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Fra declino del regime orleanista e avvento della II Repubblica: tematiche politico-amministrative in Tocqueville
di Alessandra Petrone
Il poco più che decennale impegno nella vita politica attiva di Tocqueville, dall’elezione alla Camera nel 1839 fino al suo forzato abbandono al seguito del colpo di Stato bonapartista del 2 dicembre 1851 un impegno caratterizzato inoltre anche da ruoli di primo piano (come quello di Ministro degli esteri della II Repubblica, seppur per pochi mesi) costituisce una sorta di cerniera fra due periodi di intensa e creativa attività intellettuale. Quello precedente cioè l’appassionato e da tempo agognato impegno politico diretto, costituito in primo luogo dalle due parti della Democrazia in America; e quello successivo, che vide la pubblicazione della grande opera storiografica rimasta incompiuta per la morte prematura di Tocqueville, vale a dire l’Antico Regime e la Rivoluzione.
La riconosciuta “centralità”, non soltanto cronologica, della poco più che decennale fase intermedia, può ad ogni modo e per molti versi essere fondatamente considerata come raccordo fra i due periodi di intenso studio appena accennati1. Il primo notoriamente caratterizzato dall’approfondita consapevolezza critica dell’avanzamento irresistibile del processo democratico-egalitario, e contemporaneamente della presa d’atto degli effetti virtuosi di questo processo in una società democratica, come la statunitense, sorretta, insieme ad altro, da un favorevole contesto istituzionale e amministrativo. E tutto questo tenendo simultaneamente in debito conto la situazione francese, nella quale invece l’ineluttabilità del processo di democratizzazione, non adeguatamente compreso ed affrontato dalla classe dirigente dell’epoca, rischiava, senza un pertinente e disciplinato controllo all’interno di un contesto politico-istituzionale conforme alla Francia, di sfociare verso le derive più pericolose e illiberali della democrazia. Il secondo periodo, succeduto ad un’intensa esperienza politica (dallo stesso disincantato Tocqueville ritenuta infruttuosa, considerati gli esiti finali2), caratterizzato dalla messa in evidenza della stretta analogia fra aspetti e assetti amministrativi della Francia pre e post-rivoluzionaria. Questo nella sofferta consapevolezza di come la frattura della Rivoluzione, nella sua drammaticità, avesse aperto in Francia il varco ad una deriva rivoluzionaria che sembrava non volersi in alcun modo concludere. Il vissuto politico fra questi due cruciali periodi segna, da parte di Tocqueville, consapevole di ciò che aveva sapientemente colto nel profondo del processo democratico, il tentativo di tradurre in forme politiche concrete in Francia quelli che egli aveva configurato come potenziali punti fermi per un corretto e liberale equilibrio fra società democratica ed assetto politico-istituzionale3. D’altronde già nella composizione della Democrazia in America egli aveva concesso poco alla formulazione e alla derivazione di principi di carattere generale e astratto, mostrandosi molto più attento a descrivere, criticare, lodare, finendo così con il preferire il liberalismo nella pratica piuttosto di quello teorico, poiché in fin dei conti solo «il liberalismo nella pratica è il liberalismo con l’anima»4. Ed è poi proprio con queste premesse che la problematica degli aspetti amministrativi non veniva ancora una volta, e in diversi contesti, da lui trascurata.
Indicativo di come in Tocqueville sia radicata l’idea che il funzionamento e le caratteristiche dell’amministrazione incidano, nel bene come nel male, nel complesso della struttura dello Stato e della vita pubblica è il suo tenerne conto anche riguardo ad una situazione del tutto particolare, come quella del governo coloniale dell’Algeria. A tal proposito infatti egli così si esprimeva sin dall’agosto del 1837; nell’anno quindi del suo primo e non riuscito tentativo di candidarsi alla Camera:
Sarebbe anche necessario che la legislazione che disciplina i francesi in Africa non resti la stessa che è in vigore in Francia. Un popolo nascente non può affatto sopportare gli stessi disagi amministrativi di un vecchio popolo, e le stesse formalità lente e moltiplicate, che garantiscono qualche volta la sicurezza del secondo, impedendo al primo quasi di nascere. Noi abbiamo bisogno in Africa come in Francia, e più che in Francia, di garanzie essenziali all’uomo che vive in società; non c’è paese dove sia più necessario fondare la libertà individuale, il rispetto della proprietà, la garanzia di tutti i diritti che in una colonia. Ma d’altra parte una colonia ha bisogno di un’amministrazione più semplice, più rapida e più indipendente dal potere centrale di quelle che dirigono le province continentali5.

La questione algerina, nei suoi vari aspetti, sarà d’altro canto proprio uno dei problemi affrontati da Tocqueville già agli inizi della sua esperienza politica. Il primo dei due viaggi in Algeria data infatti maggio-giugno del 1841, mentre il secondo avvenne nel novembre-dicembre del 1846. L’interesse per l’Algeria nasceva tutto sommato in Tocqueville dall’intento di dedicarsi sin da subito alle grandi questioni, quali potevano essere per l’appunto quelle di politica estera, non intendendo egli pertanto trovarsi relegato ad assumere un ruolo politico di secondo piano6. Cosa questa del tutto estranea alla sua natura profondamente aristocratica, che vedeva nell’assunzione del ruolo politico pubblico non la mera acquisizione di una sfera di potere personale, ma la possibilità ed anche il dovere di incidere beneficamente sulle sorti del proprio paese. L’interesse più generale per l’Algeria non a caso gli derivava d’altronde proprio dal considerarla anche come una questione irrinunciabile della politica estera francese7. Questa per Tocqueville doveva essere necessariamente una politica di grande potenza nel contesto europeo8, imponendosi come tale dopo l’umiliazione subita il 15 luglio 1840 con la soluzione, penalizzante per la Francia, della crisi d’Oriente. D’altronde l’adesione dell’opinione pubblica inglese agli esiti della crisi non verrà considerata da Tocqueville come un episodio privo di conseguenze. Scrivendo a Stuart Mill il 18 marzo 1841, egli infatti così si esprimeva:
I governi possono anche dire che tutto è dimenticato. In fondo al cuore, la nazione li smentisce e, a questo male, i protocolli e le note diplomatiche non servono da rimedio. L’irritazione violenta che il trattato del 15 luglio aveva prodotto è del tutto placata, ma, peggiore di quella, resta il sentimento tranquillo e profondo che in un’alleanza con l’Inghilterra non c’è né sicurezza né avvenire, e che la rivalità degli interessi è un fatto ormai innegabile, a cui è impossibile mettere fine9.

In tal senso la presenza francese nel Mediterraneo diveniva essenziale per contenere il predominio dell’Inghilterra10; se pertanto la Francia doveva avere un ruolo da protagonista nel Mediterraneo, il pieno controllo della colonia algerina diveniva irrinunciabile. Questo spiega quindi la meticolosità, caratteristica del resto peculiare del suo metodo di lavoro, con la quale Tocqueville prepara, già nell’estate del ’40, il suo primo viaggio in Algeria, dedicandosi a letture sistematiche sull’argomento, e in particolare a quella delle grandi raccolte come il Tableau de la situation des établissements français dans l’Algérie e gli Actes du gouvernement11. Utilizzando dunque un metodo di lavoro già collaudato durante il viaggio in America, queste letture danno luogo ad appunti di varia natura, testi elaborati, riassunti, considerazioni brevi, analisi dei costumi o di aspetti istituzionali. In alcune parti di questi scritti emerge inoltre il disappunto di Tocqueville nel riscontrare gli stessi difetti dell’amministrazione francese riprodotti in maniera quasi speculare in Algeria:
Tutti i disagi amministrativi che esistono in Francia esistono in Africa, regolamenti della rete viaria, misure di polizia, tassa di licenza, regolamenti di professioni… non manca niente. Tutte le nostre leggi fiscali sono state trasferite là e l’importuno spirito di regolamentare della nostra amministrazione si ritrova in pieno12.

Egli inoltre nota e pone l’accento su come questa situazione fosse aggravata nella colonia per la mancanza di quelle garanzie e libertà, come la libertà di stampa e la libertà d’insegnamento, che in Francia facevano sopportare tali disagi amministrativi. In Algeria non esisteva, in aggiunta, qualcosa che potesse assomigliare minimamente ad una rappresentanza dei governati, e questo nemmeno a livello di consiglio municipale; sicché la popolazione non prendeva parte né diretta né indiretta, né consultiva né deliberativa, alla direzione dei propri affari più immediatamente locali. Un potere amministrativo insomma non soltanto meno sorvegliato rispetto alla Francia, ma rivestito di diritti immensi13. Considerazioni che Tocqueville vedrà confermate verificandole sul posto, ad Algeri, grazie anche a conversazioni avute con una serie di importanti funzionari francesi. Sulla scorta di una di queste – e sottolineando che già l’idea di far governare un paese da funzionari non soggetti al controllo dei governati era un fatto increscioso (lo diveniva ancor di più quando il paese in questione era una colonia, in cui i funzionari rimanevano comunque degli estranei –, egli arrivava a concludere:
Il fatto è che nessuna delle nostre colonie è mai stata, in nessuna epoca, trattata come Algeri. Tutte, in un modo o nell’altro, hanno ammesso una qualche azione della popolazione locale o quanto meno lasciato alle autorità locali l’amministrazione delle entrate. Algeri è un’eccezione negativa perfino nel nostro pessimo sistema coloniale14.

