimento sono descritte in modo da risultare frutto di imprevedibili relazioni causa-effetto, interne a un enorme e inintelligibile meccanismo. Osserva Citati: «l’invasione francese in Russia aumenta l’intensità del proprio impulso man mano che si avvicina a Mosca, come il crescere della velocità d’un grave a misura che si avvicina alla terra: l’esercito russo, dopo la battaglia di Borodino, indietreggia con la stessa necessità di una biglia che urta l’altra che la investe con maggior forza d’impulso»11.
Questa drammatica concatenazione di eventi incontrollabili sottesi a quell’inarrestabile flusso da occidente a oriente e viceversa, non riceve da Tolstoj alcuna attribuzione di senso. Ma anche qui occorre intercettare il movimento dialettico: ciò che per l’uomo è crudele e insensata necessità meccanica, si deve ribaltare nel suo opposto cioè in un disegno del processo storico, attribuito al Dio panteisticamente inteso, il cui modo determinatorio non è ascrivibile allo schema teleologico, né a quello meccanicistico. Il senso del movimento divino è inaccessibile all’uomo, ma è. In ciò risiede la contraddizione delle contraddizioni tolstoiane: «ciò che da una parte rientra in una “marea” necessaria e meccanica, dall’altro è soltanto il prodotto di un’azione capricciosa e senza intenzioni remote»12. La necessità si risolve nella causalità, e questa in quella, il meccanismo si rovescia in vita, e questa in quello. Il punto chiave per comprendere questo passaggio va cercato proprio nell’epilogo al grande romanzo. Infatti, casualità e necessità, così come “possibilità”, sono categorie modali legate alla razionalità umana, e nient’affatto categorie ontologiche o metafisiche. Nell’idea di Tolstoj, l’equivoco interpretativo sorge ineluttabilmente nello sforzo dell’uomo di orientarsi nella storia attraverso una qualsivoglia analisi modale, il che restituisce un’ovvia discrasia rispetto al reale, che non è possibile, né necessario, né casuale. Semplicemente è effettuale. Descrivendo il flusso degli accadimenti come la risultante di movimenti particolarissimi e individuali, dettati più dalle circostanze che da un’attenta pianificazione, e anzi massimamente distante da ogni possibile pianificazione, Tolstoj, in Guerra e pace, spiega in termini drammatici l’assoluta distanza tra intelletto umano e decorso storico, quando sottolinea come tutti i protagonisti delle vicende narrate, dai condottieri all’ultimo commilitone, «erano strumenti involontari della storia e andavano lavorando a un’opera il cui senso, per loro, restava occulto, mentre a noi appare affatto comprensibile»13. A posteriori dunque è possibile tracciare un’interpretazione di quel che è avvenuto, ma nient’altro che un’interpretazione.
Solo alcuni uomini colgono il senso pieno della realtà, e al contrario di quanto si può leggere in Hegel, per Tolstoj la caratteristica di questi personaggi è la passività contemplativa. Sono eroi del non fare, come Pierre Bezuchov o, soprattutto il comandante in capo dell’esercito russo, Kutuzov, la cui dimensione essenziale si forma appunto nella dissoluzione del sé nella totalità dello spirito del popolo russo. Quando il principe Andrei ebbe avuto il suo colloquio con Kutuzov si convinse della sua affidabilità sulla base di una considerazione assai significativa: «quando più vedeva l’assenza di ogni elemento personale in quel vecchio, nel quale parevano essere rimaste solamente le consuetudini delle passioni e, in luogo dell’intelligenza (che raggruppa gli eventi e ne trae deduzioni), la sola capacità di contemplare lo svolgersi degli eventi […] e sa rinunciare a prender
parte a questi avvenimenti»14. Comprendere il corso degli eventi sembra dunque coincidere con una dissoluzione quasi mistica della soggettività nell’oggettività, inibendo ogni tentativo di determinazione storica, ma limitandosi ad accompagnarne l’ineluttabilità della destinazione.
