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La Cassa per il Mezzogiorno come io la vidi
di Sandro Petriccione
Premessa

Negli ultimi anni, di fronte alla crisi che investe la società e l’economia delle regioni meridionali di cui sono corresponsabili le forze politiche al centro e in periferia a causa degli strumenti organizzativi e finanziari che hanno adottato o che non sono stati capaci di adottare, si è ricominciato a parlare quasi con nostalgia della Cassa per il Mezzogiorno. Lo ha fatto per primo il ministro Tremonti, uno dei pochi esponenti politici che dimostra un sincero interesse per i problemi del Sud, e successivamente anche ambienti della sinistra che pure erano stati acerrimi nemici della “Cassa” fin dal suo sorgere. Per lunghi anni il disinteresse di politici e la malcelata antipatia di osservatori esterni e commentatori autorevoli per tutto ciò che riguardava l’Italia meridionale sono probabilmente responsabili della carenza di scritti sistematici sul più grande episodio di intervento e di solidarietà dello Stato italiano nell’ex regno delle due Sicilie. Chi scrive è uno dei pochissimi testimoni e protagonisti viventi di una parte importante di quella grande esperienza e ricorda fatti e cose legati alla sua attività essendo stato per anni il principale, anche se talvolta critico, collaboratore di Gabriele Pescatore come componente del consiglio di amministrazione negli anni successivi al 1963 quando il primo decennio di attività si era appena concluso e si iniziava la fase della grande industrializzazione.
L’attività della “Cassa” durante più di due decenni può essere suddivisa infatti in due periodi nettamente distinti tra loro: il primo che riguarda la politica intesa a dotare di infrastrutture il Mezzogiorno e a sostenere la riforma agraria; il secondo nel quale alla “Cassa” fu affidato soprattutto il compito di sostenere la politica di industrializzazione sulla strada imboccata dai governi di centro sinistra cioè quelli con la partecipazione del Partito Socialista. Ed è in questi anni, nei quali si svolge il passaggio dalla politica delle infrastrutture a quella della grande industrializzazione, che comincia alla “Cassa” il mio impegno via via crescente che assorbiva tutte le mie energie fino al tempo della crisi internazionale provocata dall’improvviso aumento dei prezzi delle materie prime e dell’ultima fase della politica dirigistica intrapresa dal centro sinistra nel Sud con i “progetti speciali” ovvero l’unica concreta attività innovativa sul piano pratico della “programmazione per progetti” teorizzata dagli uffici della programmazione di Giorgio Ruffolo alla quale dirigenti e tecnici della “Cassa” contribuirono col loro appassionato impegno che qui mi piace ricordare. Comincia poi e suscita un limitato interesse per un osservatore esterno il periodo del declino durante il quale la “Cassa”, appesantita da crescenti vincoli burocratici, da un crescente potere – che quasi mai si univa all’efficienza – delle regioni e da un abnorme aumento del personale, torna ad essere stancamente organo di realizzazione di opere pubbliche in una crisi inarrestabile accentuata dall’uscita di Gabriele Pescatore e successivamente nella trasformazione in Agenzia per il Mezzogiorno. All’inizio di questa fase si conclude anche la mia presenza alla “Cassa” durata quasi tredici anni.