Considerazione che in maniera più elaborata e assai significativa riprodurrà nel suo Travail sur l’Algérie15, dove è ribadita l’urgenza della creazione o piuttosto della ricostruzione di un potere municipale. Questo nella misura in cui, secondo Tocqueville, tutte le colonie in ogni tempo devono la loro nascita e il loro sviluppo allo spirito comunale. La distruzione del corpo municipale di Algeri, centralizzando tutte le risorse a Parigi, era quindi una situazione deprecabile, uno stato di cose da cambiare. Nonostante egli inoltre non riscontrasse potenziali inconvenienti dalla possibilità di eleggere i consiglieri municipali (ma non il sindaco) da parte della popolazione, ammetteva però che un problema poteva sorgere dall’essere la popolazione in questione ancora troppo poco omogenea. Bisognava ad ogni modo lasciare ad essa almeno la cura e l’impiego delle risorse comunali16. Per tale motivo egli così si esprimeva:
Affrettatevi a legare questi abitanti a questo suolo nuovo, creando loro interessi collettivi ed un’azione comune. Sono questi interessi e queste azioni che mancano e senza le quali non sono mai state create delle società. È un errore credere che le attribuzioni municipali dovessero essere minori in Algeria che in Francia. Esse al contrario devono essere più grandi. Un potere municipale attivo è tutto insieme più necessario e meno pericoloso là che altrove: più necessario perché occorre creare una vita sociale che non esiste ancora; meno pericoloso perché non c’è da temere che la libertà comunale degeneri in licenza politica17.

In Algeria il numero limitato di coloni, il loro isolamento, la forza dell’esercito avrebbe comunque dato al governo un potere irresistibile. Non bisognava quindi assolutamente confondere il governo militare, che aveva ben determinati compiti, con l’amministrazione civile. Infatti l’amministrazione della proprietà comunale, i suoi lavori pubblici e la polizia interna delle città dovevano essere ritenuti compiti di natura diversa, e che non dovevano pertanto ricadere nelle competenze dell’autorità militare18. A loro modo sembrano riemergere, in talune di queste considerazioni tocquevilliane, quei temi del “punto di partenza” e del comune come comunità naturale, primo tassello organizzativo della società nascente, che erano stati evidenziati a proposito delle colonie americane nella Democrazia in America.
Questi sono anche gli anni del progressivo interessamento di Tocqueville sulle sorti dell’India, paese nel quale meditava persino di recarsi, premendogli in particolare di comprendere gli aspetti tecnico-organizzativi del dominio inglese. Già a partire dal 1840 egli aveva iniziato a documentarsi sulla questione, tanto da arrivare proprio poco dopo il suo ritorno dal primo viaggio in Algeria a coltivare l’intenzione di scrivere sull’argomento. Le due vicende d’altronde non appaiono disgiunte, in quanto parte della motivazione di questo studio derivava dall’intenzione di comparare le due situazioni, di coglierne le differenze, cercando di individuare i probabili sviluppi di due modelli di colonizzazione, sostanzialmente diversi. L’Algeria doveva in effetti essere una colonia di popolamento, mentre in India circa trentamila inglesi governavano di fatto un milione di indù. L’abbozzo della prima parte dell’opera, che non verrà portata a termine, sarà concluso sul finire del 184319. Anche in questo caso emergono spunti interessanti e sui generis sul ruolo del comune, pur nella complessa società castale indiana. Tocqueville, mettendo a fuoco in un certo qual modo la relativa facilità di conquista dell’India da parte degli inglesi, così infatti ne delineava la peculiare situazione:
Il comune forma come il terreno sociale dell’India. Tutto è al di sopra agilità, movimento, cambiamento. Esso è l’unica dimora ferma e stabile. Ciò spiega molte cose. Ciò spiega inizialmente come la civilizzazione ha potuto conservarsi in India in mezzo alle rivoluzioni che non hanno cessato di devastare questo paese da ottocento anni. La civilizzazione ha sempre trovato nel comune un asilo inviolabile. Ciò spiega ancora come tante conquiste si sono potute realizzare e tanti conquistatori stabilirsi senza pena sul suolo. Tutta la vita politica degli indù si era ritirata nel comune, tutta l’amministrazione si era in esso concentrata. Purché il comune sussistesse poco importava agli abitanti a chi apparteneva l’Impero. Si accorgevano a mala pena del cambiamento del padrone20.

Questa situazione comportava inoltre che il venir meno del potere politico, nella fase di transizione che si generava nel passaggio da un conquistatore ad un altro, non si traduceva in un reale stato d’anarchia per il paese, poiché il potere amministrativo locale non si estingueva, continuando a svolgere un’opera di coesione sociale. Comunque Tocqueville non manca in questo scritto anche di cogliere i vantaggi, in termini di controllo del territorio, nella modalità inglese di gestire la colonia rispetto all’analoga situazione francese in Algeria. Sempre avendo presente un dato che oramai possiamo definire per lui non secondario, cioè quello dell’amministrazione, egli sottolinea in aggiunta come gli inglesi avessero esportato in India, traendone benefici a differenza dei francesi in Algeria, quelle che erano le loro usanze amministrative:
Le idee e le abitudini governative degli inglesi non danno loro né l’uso né il gusto dell’uniformità e della centralizzazione. Grandi vantaggi per trattenere sotto il loro impero un paese così vasto, così diverso, così vario nei suoi abitanti, e dove era positivo avere tanti sistemi amministrativi quante province. Mirando a fare una macchina più semplice si sarebbero vanificate le energie. Ciò che il genio francese non aveva mancato di provare21.

Durante il secondo viaggio in Algeria, quello del ’46, Tocqueville nelle relative note riproduce e in taluni casi perfeziona considerazioni e impressioni sull’amministrazione della colonia algerina. Nel complesso il secondo viaggio gli servirà per la stesura dei due grandi rapporti parlamentari di cui fu relatore nel febbraio 1847 e che saranno pubblicati in maggio da «Le Moniteur». Si tratta del Rapport sur le projet de loi relatif aux crédits extraordinaires demandés pour l’Algérie e del Rapport sur le projet de loi portant demande d’un crédit de 3 millions pour les camps agricoles de l’Algerie. Sappiamo, nonostante i verbali della commissione siano andati perduti, che Tocqueville aveva apportato dei cambiamenti al testo finale, su richiesta di alcuni colleghi di commissione22. Ma, a parte ciò, i due rapporti non possono essere considerati meno importanti ai fini di una valutazione generale delle complessive riflessioni tocquevilliane sull’Algeria. In particolare, nel primo rapporto, la parte che concerne i problemi dell’amministrazione della colonia, e sugli eventuali necessari correttivi, sembra essere pienamente in linea con le idee di Tocqueville in tema di decentramento amministrativo. Egli pone infatti l’attenzione sulla priorità da dare ad una riforma amministrativa della colonia, considerato che in Algeria l’amministrazione, la quale aveva come principale compito quello di stabilire e dirigere nel paese la popolazione europea, a suo avviso «funziona solamente in un modo molto imperfetto, è singolarmente complicata nei suoi ingranaggi, molto lenta nei suoi procedimenti, con molti agenti produce poco; spesso con molto lavoro, sforzi e denaro produce male»23. Tra le cause di questa farraginosità amministrativa Tocqueville annovera, fra l’altro, l’impreparazione dei funzionari inviati nella colonia, all’oscuro della lingua, degli usi, della storia del paese che sarebbero andati ad amministrare nonché, cosa questa ancor più grave, della sua organizzazione e della legislazione particolare che vi doveva essere applicata24. Ma il punto più critico che viene da lui individuato è il doppio grado di centralizzazione amministrativa della colonia, nei confronti di Parigi per un verso e in subordine nei confronti di Algeri. Per quanto riguarda la dipendenza nei confronti di Parigi, Tocqueville sottolinea come essa fosse di gran lunga superiore a quella di uno qualsiasi dei dipartimenti francesi dove, esistendo una serie di poteri intermedi, dai prefetti agli stessi sindaci, tutta una serie di questioni potevano essere risolte a livello comunale o anche dipartimentale. Rimaneva comunque accertato che in linea di massima tutte le questioni piccole o grandi della colonia che erano attirate a Parigi venivano risolte. Nel caso della dipendenza nei confronti di Algeri, invece, il quadro era per Tocqueville forse ancora più problematico e sconfortante, poiché l’unità amministrativa delle tre province non era giustificabile né dalla prossimità dei capoluoghi con Algeri, né dalla comunanza degli interessi economici. Esistevano infatti sostanziali eterogeneità fra le tre province (Algeri, Orano, Costantina), configuranti l’articolazione territoriale della colonia anche per quanto riguardava le relazioni economiche, molto più indirizzate verso la Francia che fra di loro. Tutti fattori questi che non favorivano una pronta risoluzione degli affari delle medesime25. Dopo aver analizzato anche il non soddisfacente, poiché estremamente poco razionale, insieme della struttura amministrativa in Algeria, dove peraltro si veniva a creare una indipendenza, da lui biasimata, fra autorità amministrativa e politica, Tocqueville in proposito così significativamente scriveva nel rapporto:
Non è saggio da nessuna parte, ma soprattutto in un paese conquistato, lasciare completamente indipendente l’una dall’altro l’autorità che amministra e il potere politico che governa, di qualsiasi natura sia il rappresentante di questo potere e a qualsiasi classe di funzionari pubblici esso appartenga26.