Tolstoj contrappone il senso assoluto della storia alla insensatezza relativa dei comportamenti interni ad essa. La fondamentale battaglia di Borodino, magistralmente narrata dalla penna del romanziere russo, fu sferrata e accettata contro ogni ragionevolezza, da una parte e dall’altra, ma evidentemente nell’equilibrio di un quadro non decifrabile da punti di vista parziali (e ciascun punto di vista è ontologicamente parziale). E nulla di ciò che venne disposto nell’ordine della logica militare riuscì poi a trovare applicazione: «dando e accettando la battaglia di Borodino, Napoleone e Kutuzov agirono al di là della loro volontà e insensatamente. E gli storici, a fatti compiuti, hanno insinuato, in un secondo tempo, sottili e complicate dimostrazioni della preveggenza e della genialità dei condottieri, che, di tutti gli strumenti involontari degli eventi del mondo, furono quelli che agirono nel modo più servile e passivo. Gli antichi ci hanno lasciato dei modelli di poemi eroici, nei quali gli eroi rappresentano tutto l’interesse della storia, e noi non possiamo ancora abituarci all’idea che, per l’umanità della nostra epoca, una storia di questo genere non ha senso»15. Questo è solo il primo dei motivi critici sviluppati da Tolstoj nei confronti degli storici di professione. Ma è anche il più significativo, che torna più di una volta al centro della sua discussione. È infatti chiaro a Tolstoj che una storiografia delle grandi personalità non ha ragion d’essere, e anzi travisa completamente la sostanza delle cose. Ecco perché in Guerra e pace, attraverso l’incrociarsi non di tre, ma di mille storie individuali o collettive, la storia risulta essere un indecifrabile risultato di microeventi reciprocamente condizionanti. A questo proposito, in Guerra e pace c’è una pagina memorabile:
molti storici dicono che la battaglia di Borodino non fu vinta dai francesi, perché Napoleone aveva il raffreddore; che se non avesse avuto il raffreddore, i suoi ordini prima e durante la battaglia sarebbero stati ancora più geniali […]. Per gli storici che ammettono che la Russia si sia formata per la volontà di un solo uomo, Pietro il Grande, e la Francia da repubblica si sia trasformata in impero, e che anche le truppe francesi siano entrate in Russia per la volontà di un solo uomo – Napoleone – un simile ragionamento, e cioè che la Russia sia rimasta potente perché il giorno 26 Napoleone aveva avuto un forte raffreddore, un simile ragionamento per simili storici è inevitabile e logico. Ma per chi non ammette [questo genere di storiografia], alla domanda in che consista la causa degli eventi storici, si presenta un’altra risposta, la quale consiste in questo: che il corso degli eventi mondiali è predestinato dall’alto è dipende dalla concomitanza di tutte le volontà degli uomini che prendono parte a tali eventi, e che l’influenza di Napoleone sul corso di questi eventi è solamente esteriore e fittizia16.

Quella di Tolstoj è evidentemente una lettura forte e spiazzante degli avvenimenti storici, alla quale egli stesso cerca di assegnare una solidità concettuale maggiore. Il lavoro dello storico è facilmente indotto all’errore da una stortura connaturata all’intelletto, cioè l’attitudine astrattiva. In realtà l’unità sostanziale e continua del processo storico è inafferrabile per uno strumento di lettura – la mente umana – che è in grado di comprendere il proprio oggetto solo producendo una discretezza in quel continuum. Si tratta di un’intuizione molto rischiosa, che mette in pericolo la stessa pensabilità degli eventi o degli individui, ma Tolstoj prova a maturare una proposta coerente con tale assunto. La lettura del divenire storico come moto continuo, impedisce la formulazione di leggi se non a partire dalla collocazione in esso di forme discrete, come corpi, azioni, momenti, individui, o entità in senso lato. Ma l’attività astrattiva è in grado di restituirci la verità della storia, o risulta invece generatrice di parzialità e distorsioni? Nella continuità dello spazio e del tempo, le molteplicità distinte generano i paradossi zenoniani, e seppur si riuscisse ad elaborare una sorta di calcolo infinitesimale da applicare al discorso storico non si uscirebbe dall’errore costitutivo di ogni teoria della storia che pretenda di individuare leggi di concatenazione o predittività. Questo sforzo deve confluire per Tolstoj in un superamento dell’unità arbitrariamente assunta dal discorso storico, per approdare a forme di discretezza più sfumate: «per studiare le leggi della storia dobbiamo sostituire completamente l’oggetto della nostra indagine, lasciare in pace i re, i ministri e i generali, e studiare quegli elementi omogenei e infinitesimali che condizionano il comportamento delle masse»17. La consueta attitudine degli storici a cercare nella volontà umana la causa degli eventi è del tutto arbitraria: «la volontà dell’eroe della storia non solo non dirige le azioni delle masse, ma è essa stessa costantemente diretta», per cui diventa in generale impossibile non solo attribuire all’eroe una forza causale, ma concepire la stessa