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Ancora un "dopo": la manovra
di G. G.
Non c’eravamo ingannati nel giudicare, in un precedente editoriale di questa rivista, che l’era Berlusconi si era avviata o si stava avviando alla fine, o che tale, per lo meno, cominciava a sembrare a tutti. Oggi, dopo le incredibili vicende della manovra di bilancio, non si può nemmeno più parlare di una eventuale impressione. Le cose sono andate e continuano ad andare in modo tale da rendere ormai più verosimile l’ipotesi di un profondo mutamento di ruolo della presenza di Berlusconi nella vita pubblica italiana, se non addirittura di un suo abbandono del campo.
Come pensare altrimenti, se il coro che dall’opposizione chiede a gran voce e con accresciuta petulanza non più soltanto le dimissioni di Berlusconi, ma una sua definitiva uscita dalla scena politica? Se questa richiesta più insistente e più drastica venisse in un momento di forza della sinistra e di sua evidente ascesa nell’opinione nazionale e al suo interno, la cosa apparirebbe naturale. Ma non è così, come si sa. La sinistra è in grave difficoltà già al suo interno, e ciò che sembra progresso della stessa sinistra si rivela, a ben vedere, un ovvio effetto di quella decrescente presa della destra sull’opinione del paese, che sempre più spesso i commentatori notano e sostengono. E da questo punto di vista è pure da notare, e ha una importanza ancora maggiore, il fatto che i giornali più vicini a Berlusconi, ossia «Il Giornale» e «Libero», notano e sostengono anch’essi che Berlusconi è in difficoltà ormai anche all’interno della sua stessa maggioranza e che la sua guida del governo e di questa maggioranza rivela sempre più crepe, se non proprio franamenti, che sembrano pregiudicarne in qualche misura anche il futuro (anche se, invero, giudizi siffatti appaiono nel giornale di Feltri e Belpietro più acuminati e trancianti che ne «Il Giornale»).
Del resto, non è lo stesso Berlusconi a ripetere con sospetta frequenza che egli ha già deciso di non ricandidarsi a capo del governo nel 2013, di pensare ad Angelino Alfano quale suo delfino al riguardo, così come a Gianni Letta quale candidato alla presidenza della Repubblica? E diciamo con frequenza sospetta non solo perché in queste cose i sospetti appartengono al novero delle prudenze necessarie ad attori e commentatori di queste vicende, ma anche perché sospettabile sembra pure in Berlusconi l’idea o di ritirarsi a vita privata o di fare da ninfa Egeria e da occulto motore del nuovo assetto della sua maggioranza (o dell’opposizione, se la maggioranza dovesse perdere le elezioni): una idea che, invero, viene correntemente giudicata lontana dalla psicologia, dalle attitudini temperamentali, dalla storia personale (e, perché no?, dagli interessi) di un uomo che nella sua vita si è andato (e si va) esponendo anche quando tutto consiglierebbe il contrario, e alla cui natura sia di imprenditore che di uomo politico il comando esplicito e riconosciuto è sempre apparso connaturato e necessario.
Poiché le difficoltà economiche e finanziarie del paese risultano ogni giorno tali da far pensare che un avvio diverso e migliore ne sia possibile solo a scadenza non troppo ravvicinata, ciò sembrerebbe richiedere da parte della classe politica una capacità di aggregazione e di sinergie strategiche e operative all’altezza di una sfida che non è soltanto italiana, essendo, come si sa, di natura e portata globali, e proprio per ciò molto più difficile ad affrontarsi.
In questo senso suonano già da qualche tempo gli appelli del presidente Napolitano, al quale è toccato in sorte di sovraintendere alla vita del paese in un periodo di tante e tali difficoltà, e soprattutto di chiara debolezza sia della maggioranza che dell’opposizione. Egli ha potuto grazie a ciò recitare un ruolo politico alquanto più ampio di quello di qualsiasi suo predecessore anche per quanto riguarda l’iter delle leggi, la politica estera, gli indirizzi e le finalità dell’azione di governo, i sempre più frequenti dissensi o conflitti tra organi costituzionali di pari rilevanza, e perfino, in qualche caso, il comportamento delle forze politiche e sociali. Non siamo affatto sicuri che al Presidente questa impreveduta e imprevedibile espansione del suo ruolo abbia fatto e faccia piacere. E ciò già soltanto perché è sempre rimasta una sua precisa e primaria preoccupazione quella di non eccedere mai dalla sfera delle sue prerogative e competenze costituzionali, ma certamente anche perché in queste condizioni egli si trova spesso o nella proverbiale condizione del grillo parlante, al quale si presta soltanto il dovuto (e comodo) ossequio, o esposto al rischio di un urto esplicito – e altamente inauspicabile – con altri poteri e forze della vita pubblica. Che è poi la ragione forse più forte nell’aver determinato la straordinaria autorevolezza del Presidente che nessuno può fare a meno di riconoscere, la sua larghissima popolarità, la fiducia generale dell’opinione pubblica e il sempre più ricorrente apprezzamento dei contenuti, oltre che del tenore, dei suoi discorsi e interventi, assieme al sempre più diffuso riconoscimento che la funzione di generale garanzia di tutte le parti politiche presenti sulla scena nazionale è stata ed è da lui appieno e correttamente svolta. Qualche critica che gli è stata mossa, e in qualche caso anche in forma irritante, è poi dovuta subito rientrare o essere tenuta in secondo piano.