Pervenendo infine ad elencare una serie di potenziali correttivi, veniva suggerito anzitutto di fare in modo che la centralizzazione nei confronti di Parigi fosse essenzialmente politica, consentendo all’Algeria di avere una parte dell’amministrazione più propriamente detta, depotenziandone comunque alcune attribuzioni, per rafforzare al contempo le autorità municipali. Risultava inoltre opportuno semplificare gli ingranaggi dell’amministrazione centrale ad Algeri, introducendovi i principi di subordinazione gerarchica e di unità, regolandosi analogamente nelle province; a condizione però che esse, per una serie di affari secondari, potessero trattare direttamente con Parigi. Veniva infine ritenuto necessario sottomettere ovunque l’autorità amministrativa alla direzione, o almeno alla sorveglianza, del potere politico27.
Abbiamo già evidenziato come l’attenzione di Tocqueville rivolta alle questioni di politica estera, ed in particolare alle vicende della colonia algerina nascevano, in rotta anche in questo con Guizot (ministro degli esteri dal 1840, ma in realtà vero capo del governo), dalla sua convinzione dell’importanza di una presenza attiva e di primo piano della Francia nel Mediterraneo, in concorrenza con l’Inghilterra. Questo però non doveva significare per lui una minore rilevanza delle questioni interne; molteplici saranno infatti le questioni politiche sulle quali egli non farà mancare la sua opinione, ed in alcuni casi il suo contributo concreto. E questo nel timore che la svolta politico-istituzionale della Monarchia di Luglio, disattendendo le sue promesse iniziali, avesse aperto l’ennesima fase di transizione e di instabilità politica per la Francia, e quindi come ancora una volta non si fosse giunti ad un assetto in grado di durare nel tempo. Pertanto bisognava cercare quelle soluzioni atte ad imbrigliare, nel senso positivo del termine, il processo democratico attraverso una politica di ispirazione liberale tale da garantire stabilità, evitando ulteriori e rischiosi cambi di regime dagli esiti imprevedibili. Non è un caso quindi che, già nell’appello agli elettori di Valognes, scritto in occasione delle elezioni per lui infruttuose del 1837, Tocqueville si fosse espresso in tal modo:
Numerose e fin troppe rivoluzioni hanno travagliato la nostra patria. Dopo cinquant’anni di sommosse e di guerre, di mutamenti di ogni genere, e di trasformazioni di ogni specie, la stabilità, la quiete, la diminuzione delle cariche pubbliche sono diventate le nostre primarie esigenze. Prevenire il disordine, quale che sia l’ordine nuovo che ci lusingavamo di farne scaturire, questo è ai miei occhi l’interesse manifesto della Francia, ed esso deve essere posto al di sopra di tutti gli interessi di parte. Credo dunque fermamente, e di conseguenza non temo di dire, che occorra cercare di perfezionare l’attuale costituzione del paese, e non pensare di distruggerla28.

Stabilità, ordine, quiete: termini questi che sicuramente facevano parte del lessico politico tocquevilliano, ma che in alcun modo potevano e dovevano significare mancanza di interesse nei confronti della politica da parte dell’opinione pubblica, intorpidita invece dall’azione del governo che, agitando lo spauracchio di una nuova rivoluzione, nei fatti stava compiendo passi indietro rispetto alla iniziale apertura alle istanze liberali implicite nella carta costituzionale del ’30, secondo quanto viene descritto nelle più tarde Lettres sur la situation intérieure de la France29. Queste furono redatte sulla scia di una delle più importanti iniziative politiche assunte da Tocqueville, vale a dire il tentativo di sottrarre Barrot, e quindi la sinistra dinastica, dall’influenza di Thiers. L’occasione si presentò in seguito alla discussione nell’agosto 1842 della legge sulla reggenza presentata da Guizot con l’accordo di Thiers; una legge che, all’indomani della morte accidentale dell’erede al trono, il duca di Orléans, intendeva fissare un principio costituzionale di reggenza. Tocqueville si batté invano contro quello che a suo avviso risultava un modo di usurpare il diritto delle future camere di poter decidere caso per caso; riuscendo però sulla questione, anche con l’appoggio di Lamartine, a convincere Barrot a dissociarsi da Thiers. Egli sperò in tal modo, seppur per un breve momento, di poter acquisire un ruolo di guida delle diverse anime dell’opposizione, sollecitando una linea politica unitaria, configurabile in sostanza come partito30. Questo tentativo non va letto come una presunta “partigianeria” di Tocqueville, che non fu mai uomo di partito nel senso stretto, ma piuttosto nella volontà di ridare un’anima e un senso all’opposizione per farle assolvere il compito, assegnatogli dalla dottrina liberale, di porre un freno alla tendenza di qualsiasi governo di agire in favore del proprio «gruppo costitutivo»31. Egli, infatti, così si esprimeva:
Se riuscissimo a dare all’opposizione o almeno alla sua parte più forte e migliore, i nostri modi, avremmo certo fatto non solo una grande cosa per noi, ma soprattutto, cosa che è meglio, per il paese. Avremmo formato, credo, quello che è sempre mancato in questo paese da quando il sistema rappresentativo è in vigore, un’opposizione di governo, vale a dire un’opposizione che, diventando maggioranza, potrebbe prendere gli affari e condurli senza procurare disordini o nuove rivoluzioni32.

Le riflessioni ad ogni modo di Tocqueville sulla politica interna, dettate anche su questo versante dall’opposizione a Guizot e alla linea del governo, si concretizzarono per l’appunto nelle già citate Lettres. In particolare Tocqueville metteva in guardia sui pericoli che incombevano sulle aspettative della causa liberale, la quale, dopo un breve trionfo nel 1789, nel prosieguo della Monarchia di Luglio33, che pure avrebbe dovuto gettare le fondamenta per un suo definitivo consolidamento in Francia, sembrava invece venire compromessa. Le sue inquietudini venivano significativamente espresse in tali termini:
La Nazione, infatti, è diventata indifferente per ciò che l’ha così spesso e vivamente appassionata da cinquant’anni? È vero che il nostro spirito e i nostri costumi si rifiutano allo sviluppo delle istituzioni costituzionali? Basta ai francesi aver distrutto i privilegi, liberato il suolo e l’industria dei suoi ostacoli, livellato le condizioni? Soddisfatti di queste grandi conquiste della Rivoluzione, non si occupano più di diritti politici che quella stessa Rivoluzione ha fatto nascere? Contenti di essere uguali non vogliono più restare liberi? So che molta gente inizia a sperarlo senza osare ancora crederlo; se lo credono già, senza osare ancora a dirlo. Quanto a me, non lo temo affatto e non lo credo34.

Tuttavia per Tocqueville la costituzione liberale poteva contare su un attaccamento dettato non solo dall’affezione ai suoi principi, ma da un legame ben più solido, vale a dire l’abitudine. Erano ormai cinquant’anni che si parlava di libertà e almeno trenta che se ne faceva uso. Il regime costituzionale, soprattutto per gli uomini della sua generazione, anche se non considerato da tutti come il migliore, era pur sempre ritenuto come l’unico e il solo possibile35. Ma per lui risultava anche vero quanto segue:
Lo spirito che ha fatto ciò che c’è stato di grande e di efficace nelle rivoluzioni del 1789 e del 1830 non è dunque morto; ma vive in una specie di languore pericoloso: una passione che ha preso il sopravvento su tutte le altre l’affossa e lo comprime. Questa passione dominatrice è la paura delle rivoluzioni. I francesi amano tanto la loro indipendenza come in nessun’altra epoca della loro storia; ma temono, dedicandosi ai liberi movimenti che essa suggerisce, di gettarsi in nuovi rischi36.

In realtà Tocqueville, denunciando quel «languore pericoloso», e presentandosi come un difensore dei principi dell’89, riaffermati anche nel ’30, sperava di sollecitare la borghesia, mediante un ritorno alle origini, ad un atto collettivo di ripresa di consapevolezza, di recupero in sostanza del momento in cui la sua identità era stata politica. Un ritorno alle origini che doveva riacquisire insomma gli aspetti di altruismo, di sforzo comune, non di distruzione rivoluzionaria e di odio di classe, e che poteva invertire l’estinzione della vita pubblica e combattere il letargo che sembrava avvolgere la società. Un ritorno dunque alla politica, quella politica che proprio la Rivoluzione francese aveva reso possibile37.
Non erano ad ogni modo le rivoluzioni il pericolo incombente da temere; per Tocqueville una tale eventualità in quel momento sembrava molto poco probabile in Francia, tant’è che a tal proposito egli non esitava ad affermare:
Ciò che bisogna temere oggigiorno, non è una rivoluzione, è un cattivo governo, un governo che non avrebbe i vantaggi del dispotismo né quelli della libertà, che prenderebbe da questa solo le sue inquietudini, i suoi malesseri, le sue manovre corruttrici senza darci la sua energia, la sua forza e la sua fecondità. Io vorrei che il mio paese fosse persuaso di questa verità come lo sono io, e che veda infine chiaramente che non ha da temere il capovolgimento violento delle sue leggi, ma la loro degradazione e caducità precoce38.