individuabilità delle cause: «le cause di un evento storico non esistono né possono esistere, fatta eccezione per la causa unica di tutte le cause»18. Questo livello analitico determinò in Tolstoj la maturazione di una sorta di pessimismo storiografico, che lo indusse a dichiarare a Gusev: «la storia sarebbe una cosa meravigliosa, se soltanto fosse vera»19. In questo graduale avvicinarsi ad alcuni principi futuri della novelle histoire, Tolstoj radicalizza l’idea dell’impotenza dei grandi uomini e delle loro menti razionali nel decidere la storia, concentrandosi sull’infinitesimale dei piccoli moti e cambiamenti d’animo degli uomini comuni. La piramide sociale viene rovesciata nella capacità determinatrice rispetto al corso storico. Più alta è la carica politico-militare, maggiore sarà la distanza dal vero motore, cioè dalla vita massa degli uomini comuni, della cui sostanza è fatta la storia. Così Isaiah Berlin riepiloga questo concetto tolstojano: «nessuna teoria può verosimilmente adattarsi all’immensa varietà del comportamento umano, alla vasta molteplicità di cause ed effetti impercettibili e introvabili, che formano il gioco uomo-natura che la storia intende registrare. Coloro che pretendono di poter sintetizzare questa infinita molteplicità nelle loro leggi “scientifiche” debbono essere per forza o dei ciarlatani, o dei ciechi che guidano altri ciechi»20. Ma Berlin è pure una guida importante per aggregare questo pessimismo storiografico tolstojano la sua teoria dell’eroe, o meglio la sua demolizione: «che cosa sono i grandi uomini? Sono comuni esseri umani, ignoranti e vani abbastanza, da assumersi la responsabilità della società intera. Individui che preferirebbero farsi biasimare per tutte le crudeltà, tutte le ingiustizie, tutti i disastri giustificati in loro nome, piuttosto che riconoscere la propria insignificanza, e la propria impotenza, nel flusso cosmico che continua il suo corso, incurante del loro arbitrio e dei loro ideali […] insieme a questo, Tolstoj ci dà la meravigliosa descrizione di quegli attimi, in cui, coloro che hanno l’umiltà di riconoscere la loro propria poca importanza, colgono in una illuminazione la vera essenza della condizione umana»21.
All’attivismo spregiudicato di Napoleone, impietosamente rappresentato nella sua vanagloria e al tempo stesso nella sua estrema fallibilità previsionale, Tolstoj contrappone tutti i ravvedimenti e i mutamenti d’umore di donne e uomini comuni, illuminati da quel senso di a-protagonismo storico, che sarebbe errato far coincidere col fatalismo. Sebbene l’equivoco possa facilmente presentarsi: scegliendo di abbandonare Sonja per la principessina Marija, il conte Rostov opta per una «rassegnata sottomissione alle circostanze»22; avvicinandosi al patibolo, Pierre Bezuchov cerca il responsabile della sua condanna, ma si ritrova a constatare che «era l’ordine delle cose, era la piega che avevano preso le circostanze»23 ad averlo condotto lì.
Tolstoj coglie un punto filosofico importante, che lega inesorabilmente la filosofia della storia all’etica. Pensare la storia significa pensare la possibilità stessa della libertà. Se l’uomo ha un potere decisionale nell’intreccio degli eventi, allora egli è libero, ma ammettendo ciò si costituisce una rappresentazione della storia discreta e falsificata, e dunque per postulare la libertà io devo negare la storia. Viceversa, se il motore della storia non si situa nell’intenzione individuale, non solo è quasi impossibile ogni ipotesi di spiegazione storiografica, ma anzi si deve negare la concepibilità stessa del libero arbitrio. L’uomo sociale, secondo Tolstoj, non è libero, ma incatenato alla collettività, e anzi a rigore non è neanche pensabile come individuo, è trascinato dalla corrente della storia, e ha minimi margini di libertà, come l’insignificante decisione di alzare un braccio in questo momento. «La libertà è un fatto reale – chiosa Berlin – ma è limitata ad atti insignificanti»24. Ma sebbene lo sguardo scientifico cui Tolstoj cerca di adeguarsi impedisce di vedere l’indipendenza dell’individuo dal nesso sociale, residua il sentimento etico che pretende di dar voce all’istanza della responsabilità, dunque della libertà. La soluzione con cui Tolstoj replica all’apparente contraddizione di molto si avvicina a quella di Nicolai Hartmann: la nostra incapacità percettiva rispetto alle catene verticali e orizzontali di tutte le condizioni genera in noi il sentimento della libertà. Se avessimo la visione complessiva dell’essere, saremmo schiacciati dal peso della determinazione necessaria, dunque non riusciremmo ad accettare il peso che esso eserciterebbe su di noi. Lo spiega bene, ancora una volta, Berlin: «se ignoriamo come le cose realmente accadono, non è perché le cause prime ci sono inaccessibili: inaccessibile è soltanto la loro molteplicità, l’infinitesimale essenza delle unità ultime; siamo incapaci di vedere, udire, ricordare, registrare e coordinare una quantità sufficiente del materiale a nostra disposizione […] di fatto non siamo liberi, ma senza la convinzione di esserlo non potremmo vivere»25.