Visione apologetica della presidenza Napolitano? Noi saremmo stati lietissimi di non proporla ai lettori. Avrebbe voluto dire che le cose italiane non andavano troppo male, seguivano un corso accettabile. Ma accade, invece, il contrario, come nessuno può fare a meno di riconoscere.
Previsioni? Più difficili che mai. Per la maggioranza le cose sembrano complicarsi ogni giorno di più. La Lega appare inquieta, seriamente scossa dal non buon risultato elettorale ultimo, e ancor più preoccupata delle incertezze all’interno e verso l’esterno del suo maggiore alleato e, al tempo stesso, garante di tale alleanza, ossia Berlusconi. Ma se questi piange, anche la Lega al suo interno non ride. I toni tracotanti di Bossi appaiono sempre meno credibili e rinnovabili. Perfino il rapporto tra lo stesso Bossi e uno dei suoi più fedeli colonnelli, qual era Maroni, è apparso di recente, in certo qual modo, incrinato. Bossi comanda ancora, ma meno di ieri e con minori prospettive di durata. Lo spaventapasseri di un governo di larghe intese che si realizzi dal PDL a Casini e magari al PD come governo di emergenza nazionale, sforbiciando alle ali la Lega da una parte e Di Pietro dall’altra, sembra cominci a preoccupare Bossi più del fantasma del governo tecnico, da lui sempre condannatissimo.
Peggio, forse, nel PDL, dove le designazioni successorie di Berlusconi appaiono a forte e crescente rischio. Ora si parla pure della possibilità che anche Formigoni si faccia avanti, e con lui Comunione e Liberazione, i cui lunghi entusiasmi berlusconiani appaiono anch’essi raffreddati (il capo del governo non è stato quest’anno invitato al meeting annuale di CL a Rimini). Il dissenso, che non è ancora secessione, di esponenti della Destra come Pisanu e Martino aggravano il quadro. Il problema Tremonti, insorto con tanto clamore nei mesi scorsi, è stato forse sedato. Certo, non lo si è risolto. E per di più sondaggi preelettorali, vicende giudiziarie, incrinature al suo patrimonio (come quella subita per De Benedetti) sembrano dipingere intorno a Berlusconi uno sfondo sempre più negativo e infausto. E Berlusconi è il maggiore collante della Destra e del suo partito oppure, come molti sostengono oggi, e alcuni anche in passato, ne è il solo collante?
Quanto al Centro e alla Sinistra, a che pro’ ripetere le cose sconfortanti che tanto spesso se ne sono dette per la loro mancanza di sufficiente coesione, e soprattutto per la carenza – che sembra tendere più ad aggravarsi che a contrarsi – in fatto di linee politiche, programmatiche e strategiche? Di relativamente nuovo c’è solo che il caso Penati ha aperto una falla di immagine, che potrebbe anche non avere grandi ripercussioni, ma che indubbiamente ha gravemente leso, ben più di altre precedenti, l’immagine del campo del PD.
Anziché insistere su tutto questo può essere, perciò, meglio soffermarsi su due punti in progressiva emersione dopo la pausa estiva, benché già affiorati prima.