Anziché contrastare questo pernicioso atteggiamento di paura il governo, secondo il giudizio di Tocqueville, sembrava alimentarlo agitando lo spettro del dissolvimento di qualsiasi certezza materiale e spirituale sulla quale si basa la società. La Monarchia di Luglio, nella sua percezione, sembrava incoraggiare deliberatamente i vizi della società democratica: l’apatia politica, l’individualismo, e il materialismo, mettendo in atto una sottile strategia per negare proprio alla società che governava la libertà politica39. Egli pertanto così descriveva criticamente la linea d’azione governativa:
Ci mostra la nazione come sospesa sopra quest’abisso mediante un filo sottile che il minimo vento delle fazioni agita e può rompere. Che c’è da fare in una situazione così critica e precaria se non pensare più al passato, dimenticare l’avvenire e rimanere ben immobili e quieti nel mezzo del godimento materiale del presente, mentre il governo si prende cura di pensare per noi, d’agire in nostro nome e di salvarci da noi stessi tutti i giorni40.

Riemerge in tal maniera, seppur in un contesto problematico diverso, la considerazione critica dell’amministrazione capillare francese, tratteggiata come strumento nelle mani del potere per rendere il cittadino inerte e soprattutto insensibile ai grandi temi della politica. Ed infatti non si può non cogliere nelle parole poc’anzi citate l’assonanza, ma anche a suo modo il medesimo monito, con la nota presa di posizione tocquevilliana a proposito dell’accentramento amministrativo contenuta nella prima Democrazia in America:
Che cosa m’importa, dopo tutto, che vi sia un’autorità sempre pronta a vegliare sulla tranquillità dei miei piaceri, a precedere ogni mio passo per allontanare i pericoli, senza che io abbia neppure il bisogno di pensarci, se questa autorità, mentre toglie ogni pur minima spina dal mio cammino, è padrona assoluta della mia vita e della mia libertà; se monopolizza il movimento e l’esistenza a tal punto che, quando essa langue, tutto necessariamente langue, quando dorme, tutto dorme, e se muore, tutto perisce?41.

Queste considerazioni tocquevilliane, sull’utilizzo da parte del governo dell’amministrazione come strumento di controllo della vita dei cittadini, derivavano dal considerare le riforme pur attuate dal regime orleanista in tale settore, e tese a dare nuovo vigore alle autonomie locali, tutto sommato insufficienti. Non risolutive dell’arduo e complesso problema della necessaria convivenza di qualsiasi concessione in senso autonomistico a livello locale con la struttura portante dell’amministrazione francese, comunque fortemente centralizzata. Le due leggi più significative in tal senso, erano state quella sulla organizzazione municipale del 21 marzo 1831 e quella sulle attribuzioni municipali del 18 luglio 183742. La prima, che poteva considerarsi il più ampio esperimento di partecipazione elettorale locale dopo trent’anni, pur stabilendo che il sindaco continuava ad essere di nomina regia43, prevedeva che ad eleggere i due terzi dei membri del consiglio municipale fossero i maggiori contribuenti alle imposte dirette, i cosiddetti plus imposés, anche non domiciliati nel comune44; in tal modo un proprietario iscritto al ruolo delle imposte di più comuni poteva esercitare il diritto di voto in ognuno di essi. A questi plus imposés si aggiungevano come elettori della restante quota di consiglieri municipali gli elettori così detti “capacitari”, tra i quali figuravano magistrati, avvocati, componenti delle camere di commercio, gli ufficiali della guardia nazionale, i membri e corrispondenti dell’Istituto (Institut de France), quelli delle sociétés savantes, ed altre categorie45. La seconda, approvata peraltro solo alcuni anni dopo quella del ’31, ad evidenziare quanto la materia fosse spinosa, era diretta a stabilire le competenze del sindaco e del consiglio municipale46. Nel complesso, pur ampliando certe prerogative e concedendo maggior respiro alle autonomie locali, la normativa non le affrancava però dalla tutela prefettizia47. Era comunque per Tocqueville interesse del governo non perdere in alcun modo il controllo della macchina amministrativa fin nelle sue più lontane diramazioni; e questo ben emerge nell’articolo La centralisation administrative et le système représentatif, apparso su «Le Commerci» del 24 novembre 1844. Quivi, nel denunciare gli effetti perversi di quella da lui ritenuta come un’inedita ed anomala simbiosi, così esordiva:
L’opposizione si accorge ogni giorno che la vita pubblica langue, che ad ogni momento l’influenza del potere aumenta in mezzo all’indifferenza universale, che gli interessi personali subentrano alle opinioni generali e che la promessa o la distribuzione dei favori e degli impieghi diventa sempre più un mezzo onnipresente di governo […]. Per giudicare quello che succede, scartiamo prima di tutto il ricordo di quello che ha avuto luogo in altri tempi e presso altri popoli. Quello che capita in questo momento a noi è del tutto nuovo nella storia del mondo. Noi stiamo tentando un’esperienza che nessun’altra nazione ha ancora fatto. Noi vogliamo far coesistere allo stesso tempo, sullo stesso suolo, tre cose che non sono mai state riunite da nessun’altra parte: l’accentramento amministrativo, il governo rappresentativo e l’uguaglianza48.

Nel seguito del discorso Tocqueville evidenziava come ad esempio un governo molto centralizzato, quale quello prussiano, non avesse un sistema rappresentativo, mentre il governo inglese, pur avendo un sistema rappresentativo, non aveva un’amministrazione centralizzata. A differenza del modello britannico, quello che si configurava in Francia era invece che, accanto ad un sistema amministrativo mille volte più accentrato di quello inglese, si fosse posto un sistema di governo parlamentare. Ciò comportava di fatto che la macchina amministrativa venisse utilizzata dal governo, considerata l’enormità delle sue competenze, e quindi la capacità di incidere sulla vita e sui patrimoni personali dei cittadini, come strumento per conseguire consenso49. Il circuito vizioso di tale sistema, alimentato dalla ristrettezza del corpo e dei collegi elettorali, veniva così denunciato da Tocqueville:
Ora, si dà il caso che gli stessi uomini che si servono, come amministratori, di tale inaudita potenza siano sottomessi, come ministri, alla volontà di un piccolo numero di cittadini che formano il corpo elettorale, o che compongono la legislatura. Essi godono di più prerogative di quanto non ne abbiano mai possedute i più grandi despoti, e tuttavia sono in ogni momento alla mercé dei capricci di un’assemblea o di quelli di un uomo. Essi hanno al tempo stesso molto potere e molta dipendenza. Perché non dovrebbero abusare del primo per liberarsi dalla seconda?50.

Tutto ciò veniva a suo avviso agevolato dallo “stato sociale” francese, tendenzialmente egualitario, dove si trovavano meno poveri ma in definitiva anche meno ricchi, patrimoni mediocri al dunque che, nonostante la possibilità garantita dalle leggi di poterne aumentare l’entità, senza l’aiuto da parte del governo difficilmente avrebbero potuto aspirare a molto di più51. Questo portava Tocqueville a concludere così:
Come volete che un governo che possiede tante prerogative e che è circondato da uomini che hanno tanti bisogni non sia trascinato suo malgrado ad essere prima il nostro corruttore e poi il nostro padrone? […]. Che cosa aspettiamo dunque? Vogliamo, prima di uscire dal nostro letargo, che questa grande nazione sia trasformata in un popolo di servitori? Occorre che il commercio delle coscienze sia divenuto un’industria universale e regolare? […]. Con l’aiuto di quali precauzioni, con quali garanzie, seguendo quali regole si può arrivare a combinare per la prima volta, in seno ad una società democratica come la nostra, un vasto accentramento amministrativo e un serio sistema rappresentativo? Questo è l’enigma temibile del quale si tratta ora di trovare la chiave52.

D’altronde sempre più per Tocqueville la deriva involutiva del governo si configurava come il primo ostacolo per un’attenzione critica costruttiva su una problematica già di per sé così intricata.
Ma un nuovo fronte sulla questione amministrativa si apriva per lui: quello suscitato in occasione del dibattito tenuto alla Camera dei deputati nel febbraio 1845 sulla legge concernente la composizione e le attribuzioni del Consiglio di Stato (legge del 19 luglio 1845). In particolare egli poneva in risalto la questione della responsabilità dei funzionari amministrativi, intervenendo favorevolmente su «Le Commerci»53 in merito alla proposta Isambert, la quale mirava a sostituire l’autorizzazione che si doveva chiedere al Consiglio di Stato per perseguire un funzionario in giudizio, con un’analoga autorizzazione concessa però da un magistrato dell’ordine giudiziario. A tal proposito Tocqueville così si esprimeva:
Le Camere sorvegliano i ministri ed impongono loro delle regole generali di condotta; ma i ministri sono raramente in contatto con i cittadini. Al contrario, chi trovo accanto a me tutti i giorni per immischiarsi di tutti i dettagli della mia esistenza sociale? Sono gli agenti secondari del potere: i prefetti, i sottoprefetti, i sindaci, che mi fanno sentire ad ogni istante l’azione del governo. E quando violano nei miei confronti le leggi, chi mi difenderà? Le Camere? Non possono entrare in questi dettagli. La mia sola garanzia è nella protezione dei tribunali […]. Il diritto di perseguire gli agenti del potere davanti alla giustizia, non è una parte della libertà dunque; è la libertà stessa […]. Questo è vero in Francia più che altrove perché, che cos’è da noi l’amministrazione? Tutto. Di che cosa si occupa? Di tutto. Dov’è? Ovunque […]. Noi siamo i più esposti fra tutti gli uomini ai fastidi dell’amministrazione ed ai suoi piccoli abusi di potere, e nello stesso tempo i meno difesi contro di essa […] occorrendomi chiedere al Consiglio di Stato il permesso di adire i tribunali per avere giustizia. Che cosa! Chiedere all’amministrazione stessa il risarcimento di un abuso amministrativo? […]. Così vuole un articolo 75 introdotto da Napoleone nella Costituzione dell’Anno VIII che la Restaurazione ha conservato accuratamente54.