Il filo di una lettura filosofica di Tolstoj viene raccolto anche da Robin Feuer Miller, il quale dedica il terzo saggio di questo volume celebrativo alla relazione di Tolstoj con la natura animale. Il tema è fondamentale nella letteratura tolstojana, come nella sua biografia, ma l’autore sceglie di trattarlo evidenziando quella che è certamente la lettura filosofica più importante per la formazione dello scrittore russo, cioè le opere di Rousseau (Irina Paperno riporta nel suo saggio la seguente dichiarazione di Tolstoj: «I read all of Rousseau, all twenty volumes [...] I more than admired him - I deified him. At age fifteen, I ware a medallion with his portrait around my neck in place of the cross. Many pages by him are so near to me, that it seems that I wrote them myself»26), e confluendo in un confronto con pensatori contemporanei ai quali è cara questa problematica, come Peter Singer e Martha Nussbaum. Interessante dal punto di vista teorico anche il carteggio con il filosofo Nicolai Strakov, studiato nel contributo al volume proposto dalla Paperno. Da questo scambio epistolare emerge un duplice dato: per un verso si registra una forte passione filosofica dell’autore di Guerra e pace, un costante desiderio di confronto speculativo; ma al contempo una scarsa agilità teoretica nell’argomentare le sue pur geniali intuizioni. La dimensione più profonda della filosofia tolstojana infatti, non può e non dev’essere ricercata nella sua modesta saggistica, ma nell’imponente tensione concettuale della sua prosa letteraria, là dove l’autore ricorre a mezzi espressivi più congeniali al proprio estro.
Un certo taglio filosofico è riscontrabile anche in altri saggi di questo volume. La curatrice, ad esempio, tratta nel suo capitolo il problema del pacifismo tolstojano, mentre Vinitsky e Hamburg esplorano la concezione tolstoiana dell’anima e della spiritualità (più letterari sono invece i contributi di Edwina Cruise, dedicato alla novella inglese letta in Anna Karenina dalla protagonista, Justin Weir, relativo alla drammaturgia dello scrittore russo, e di Gory Saul Morson, autore di un bel saggio sull’amore tolstoiano per i bon mots). Davvero sintomatico della poliedricità del genio commemorato è infine l’ultimo capitolo, in cui Michael A. Denner intreccia la figura di Tolstoj con le rivoluzioni che coinvolsero la terra russa tra il 1905 e il 1918. Se nel gennaio del 1919 era possibile leggere sull’americano «Current Opinion» che le responsabilità di Lenin nella rivoluzione dovessero essere considerate “insignificanti” rispetto a quelle di Tolstoj, vero diffusore di ideali quali il cosmopolitismo e il pan-umanesimo, lo scrittore Merezhkovsky (autore del celebre Tolstoj e Dostoevskij) poté annunciare nel 1921 che il bolscevismo meritasse l’attribuzione di “suicidio dell’Europa”, di cui Tolstoj sarebbe stato l’ispiratore e Lenin il finalizzatore. Secondo Merezhkovsky la critica della violenza condotta dall’autore di Guerra e pace, che pure avrebbe dovuto renderlo del tutto incompatibile con bolscevismo, non è sufficiente a offuscare la comune sensibilità distruttiva rispetto allo stato di cose esistente, tra il padre spirituale della Russia e i rivoluzionari comunisti. Scrive Merezhkovsky: «What is Bolshevism? Adenial of all Culture as morbid and unnatural complication, a will to simplify, in its final analysis a metaphysical urge backward towards the condition of primitive man. But Tolstoy’s genius is inspired by the same will»27. Non è mancato, tuttavia, chi ha cercato - nell’ambito della reazione – di richiamare nel proprio fronte il teorico della non-violenza contro il materialismo sovietico. A prescindere dalle controversie di appropriazione, questa oscillazione è ulteriore conferma della complessità e del rilievo di questa figura umana e artistica.