Il primo riguarda il discorso fatto da più parti (Enrico Letta, Bocchino e altri) su un possibile ritiro di Berlusconi in cambio della garanzia che gli si darebbe di lasciarlo in pace sul piano giudiziario, fiscale e patrimoniale. Dire che si tratta di una proposta politicamente del tutto, assolutamente indecente è il meno. Dire che si tratta di una proposta moralmente irricevibile e degradante più per chi la fa che per chi la ricevesse è doveroso. E l’uguaglianza fra i cittadini predicata di giorno e di notte da certi ambienti, e in particolare da sinistra? E la questione morale agitata freneticamente come preclusiva nei riguardi di Berlusconi? E l’obbligatorietà dell’azione penale, che è un altro dei totem di questi anni? E quale sarebbero le ripercussioni per il prestigio e la credibilità dell’Italia quale paese di civiltà occidentale e di certezza e di effettiva prassi del diritto?
Il secondo riguarda l’incalzante frenesia di designazione di uomini dell’economia o della finanza, degli studi o del mondo pubblicistico quali possibili capi del governo tecnico o di larghe intese che dovrebbe surrogare quello di Berlusconi. Ora è il turno di Profumo, oltre quelli sempre riciclati di Monti, Montezemolo e altri. E si continua così a confessare una carenza, una insufficienza, una incapacità di autonomia e di leadership della politica, a cui diventa sempre più difficile rassegnarsi. Basta, occorre dire una buona volta. Altrimenti bisognerà chiedersi se partiti e forze politiche non debbano di urgenza e assai largamente cambiare e sostituire le loro attuali dirigenze, la cui insufficienza verrebbe da quelle designazioni clamorosamente confermata.
E pensare che questo accade in un momento, come il presente, della crisi globale che solo pochi mesi fa sembrava aprirsi a qualche spiraglio di conclusione, ed è oggi, invece, molto più grave di prima. Accade in un paese che, in crisi da anni, si è visto negli ultimi mesi precipitato nella zona a più alto rischio di bancarotta di un’Europa disastratissima, in cui sembrano non salvarsi più neppure i paesi, come Germania e Francia, orgogliosamente sulla cresta dell’onda fino a poco fa. Accade in un paese in cui neppure imprenditori e sindacati appaiono in grado di dare indicazioni concrete, e non ovvie e generiche, come fanno, sulle vie per fare fronte a un momento così drammatico. Accade in un paese per il quale bisogna soprattutto temere e far sì che la profonda, rischiosissima crisi congiunturale non si trasformi in una storica involuzione e retrocessione strutturale. Accade in un paese in cui il clima sociale si è arroventato e si va aggravando giorno per giorno, sicché non se ne possono escludere neppure prospettive tristissime a più o meno breve scadenza. Accade in un paese che continua ad avere problemi di macchina dello Stato, a cominciare dalla giustizia, e di rapporto fra Stato e società, che minacciano di degradare a livelli ben superiori a quelli tradizionalmente lamentati in Italia e negli ultimi tempi cospicuamente peggiorati. E certo dovremmo ricordare anche altro (la malavita, ad esempio).
Conservare non, come si dice banalmente, la calma, ma il controllo morale, intellettuale e politico della situazione sarebbe imprescindibile. Ed è quanto, tutto sommato, sentiamo di poter dire a provvisoria conclusione di quel che si è detto, anziché formulare pronostici e previsioni. Salvo ad aggiungere che, se la politica italiana va come va, e se la macchina dello Stato è quella che è, e se la crisi in cui ci si trova immersi è una crisi globale che trascende di molto la più specifica e particolare crisi italiana in atto già da qualche tempo, e se come tale questa crisi richiede di essere affrontata con strumenti e politiche a loro volta esorbitanti per natura e portata dai singoli quadri nazionali; d’altra parte, la struttura materiale, la conformazione economico-sociale del paese, le sue risorse di cultura e di capacità tecnologica, le sue attitudini in fatto di creatività che hanno fatto del made in Italy un’icona della produzione mondiale e della relativa comunicazione, e, insomma, tutto quel che ha fatto e continua a fare dell’Italia uno dei “grandi” del mercato mondiale, dovrebbero assicurare che questo non è un paese da dover dare ormai per spacciato, senza speranze che non siano quelle di un decoroso declino. Per la classe politico-amministrativa, per le classi dirigenti del paese questo alibi non vi è, e, beninteso, non vi è neppure per gli italiani, per la società italiana, che non può continuare e prolungare all’infinito la sua vecchia canzone, per cui, se in Italia le cose vanno male, responsabile ne è lo Stato (assente, lontano, altro) e i “politici” (questa casta di scoscienziati e privilegiati parassiti che fanno il brutto tempo per gli altri e il bel tempo per sé). Un po’ di decenza autocritica e di dignità critica è richiesta ed è indispensabile anche negli italiani e nella società italiana.
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