Il governo infatti, per Tocqueville, tradendo le intenzioni sancite nella Charte del 183055, dopo quindici anni non aveva ancora provveduto alla modifica, sottintendendone la validità56, dell’articolo 75. Quest’ultimo, va ricordato, prevedeva che gli agenti del governo non potevano essere perseguiti per fatti relativi alle loro funzioni se non in virtù di una decisione del Consiglio di Stato; e solo allora pertanto il procedimento poteva avere luogo davanti ai tribunali ordinari. Tocqueville, riferendosi all’intervento alla Camera del ministro della giustizia, Nicolas Martin du Nord, in risposta alla proposta Isambert, ed in difesa dell’art. 75, non esitava ad affermare come «nessun ministro della Restaurazione abbia mai fatto più apertamente l’apologia di tutte le teorie sulle quali, tra noi, riposa il dispotismo amministrativo»57. Ma egli entrava anche nel dettaglio di questa importante legge, in particolare nella delicata questione del contenzioso amministrativo e nello specifico di come si andava ad organizzare il comitato del contenzioso in seno al Consiglio di Stato. Infatti, diveniva in qualche modo essenziale garantire le prerogative del singolo cittadino, il quale non poteva in effetti adire i tribunali ordinari nei casi in cui la controparte era rappresentata dall’amministrazione. Una situazione questa, che Tocqueville così descriveva:
Se esistessero dei tribunali più indipendenti e più imparziali dei tribunali ordinari, sarebbe il caso di farvi ricorso per far giudicare un tal processo: perché io sono debole, e la mia controparte è forte, tutte le garanzie della giustizia non sono mai state più necessarie che in questo caso58.

Si veniva invece rinviati al Consiglio di Stato, dove in seno al comitato del contenzioso era espresso solo un parere, poiché l’ordinanza era formalmente pronunciata dal Re. Questo per Tocqueville, non configurandosi il comitato di contenzioso almeno come un tribunale giudicante, creava oltretutto una sorta di vuoto di responsabilità, considerata la resistenza dei ministri ad assumerla. Con sarcasmo egli dunque così poteva concludere: «vedo un processo, non vedo i giudici»59.
La Camera approverà il progetto di legge sul Consiglio di Stato, seppur con una maggioranza risicata di 13 voti; ma Tocqueville comunque non riteneva che la battaglia dell’opposizione fosse stata inutile ed anzi, sulla scia di un importante discorso tenuto in proposito alla Camera da Barrot60, si esprimeva in questi termini in merito ad essa:
È molto per essa aver saputo richiamare l’attenzione sui principi che facevano parte del nostro vecchio vangelo liberale e che sembravano essere stati messi in oblio. Questa discussione non sarà senza risultato. Ha lasciato negli spiriti dei germi che si svilupperanno. La questione sarà ripresa in tempi migliori, e la ragione finirà per avere ragione61.

L’intera questione dell’amministrazione in Francia, considerando quindi le problematiche concernenti la centralizzazione, la distinzione fra la giustizia amministrativa e quella ordinaria, nonché la collocazione del diritto amministrativo come corpo a sé stante nella dottrina giuridica62, verrà ripresa da Tocqueville in occasione della sua relazione all’Académie des Sciences morales et Politiques sull’opera di Macarel Cours de droit administratif63. Tocqueville prende qui in esame i primi due volumi dell’opera (composta complessivamente di quattro volumi) e subito ripresenta un tema a lui caro, aggiungendo però qualcosa in più quando, ribadendo l’influenza dell’amministrazione sulla vita dei cittadini e sottolineando la peculiarità del sistema amministrativo francese, riconosce a quest’ultimo un grado di originalità persino superiore alle istituzioni politiche64. Arrivando in tal modo a ribadire ulteriormente il senso della sfida per qualsiasi modello politico di riuscire a combinarsi con tale sistema, ed in particolare quindi anche nel caso, come già scritto, della monarchia orleanista.
Entrando nel merito del testo di Macarel, egli sottolineava il lavoro di quest’ultimo nel tracciare un quadro particolareggiato di quella che era l’assai vasta e capillare macchina amministrativa francese, esprimendosi in proposito con molta enfasi così:
Macarel ci fa discendere, passo passo, l’immensa scala sulla quale trovano posto, gli uni sotto gli altri, senza confusione, ma quasi senza fine, la moltitudine di funzionari che compongono la nostra gerarchia amministrativa, dal Re fino all’ultimo agente dell’autorità. Ad ogni gradino l’autore si arresta, dice come ogni funzionario viene nominato, quali sono i rapporti necessari esistenti tra lui e quelli posti più in alto o più in basso, qual è il suo campo d’azione, quali i suoi doveri e i suoi diritti, in quale momento, come e perché è stato creato. Nulla è più curioso che seguire in questo schema generale la storia particolare di tutti i diversi poteri il cui insieme forma l’amministrazione pubblica; nulla è più istruttivo che veder nascere, ingrandirsi, espandersi e trasformarsi tutte le diverse forze che oggi dirigono e sovente comprimono, avviluppandola da ogni lato, l’esistenza individuale dei cittadini65.

Il tono enfatico di Tocqueville sembra in questo caso giustificato dalla volontà di riprodurre lo spirito con cui lo stesso Macarel nel titolo primo (Principi generali e piano del corso) dell’opera cerca di far percepire il lavoro incessante e onnipresente dell’amministrazione, da lui paragonata a un buon padre di famiglia, a fianco del cittadino francese in qualsiasi situazione lo potesse riguardare66. Macarel parte inoltre dal presupposto che i principi dell’organizzazione amministrativa fossero riassumibili in tre parole: unità, subordinazione, centralizzazione. Considerato quindi il governo, nel senso più largo del termine, come il potere di fare le leggi, di dirigere la società sulla via dello sviluppo e nel contempo di occuparsi della sua conservazione, perviene a configurare l’amministrazione come l’azione vitale del governo, nonché il suo complemento necessario. Come egli afferma di seguito, l’autorità amministrativa era dunque da considerarsi come quella preposta all’esecuzione delle leggi di interesse generale, alla sicurezza dello Stato, al mantenimento dell’ordine pubblico, e alla soddisfazione di tutti i molteplici bisogni della società. Da qui la sua conclusione secondo cui «l’amministrazione è dunque il governo del paese, meno la preparazione delle leggi e l’azione della giustizia fra i privati»67.
Tocqueville si trovava dunque impegnato ad un confronto su tematiche a lui care, e da lui inquadrate anche storicamente. Considerando l’evoluzione dell’amministrazione francese nei decenni precedenti (e riproponendo su questo punto tesi già esposte nella Democrazia in America) egli ne ricostruisce in sintesi il percorso sino all’intervento, se non del tutto innovativo, certamente però determinante, di Napoleone. Ed ecco il suo pensiero in proposito:
Quasi tutta la nostra organizzazione amministrativa è opera dell’Assemblea costituente: è stata quest’ultima a porre tutti i principi sui quali essa tuttora riposa; è la sua mano che ha formato, delimitato e armato quasi tutti i poteri di cui si compone la nostra amministrazione e che li ha posti nella posizione che essi occupano. Napoleone non ha fatto che conservare o ristabilire il sistema fondato dall’Assemblea costituente. Egli ne ha migliorato e completato alcune parti, ma, soprattutto, ne ha profondamente modificato lo spirito. Ovunque l’Assemblea costituente avesse messo un consiglio esecutivo, Napoleone ha posto un solo agente dipendente e responsabile; ovunque essa avesse posto l’elezione come origine del potere, egli ha dato la scelta al principe, e, per sottrarre ancor più efficacemente al controllo dei cittadini questa amministrazione già tanto emancipata, egli ne ha reso i più piccoli agenti inviolabili, proibendo di citarli davanti ai tribunali: regola audace, che si è cercato in ogni tempo di far prevalere nelle monarchie assolute, ma che nessun despota aveva mai osato scrivere letteralmente in nessun codice, e che nessun popolo al mondo aveva ancora ammesso come principio generale68.