Al di là dei giusti meriti di questo libro, mi pare tuttavia opportuno sottolineare come quelli che a me paiono i principali nodi filosofici del pensiero di Tolstoj siano stati qui trascurati dagli autori dei saggi contenuti nel volume. Mi riferisco a temi ampi su cui sarebbe bene fermarsi a ragionare. Mi limito qui a enunciarli: il grande tema della storia, e del rapporto che con il suo fluire hanno i destini individuali; il problema della non-violenza, di cui lo stesso Gandhi si è concettualmente nutrito prima di diventarne la bandiera. E infine il suo innovativo anarchismo, potentemente elaborato in un libro tardo e ingiustamente trascurato dalla critica, come Resurrezione. Thomas Mann sosteneva che se Tolstoj fosse rimasto in vita nel 1915, la prima guerra mondiale probabilmente non sarebbe mai scoppiata (e forse - di conseguenza - neanche la seconda), attribuendo a quell’uomo il peso di una vera e propria coscienza morale non solo per la Russia, ma per l’intera Europa. Non saprei valutare quest’affermazione. Ma probabilmente senza Tolstoj sarebbe difficile comprendere la fine della Grande Guerra, la forza del richiamo alla terra e alla pace dei rivoluzionari russi, e le enormi diserzioni dei contadini mandati al fronte, molti dei quali, appunto, seguaci di Tolstoj. Un personaggio di tale calibro meriterebbe maggiore attenzione da parte dei filosofi, e di non essere consegnato unicamente alle pur importanti ricerche di linguisti e studiosi delle letterature nazionali e comparate.





NOTE
1 Anniversary Essays on Tolstoy, ed. by D.T. Orwin, Cambridge University Press, Cambridge, 2010.^
2 A. Schönle, Sublime vision and self-derision: the aesthetics of death in Tolstoy, in Anniversary Essays on Tolstoy, cit., pp. 33-51: 44.^
3 L. Tolstoj, La morte di Ivàn Il’i e altri racconti, a cura di I. Sibaldi, Mondadori, Milano, 1999, p. 63.^
4 Ivi, p. 74.^
5 A. Schönle, cit., pp. 45-46.^
6 P. Citati, Tolstoj, Adelphi, Milano, 2007, p. 131.^
7 Ibid.^
8 Ivi, p. 132.^
9 Ibid.^
10 Ivi, p. 133.^
11 Ivi, p. 160.^
12 Ivi, p. 162.^
13 L. Tolstoj, Guerra e pace, tr. it. Di P. Zveteremich, Garzanti, Milano 1989, p. 1029.^
14 Ivi, p. 1126.^
15 Ivi, p. 1139.^
16 Ivi, p. 1183.^
17 Ivi, p. 1240.^
18 Ivi, p. 1483.^
19 N.N. Gusev, Dva goda s Tolstym, Mosca 1912, p. 175 (citato da I. Berlin, Tolstoj e la storia, Lerici, Milano, 1959, p. 29).^
20 I. Berlin, cit., p. 34.^
21 Ivi, p. 43.^
22 L. Tolstoj, Guerra e pace, cit., p. 1431.^
23 Ivi, p. 1449.^
24 I. Berlin, cit., p. 46.^
25 Ivi, p. 47.^
26 I. Paperno, Leo Tolstoy’s correspondence with Nikolai Strakhov: the dialogue on Faith, in Anniversary Essays on Tolstoy, cit., pp. 96-119: 106.^
27 D. Merezhkovsky, Tolstoy and Bolshevism, in «The Living Age», 7 maggio 1921, p. 334, cit. da M.A. Denner, The “proletarian lord”: Leo Tolstoy’s image during the Russian revolutionary period, in Anniversay Essays on Tolstoy, cit., pp. 219-244: 231.^
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