Quindi, almeno in questa relazione, la fase nascente dell’accentramento amministrativo viene da Tocqueville individuata nel periodo dell’Assemblea Costituente, nel momento cioè più intensamente creativo della rivoluzione del 1789. Discostandosi pertanto non poco da quanto egli aveva invece espresso nel saggio apparso nel ’36 su «The London and Westminster Review», vale a dire lo Stato sociale e politico della Francia prima e dopo il 1789; un saggio in cui l’accentramento amministrativo era stato da lui rilevato invece come un fenomeno di assai più lungo periodo, già presente nell’ambito della monarchia assoluta, in anticipo dunque a quanto egli approfondirà magistralmente nella stesura dell’Antico Regime e la Rivoluzione. Ed è pertanto in questa opera classica, percorsa nel suo sviluppo dalla tematica dell’accentramento amministrativo nell’età della monarchia assoluta, che Tocqueville riterrà di avere individuato nell’Antico Regime i prodromi di tutti gli istituti costitutivi del futuro diritto amministrativo ottocentesco69.
Tocqueville, entrando inoltre nel merito del metodo usato da Macarel nell’elaborazione del suo testo, un testo comunque indirizzato prevalentemente a giovani allievi, criticamente affermava:
Macarel si astiene quasi completamente da ogni giudizio; non fa che descrivere. In questo modo limita volontariamente il proprio orizzonte; si chiude strettamente all’interno di ciò che è, senza mai cercare ciò che dovrebbe essere70.

La critica maggiore comunque era rivolta a quella che egli riteneva una sorta di fuga in avanti di Macarel:
A nostro avviso l’autore ha un torto ben più grave, quello di insegnare come assiomi di diritto dei principi generali e delle massime assolute che ben possono aver corso nelle scuole, ma che non hanno mai ricevuto sanzione formale dal legislatore e che senza dubbio il paese non ha ancora ammesso; dottrine che non sono state nettamente formulate in alcun monumento legislativo, e neppure, se non erro, in alcun documento ufficiale offerto dal governo alle Camere71.

Tutto quanto sinora detto conduceva a mettere in risalto quella che Tocqueville riteneva una questione cruciale, come si è potuto constatare a proposito della discussione sul Consiglio di Stato; e cioè quella suddivisione che Macarel avalla ed esplicita fra giustizia ordinaria, che doveva esprimersi sulle controversie giudiziarie fra privati, e giustizia amministrativa, cui era attribuito il compito di giudicare sul contenzioso fra privati e pubblica amministrazione. La denuncia tocquevilliana si appuntava sul fatto che, pur non esistendo alcuna norma di legge in Francia che attribuisse all’amministrazione una giurisdizione riservata generale sulle controversie d’interesse pubblico, a scapito della giustizia ordinaria, la dottrina giuridica ottocentesca era riuscita ad alimentare una convinzione opposta, destinata a diventare diritto positivo. In tal senso Macarel non aveva esitato in effetti ad affermare che «l’interesse privato è il dominio della giustizia; l’interesse pubblico è il dominio proprio dell’amministrazione», restringendo così il campo d’azione dell’autorità giudiziaria rispetto a quello dell’autorità amministrativa. L’autorità giudiziaria per Macarel infatti disponeva solo su questioni che avevano un interesse secondario per la società, e che avevano solo un’influenza indiretta sull’ordine pubblico. Ben più estesa era invece la sfera d’azione dell’autorità amministrativa, la quale poteva disporre per l’avvenire, agire senza essere provocata, prendere decisioni che non le venivano richieste e prendere inoltre, tutte le volte che lo riteneva utile, delle misure di conservazione e di previdenza su oggetti che per loro natura, loro destinazione, per abitudine o per bisogno d’essere usati interessavano l’universalità dei cittadini72. Un’estensione d’azione che non poteva non preoccupare Tocqueville anche per le ricadute in ambito di contenzioso. Pertanto egli, pur dichiarandosi possibilista su un sistema di giustizia amministrativa, si esprimeva non a caso in tal modo:
Non nego che i bisogni dell’amministrazione e della politica possano costringere a stabilire un sistema di giustizia amministrativa che sia al di fuori di quella ordinaria, comprendo che vi sono affari (il cui numero, credo, potrebbe essere ben più ristretto di quanto non sia in Francia) della cui cognizione può essere necessario spogliare i tribunali, ma sostengo che si tratta di casi assai rari e giustificati solo da circostanze molto eccezionali. La regola generale è che ogni processo deve andare davanti a quella giustizia che offre maggiori garanzie alle due parti, quali che siano tali parti73.

Il timore di Tocqueville, e da qui l’estrema cura della sua analisi critica sull’opera di Macarel, nasceva dal convincimento che a lungo andare i commentari sulle leggi finivano con l’avere un’influenza maggiore delle leggi stesse, visto che quest’ultime erano limitate nella loro portata e nella loro durata, mentre i principi dei “legisti” tendevano a divenire la fonte cui progressivamente si uniformava tutta la legislazione. Grande era stata infatti, a suo avviso, durante il Medioevo ed in seguito l’influenza dei “legisti”, sia laici che ecclesiastici. Le loro massime sul diritto divino dei Re, sulle prerogative inalienabili dei sovrani, sui privilegi naturali della corona avevano, in sostanza, garantito nel quindicesimo e sedicesimo secolo una solida base su cui erigere la monarchia assoluta in tutto il continente europeo74. Per questo motivo egli avvertiva:
Stiamo attenti che non si diffondano, in materia di diritto amministrativo, delle massime che rendano alla monarchia rappresentativa del nostro tempo lo stesso servizio che i legisti del Medioevo hanno reso alla monarchia feudale, e che, per odio della confusione dei poteri e dell’anarchia, non si stabiliscano dei principi che ci facciano a poco a poco perdere la libertà75.

Tocqueville quindi ribadiva, nella parte finale della relazione, una questione che riteneva ancora non risolta, e da lui ritenuta di fondamentale importanza; quella cioè dell’accordo fra i principi del diritto amministrativo con quelli del diritto politico; fra i bisogni insomma della monarchia e il mantenimento necessario della centralizzazione, con lo spirito e le regole del governo rappresentativo76.
Una questione quella da lui posta che però, nel breve volgere di circa un biennio, vedrà cambiato almeno uno dei termini, cioè quella monarchia orleanista che giungerà infatti alla sua fine con la rivoluzione del febbraio ’48. Rivoluzione che apriva in Francia la breve stagione della II Repubblica; una soluzione questa non particolarmente amata da Tocqueville ma, nonostante ciò, data la sua capacità di farsi osservatore obiettivo della realtà, anche nei frangenti più drammatici per il suo paese, considerata da lui come oramai inevitabile. Ed infatti, all’indomani del 24 febbraio 1848, ritenendo il principio monarchico come «un albero che l’esperienza ha mostrato senza radici», Tocqueville, nella sua circolare elettorale per l’elezione alla Costituente, così si esprimeva:
Abbiamo rovesciato l’antica monarchia… La monarchia di dieci secoli in tre anni; la monarchia del ramo primogenito in tre giorni; la monarchia del ramo cadetto in tre ore […]. Cosa resta dunque se non la Repubblica? Quanto a me, appena la Repubblica è stata proclamata, l’ho accettata senza esitazione, adottata senza secondo fine. Ho voluto fermamente, non soltanto lasciarla sussistere, ma sostenerla con tutte le mie forze77.

Una repubblica, sia ben chiaro, che Tocqueville, in chiave polemica assai significativa, non intendeva però come una «dittatura esercitata in nome della libertà». Definendola invece come la «libertà vera, sincera, reale per tutti, nei limiti della legge: è il governo del paese attraverso la maggioranza libera del paese». Aggiungendo inoltre: «La Repubblica per me è per eccellenza il regno del diritto di ognuno, garantito dalla volontà di tutti; è il rispetto profondo per ogni sorta di proprietà legittima»78.
Tutte affermazioni insomma che ben indicano il segno ed il senso di come Tocqueville vivrà i pochi anni della II Repubblica; anni che, per certi versi, rappresentano pur tuttavia anche il suo momento di maggiore visibilità politica.





NOTE
1 Sulla “centralità” non soltanto cronologica dell’esperienza politica diretta di Tocqueville ha fatto richiamo Coldagelli. Il quale ha inoltre sottolineato che «i discorsi, le relazioni, gli articoli, le lettere, gli appunti, le note» che documentano l’impegno politico attivo tocquevilliano «non hanno soltanto il valore di contributo capitale al dibattito del tempo», ma configurano inoltre «il variegato campo di applicazione del suo pensiero politico». Cfr. U. Coldagelli, Introduzione, in A. de Tocquevillle, Scritti, note e discorsi politici (1839-1852), a cura di U. Coldagelli, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. XI.^
2 In una lettera a Beaumont del 13 gennaio 1852, quasi all’indomani quindi del colpo di Stato, egli così si esprime con grande amarezza in proposito: «Sono arrivato alla mia età attraverso molti avvenimenti diversi, ma con una sola causa, quella della libertà regolare e moderata. Questa causa è perduta senza rimedio. Lo credevo già nel 1848, ne ho l’ultima dimostrazione oggi. Non già che io sia convinto che questo paese non sia destinato a rivedere le istituzioni costituzionali, ma non le vedrà durare, né esse, né altre. Si tratta di sabbia, e non bisogna domandarsi se rimarrà stabile, ma quali sono i venti che la sposteranno». A. de Tocqueville, OEuvres Complétes, Paris, Gallimard, VIII-3, p. 12. D’ora in poi le OEuvres edite da Gallimard (nelle parti citate sempre da noi tradotte) saranno indicate come O C, seguite dal numero romano per il tomo e dall’eventuale numero indicante il volume.^
3 È a tal proposito opportuno ricordare una volta per tutte l’importanza della distinzione tocquevilliana fra democrazia intesa come “stato sociale” e democrazia intesa come “sovranità popolare”. Sulla questione, di grande rilievo, Tocqueville così precisa tale distinzione, in un illuminante passo, seppur cancellato, del manoscritto della Democrazia in America: «Questi due elementi non sono affatto analoghi. La democrazia è un modo di essere della società. La sovranità del popolo una forma di governo. Non sono fenomeni inseparabili, perché la democrazia si combina anche meglio con il dispotismo che con la libertà. Sono però correlativi. La sovranità del popolo è sempre più o meno una finzione dove la democrazia non è stabilita». A. de Tocqueville, La Democrazia in America, a cura di C. Vivanti, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2006, p. 838-839.^
4 Per questa pertinente e significativa definizione riguardo quanto concerne l’approccio tocquevilliano alla democrazia americana, cfr. H.C. Mansfield, Jr. D. Winthrop, Tocqueville’s New Political Science, in The Cambridge Companion to Tocqueville edited by C.B. Welch, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, p. 82.^
5 O C, III-1, p. 150.^
6 Cfr., A. Jardin, Alexis de Tocqueville, Milano, Jaca Book, 1994, p. 307.^
7 Il voto sul disegno di legge riguardante il credito straordinario per l’Algeria fu l’occasione per un dibattito eccezionalmente importante alla Camera dei deputati, inerente il problema della colonia. Dufaure, relatore della commissione, aveva raccomandato una revisione dell’amministrazione della stessa. Durante le sedute dell’8, 9, 10 giugno 1846 Corcelle, Tocqueville, de Tracy, Lamartine e Guizot, pronunceranno degli importanti discorsi. Tocqueville, nel suo intervento del 9 giugno, arriverà persino ad affermare, a proposito dell’Algeria, che si trattava di un affare che «è il più grande affare del paese, un affare che lo ferisce nel presente, che lo minaccia nell’avvenire, che è […] al primo posto di tutti gli interessi che la Francia ha nel mondo». O C, III-1, p. 305.^
8 Proprio a sottolineare l’importanza che egli dava alla politica estera, e sgombrando il campo da possibili accostamenti politici ai legittimisti, Tocqueville così si era espresso: «Avrei voluto che la Rivoluzione di Luglio si fermasse al Duca di Bordeaux: non che ne facessi un affare di sentimento, ma perché prevedevo ciò che ne è seguito, nel nostro confronto con l’Europa; noi andavamo a perdere la forza che ci dava il principio di legittimità, senza acquistare il vigore rivoluzionario che era scaturito dalla proclamazione della sovranità del popolo». Lettera a Clamorgan del 25 novembre 1841, O C, X, p. 197. L’idea che la Rivoluzione di Luglio avesse indebolito la Francia in politica estera viene ribadita inoltre significativamente in una lettera a Kergolay del 25 ottobre 1842 dove, a seguito della lettura del testo di T.G. Smollet, The history of England: from the Revolution to Death of George II, Tocqueville scriveva: «La Rivoluzione del 1688 aveva fatto rientrare l’Inghilterra nelle sue naturali alleanze e nel suo reale ruolo estero, la figura del paese per gli stranieri è diventata immediatamente più grande. Invece il contrario è successo dopo il 1830 per le ragioni opposte». O C, XIII-2, p. 109.^
9 O C, VI-1, p. 334. Tocqueville, già in una lettera scritta qualche mese prima, criticando la politica favorevole all’entente con l’Inghilterra di Guizot, da poco nominato Ministro degli esteri, entente che definiva debole e pusillanime, arrivava persino a dichiarare, pur considerando i rischi di una guerra generale, di «non essere un’amante della pace ad ogni prezzo». Lettera a L.P. Clément dell’8 novembre 1840, O C, X, p. 166.^
10 Per una comprensione adeguata dei profondi motivi, anche geopolitici e ben aldilà dello scacchiere europeo, che ad avviso di Tocqueville rendevano controproducente l’Entente cordiale franco-britannica, deve essere tenuto in primo luogo presente l’importante discorso da lui pronunciato alla Camera il 20 gennaio 1845. Cfr. O C, III-2, pp. 421-433.^
11 Cfr., O C, VIII-1, p. 421 e p. 432.^
12 O C, III-1, p. 204.^
13 Cfr. Ibidem. Analoghe considerazioni vengono ripetute, pressappoco tal quale, negli appunti del primo viaggio in Algeria, quello del ’41. Cfr. A. de Tocqueville, Viaggi, a cura di U. Coldagelli, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, pp. 724-725.^
14 Ivi, p. 729.^
15 Circa la natura e la destinazione d’uso di questo travail, redatto proprio nel 1841, e che Tocqueville non pubblicherà cfr. O C, III-1, nota 1 pp. 213-214.^
16 Cfr. ivi, p. 277.^
17 Ibidem.^
18 Cfr. ivi, pp. 277-278.^
19 Per quanto riguarda l’evoluzione dell’interesse per l’India di Tocqueville, cfr. A. Jardin, op. cit., pp. 327-329.^
20 O C, III-1, p. 450.^
21 Ivi, p. 502.^
22 Cfr. A. Jardin, op. cit., p. 323. I due progetti di legge furono esaminati da una commissione unica di diciotto membri, che scelse Tocqueville quale presidente e relatore.^
23 O C, III-1, p. 331.^
24 Cfr., ivi, p. 332. Tocqueville qui evidenzia invece la differenza di metodo usato in India dagli inglesi, i quali vi inviavano solo funzionari debitamente istruiti in apposite scuole, ibid. nota (a).^
25 Cfr., ivi, pp. 334-336.^
26 Ivi, pp. 340-341.^
27 Cfr. ivi, p. 346.^
28 O C, III-2, p. 43.^
29 Queste lettere, in tutto sei, furono pubblicate in veste anonima da Tocqueville su «Le Siècle», nei numeri del giornale dell’1, 2, 5, 7, 13 e 14 gennaio 1843. Va aggiunto che le tematiche in esse presenti avevano trovato largo anticipo nell’importante discorso tenuto da Tocqueville alla Camera il 18 gennaio 1842. Cfr, ivi, pp. 197-207.^
30 Nell’ampio ed articolato studio sull’argomento del partito politico in Tocqueville, così vien scritto da Matteucci nello specifico: «Il problema del partito politico travagliò in modo più diretto e in forma più assillante il Tocqueville durante la sua carriera politica. Le sue ripetute affermazioni, fra loro estremamente coerenti, nascono non tanto dal desiderio di comprendere il ruolo del partito nella futura società democratica, ma dalla volontà di agire dentro il sistema parlamentare instaurato dalla Rivoluzione di Luglio». N. Matteucci, Alexis de Tocqueville-Tre esercizi di lettura, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 162-163.^
31 Su questo punto cfr. S.S. Wolin, Tocqueville between two worlds, Princeton, Princeton University Press, 2001, pp. 409-410.^
32 Lettera a Corcelle del 19 ottobre 1842, O C, XV-1, p. 162. Va tenuta presente anche una lettera a Beaumont del 15 dicembre 1842, dove Tocqueville si esprime esplicitamente in questi termini: «La crisi del liberalismo in Francia non viene soltanto dai difetti e dai vizi della nazione, ma soprattutto dai vizi e dagli errori dell’opposizione, che per ora non rappresenta altro che lo spirito rivoluzionario, e sarebbe del tutto incapace di trasformarsi all’occorrenza in governo». O C, VIII-1, p. 488.^
33 Sulla progressiva involuzione in senso illiberale del regime orleanista, nel giudizio di Tocqueville, va tenuta presente in particolare la V delle sei Lettres. Quivi, denunciando la progressiva “immensa ritirata” della libertà procurata dal regime, venivano registrate le gravi limitazioni alla libertà di stampa e di associazione, nonché alla stessa libertà individuale, aggravata persino dalla mancata attuazione di una legge sulla responsabilità dei funzionari pubblici, pur prevista dalla Charte del 1830. Veniva inoltre rilevato come nell’ultimo decennio la legislazione avesse in vari modi avuto l’effetto di restringere sempre più la sfera d’azione degli enti locali, a vantaggio dell’accentramento amministrativo. Cfr. O C, III-2, pp. 110-115.^
34 I delle Lettres, ivi, p. 96. L’immagine di una nazione in qualche modo restia alle passioni politiche – che dopo quella che Tocqueville definisce «breve tregua», riferendosi alla Restaurazione, fosse caduta nel «disarmo universale, pacifico e completo di tutti i partiti»; e dove egli stesso, nel mezzo della «decrepitudine dello spirito liberale», arrivava con biasimo a domandarsi se «la fine della giovinezza e tutta la nostra età matura trascorreranno in mezzo a ciò che vediamo» – trova riscontro nella lettera a Corcelle del settembre 1843. Cfr. O C, XV-1, p. 166.^
35 Cfr. I delle Lettres, O C, III-2, p. 97.^
36 Ibidem. In tal senso cfr. S.S. Wolin, op. cit., p. 415.^
37 In tal senso cfr. S.S. Wolin, op. cit., p. 415.^
38 IV delle Lettres, O C, III-2, p. 110.^
39 Sulla constatazione di Tocqueville dell’apatia politica dei ceti medi durante la Monarchia di Luglio, foriera di quello che lui definisce “dispotismo democratico”, cfr. M. Richter, Threats to Liberty in Democracies, in The Cambridge Companion to Tocqueville, cit., pp. 258-259.^
40 I delle Lettres, O C, III-2, p. 98.^
41 A. de Tocqueville, La Democrazia in America, cit., p. 71.^
42 Vanno considerate in un quadro più generale anche le analoghe leggi per i dipartimenti del 22 giugno 1833 e del 10 maggio 1838.^
43 All’art. 3 del cap. I della legge era previsto che i sindaci e vicesindaci venivano nominati dal Re oppure, in suo nome, dal prefetto. Cfr. H. De Pansey, Du pouvoir municipal, Paris, Duprat-Videcoq, 1840, p. 398. A tal proposito va tenuto presente che la concezione amministrativa francese (almeno fino alla legge municipale del 1884) considerava il comune come un momento dell’ordre administratif, ed il sindaco di conseguenza come un funzionario esecutivo alla stregua del prefetto. Nominato dal potere centrale fin dal periodo napoleonico, il sindaco in effetti, incaricato dell’applicazione delle leggi e dei regolamenti, risultava soltanto in maniera subordinata come rappresentante degli interessi locali.^
44 In base all’art. 16 della legge. Cfr. ivi, p. 401.^
45 L’intera lista degli aventi diritto al voto si trova all’art. 11 del cap. II, sezione I (dedicata alla composizione del consiglio municipale) della legge. Cfr. ivi, pp. 399-401.^
46 Nel titolo II della legge erano stabilite al cap. I le attribuzioni del sindaco (dall’art. 9 all’art. 16) ed al cap. II le attribuzioni del consiglio municipale (dal’art. 17 all’art. 29). Cfr. ivi, pp. 418-423.^
47 Se dal punto di vista amministrativo queste leggi, pur rappresentando un passo avanti in tema di decentramento, non comportarono uno stravolgimento dei vecchi equilibri di potere, esse assunsero però una notevole importanza nel creare una certa attitudine alla partecipazione elettorale di strati sociali sempre più ampi. Infatti, è nell’ambito di questo contesto che avviene un vero e proprio apprendistato di massa della vita politica, più reale di quello che si era avuto con le assemblee primarie durante la Rivoluzione francese; una fase questa da considerarsi assolutamente decisiva nella storia della democrazia francese. Per un’analisi dettagliata di questo aspetto cfr. P. Rosanvallon, La rivoluzione dell’uguaglianza, Milano, Anabasi, 1994, pp. 274-279.^
48 O C, III-2, pp. 129-130.^
49 Cfr. ivi, p. 130.^
50 Ivi, pp. 130-131. Va tenuto comunque presente che, almeno fino al 1847, e dunque nel momento della sua iniziativa politica a favore di una Jeune Gauche, Tocqueville aveva ritenuto necessario allargare non tanto il corpo elettorale, quanto piuttosto l’estensione dei collegi elettorali. E questo nella convinzione che in tal modo si potessero contenere gli effetti perversi da lui denunciati.^
51 Cfr. ivi, p. 131.^
52 Ivi, pp. 131-132.^
53 Si tratta di una serie di articoli non firmati apparsi su «Le Commerci» nel febbraio 1845, aventi per oggetto le problematiche inerenti alla legge sul Consiglio di Stato.^
54 Articolo su «Le Commerci» del 16 febbraio 1845, O C, III-2, pp. 155-156.^
55 L’art. 69 della carta costituzionale del ’30, sulla questione della responsabilità dei ministri e degli altri agenti del potere, prevedeva l’intervento successivo con legge separata. Tale impegno costituzionale non fu mai assolto. Cfr. A. Saitta, Costituenti e costituzioni della Francia rivoluzionaria e liberale (1789-1875), Milano, Giuffrè, 1975, p. 630.^
56 Cfr. O C, III-2, pp. 157-158.^
57 Articolo su «Le Commerci» del 17 febbraio 1845, ivi, p. 159.^
58 Articolo su «Le Commerci» del 27 febbraio 1845, ivi, p. 162.^
59 Ivi, p. 163. In effetti in base all’art. 24 della legge era previsto che in caso l’ordinanza reale non fosse stata conforme al parere del Consiglio di Stato (circostanza, va detto, estremamente remota, e quasi mai verificatasi durante i quarantacinque anni di esistenza del Consiglio) essa poteva essere comunque deliberata, previo parere motivato del Consiglio dei Ministri. La ratio di questo articolo, era quella di conservare alla Corona la possibilità di allontanarsi dal parere del Consiglio di Stato, di dare comunque garanzie alle parti esigendo la deliberazione del Consiglio dei Ministri, risultando in tal modo la responsabilità dei ministri stessi. Su questo punto cfr. M. Serrigny, Supplément au Traité de l’organisation de la compétence et de la procédure en matière de contentieuse administrative, Paris, Joubert, 1846, pp. 18-19.^
60 Barrot aveva pronunciato un discorso nel quale venivano richiamati tutti i tentativi per creare una giurisdizione amministrativa in seno al Consiglio di Stato. Insieme a Crémieux aveva proposto un emendamento che acquisiva gli articoli riportati dal rapporto Dalloz del 1840; articoli i quali enumeravano le materie dove il comitato di contenzioso era competente, rendendolo in tal modo una vera giurisdizione, che non emetteva pareri ma sentenze, contro le quali lo Stato aveva solo diritto d’appello. Lo stesso Tocqueville aveva analizzato attentamente, scrivendo alcune note in merito, il rapporto Dalloz. In proposito cfr. O C, III-2, pp. 151-154.^
61 Articolo su «Le Commerci» del 1 marzo 1845, ivi, p. 166. Non è un caso quindi che Tocqueville continuasse a nutrire interesse per l’organizzazione del Consiglio di Stato e della giurisdizione amministrativa, come testimonia un testo da lui redatto sulla storia di tale organo che, pur portando come titolo Annexe, Le Conseil d’État avant et depuis 1789 étude historique et bibliografique 1846, facendo riferimento anche alla II Repubblica fu completato probabilmente sul finire della Costituente. Cfr. O C III-3, pp. 403-405.^
62 L’espressione “diritto amministrativo” compare per la prima volta in Francia nel 1798, anche se la diffusione della locuzione non fu immediata. I primi tentativi di sistematizzazione risalgono comunque agli anni napoleonici, ma è solo con la Restaurazione che il diritto amministrativo assume il carattere di disciplina specifica, entrando a far parte delle materie curriculari delle facoltà giuridiche francesi; dal 1828 infatti il suo insegnamento sarà impartito senza interruzioni all’Università di Parigi e man mano nelle altre università di provincia. Parallelamente a questa diffusione accademica comincia a fiorire tutta una trattatistica specifica, prima incentrata sul Consiglio di Stato, ma poi sempre più orientata a dare una visione unitaria della disciplina, i cui capostipiti sono Cormenin, de Gérando e per l’appunto Macarel. Cfr. L. Mannori, B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 277-278. È lo stesso Tocqueville, nella relazione fatta all’Accademia, a inquadrare sinteticamente gli scritti di questi tre autori, fondamentali per il diritto amministrativo, esprimendosi in tal modo: «De Cormenin, senza voler percorrere l’intero campo del diritto amministrativo, si è limitato a trattare le questioni del contenzioso. De Gérando ha voluto raffrontare e disporre metodicamente tutti i testi che avevano un qualche rapporto con l’amministrazione pubblica; egli è così giunto a formare un solo corpo di leggi da quegli elementi sparsi e mobili. La sua opera è un vero codice amministrativo […]. Si trattava a questo punto di trarre dai particolari di questa dotta ed immensa compilazione lo schema razionale e completo del nostro sistema amministrativo e di far uscire dall’analisi delle disposizioni legislative e dei fatti la teoria che ne è l’anima. Questa è l’opera cui si è ora dato Macarel». A. de Tocqueville, Scritti Politici, a cura di N. Matteucci, Torino, UTET, 1969, I, p. 235. La relazione sull’opera di Macarel tradotta nel volume curato da Matteucci si trova in O C XI, pp. 185-198.^
63 La relazione fu presentata all’Académie des Sciences morale et Politiques il 19 luglio 1845, ma venne pubblicata nella Séances et travaux dell’Académie del primo semestre del 1846.^
64 Cfr. A. de Tocqueville, Scritti Politici, cit., p. 234.^
65 Ivi, p. 236.^
66 Cfr. L.A. Macarel, Cours de droit administratif, Paris, Gustave Thorel librarie, 1844, I, pp. 16-18. Macarel nell’edizione del ’52 dell’opera rafforza ancor di più questa sua concezione, arrivando a fare un lungo elenco di tutti gli ambiti in cui l’amministrazione poteva e doveva intervenire a favore del cittadino francese, in una maniera che non è improprio definire pervasiva.^
67 Cfr. Ivi, pp. 12-13 e p. 44.^
68 A. de Tocqueville, Scritti Politici, cit., p. 236.^
69 Cfr. L. Mannori, Tocqueville critico di Macarel, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», n° 18, 1989, pp. 613-614.^
70 A. de Tocqueville, Scritti Politici, cit., p. 238.^
71 Ivi, p. 239.^
72 Cfr. L.A. Macarel, op. cit., p. 10 e p. 15.^
73 A. de Tocqueville, Scritti Politici, cit., pp. 240-241.^
74 Cfr. ivi, p. 242.^
75 Ibidem.^
76 Cfr. ivi, p. 246.^
77 Circolare elettorale del 19 marzo 1848, O C III-3, pp. 40-41.^
78 Ibidem.^
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