1. L’Italia del Sud nell’immediato dopoguerra

La mia esperienza alla Cassa per il Mezzogiorno inizia con il 1963, quando dalla politica centrista seguita alle elezioni del 1948 si passava al centro-sinistra fondato sull’accordo tra democristiani e socialisti. Francesco De Martino, segretario del PSI mi aveva designato come consigliere della “Cassa”, primo socialista che entrava a far parte di quella istituzione che il PSI insieme al PCI aveva sempre combattuto. Per chi come me proveniva da un lungo periodo di opposizione ai governi della Democrazia Cristiana e ai suoi strumenti operativi tra i quali non ultimo la Cassa per il Mezzogiorno era particolarmente difficile capire i meccanismi e le motivazioni in base alle quali le decisioni erano prese; e richiedeva preliminarmente un attento esame delle vicende della politica per il Sud fino a quel momento.
Era necessario partire da una riflessione sul periodo che si era aperto dopo la fine della seconda guerra mondiale che fu particolarmente drammatico per il Sud dove tutto l’apparato industriale – che era quasi per intero fin dal periodo borbonico concentrato attorno a Napoli – usciva dalle vicende belliche completamente distrutto mentre nelle campagne la vita che dipendeva di solito da un’agricoltura di mera sussistenza diveniva intollerabile in presenza del vertiginoso aumento dei prezzi dei beni non agricoli.
Nelle forze politiche e nell’opinione pubblica nel corso dell’acceso dibattito sulle forme istituzionali su cui ricostruire il nuovo Stato uscito dal Fascismo e in primo luogo sul Mezzogiorno che rappresentava uno dei primi tèmi da affrontare, si andarono precisando due tendenze che, pur dovendo convivere, partivano da premesse completamente diverse.
In quella che potremmo definire la tendenza “agrarista” confluivano suggerimenti e indirizzi che provenivano dai più diversi orientamenti politici ed esperienze storiche. Nella Democrazia Cristiana il populismo agrario delle correnti sturziane trovava sostenitori tra coloro che conoscevano le esperienze dei partiti contadini dell’Europa danubiana e balcanica che proprio in quegli anni venivano assorbiti o distrutti dai comunisti1 ma che avevano esercitato una notevole influenza nel periodo tra le due guerre. I comunisti chiedevano anche loro la modifica dei rapporti di produzione nelle campagne, ma facevano propria la parola d’ordine leninista “la terra ai contadini”, anche se nel corso degli anni Venti del Novecento dal sostegno alla piccola proprietà il regime sovietico era passato ad una politica di collettivizzazione forzata per mezzo di cooperative agricole (i Cholchozi) e di aziende di Stato (i Sovchozi) attuando quella che Leone Trotzki aveva definito la «dittatura dell’industria».
Da premesse completamente diverse prendeva le mosse una tendenza che potremmo definire “industrialista” la quale, fortemente minoritaria, partiva dalle idee di Francesco Nitti e si legava all’opera del Ministro dell’Industria, il socialista Rodolfo Morandi esponente del dirigismo economico italiano che da giovane, nel 1933, aveva scritto il libro Storia della grande industria in Italia le cui tesi si contrapponevano per la prima volta all’opinione allora prevalente anche nella sinistra – a cominciare da Gramsci – fondata sulla convinzione che il problema del Mezzogiorno fosse sostanzialmente il problema dei contadini e sosteneva invece che il Sud non avrebbe mai potuto progredire assicurando un sostanziale incremento dell’occupazione se avesse puntato sull’agricoltura ma anzi avrebbe dovuto in primo luogo promuovere la crescita dell’apparato industriale. Da ministro del primo governo De Gasperi, Morandi aveva messo in atto queste idee con la costituzione della SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) che doveva poi continuare la sua attività rifacendosi alle idee di Ezio Vanoni e soprattutto di Pasquale Saraceno anch’egli partecipe delle tendenze dirigistiche della cultura italiana del XX secolo, che la presiedette fino alla sua morte; Morandi era per inciso anche l’ideatore del Movimento dei Consigli di Gestione il quale proponeva la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese e che fu sostenuto anche dal PCI fin quando fu abbandonato dopo le elezioni del 1948. L’evoluzione e la crisi dell’industria nelle regioni meridionali a partire dall’annessione al Piemonte dell’ex Regno di Napoli fino al secondo dopoguerra fu messa in luce per la prima volta, nel corso dei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente dal saggio di Cenzato e Guidotti2.
Si inizia in quegli anni in molte località del Sud l’occupazione delle terre da parte dei contadini poveri, un movimento spontaneo alla cui testa si pose il Partito Comunista; la tensione sociale era altissima e vi furono episodi di scontri con le forze di polizia che provocarono anche delle vittime tanto che qualche osservatore straniero parlava di situazione prerivoluzionaria. In questi frangenti la Democrazia Cristiana che, dopo le elezioni del 1948, deteneva il potere, cominciò ad attuare le grandi riforme degasperiane: il programma INA-Casa, la riforma agraria, la Cassa per il Mezzogiorno. Ma mentre l’INACasa riguardava essenzialmente i centri urbani3, la riforma agraria stralcio (perché attuata in alcune specifiche – ma particolarmente rilevanti – zone) assumeva una particolare importanza nelle regioni meridionali. E ad essa si affiancava la Cassa per opere pubbliche straordinarie nel Mezzogiorno d’Italia, secondo la sua originaria denominazione successivamente abbreviata in Cassa per il Mezzogiorno (e che in questa nota per brevità denomineremo “Cassa”), la quale interessava le regioni dell’ex regno delle Due Sicilie più la Sardegna e una parte del Lazio meridionale e della Toscana.


2. I primi anni della Cassa per il Mezzogiorno

Quando su designazione di De Martino, segretario del PSI e del suo principale collaboratore Silvano Labriola entrai nel Consiglio di Amministrazione della Cassa per il Mezzogiorno il primo decennio di attività si era appena concluso e continuava la politica precedente; ma le premesse del cambiamento erano già in atto: Giulio Pastore, che era stato il segretario generale della CISL, era diventato Ministro per il Mezzogiorno e per collocazione politica apparteneva alla sinistra DC la quale lavorava per un incontro con i socialisti.
La Cassa per il Mezzogiorno è ancora oggi oggetto di discussione fin dai motivi e dai protagonisti della sua istituzione e c’è ora da più parti il tentativo di appropriarsene le paternità. Ad esempio sul sito di Wikipedia tra i suoi fondatori sono indicati dei nomi tra i quali quelli di persone certamente autorevoli ma che con l’origine della Cassa è dubbio abbiano svolto un ruolo significativo. Certamente uno dei protagonisti fu invece il Governatore della Banca d’Italia Donato Menichella, che interessò gli ambienti governativi americani al finanziamento di un programma di opere pubbliche straordinarie nell’Italia meridionale4. Il modello organizzativo che fu suggerito era quello della TVA (Tenessee Valley Authority) di David Lilienthal, una delle molte agenzie indipendenti del New Deal roosveltiano5 che aveva il compito di coordinare la produzione di energia idroelettrica anche per mezzo della realizzazione di invasi con la costruzione di dighe. Si può osservare che al livello internazionale vi erano istituzioni più vicine ai problemi che si ponevano nel Sud come il Sudene brasiliano che doveva affrontare i problemi del sottosviluppo della regione secca del Nordeste e che fu ideata e presieduta all’inizio dall’economista brasiliano Celso Furtado6. Ma è sicuramente alla TVA che pensarono quelli che redassero la legge del 1950, la quale prevedeva una durata di dieci anni per la “Cassa” con un finanziamento che raggiungeva la cifra, allora fantastica, di 1000 miliardi di lire ed una struttura autonoma che non doveva sottostare alle regole, allora paralizzanti, della contabilità di Stato.
Le finalità dell’azione della “Cassa” erano quelle di dotare il Mezzogiorno di infrastrutture civili e di sostenere la riforma agraria rendendo possibile l’irrigazione. La struttura organizzativa era estremamente agile costituita in maggioranza da tecnici tra i quali molti altamente qualificati – agronomi e soprattutto ingegneri – nel settore delle bonifiche e delle opere idrauliche; questi tecnici avevano retribuzioni elevate, proporzionate del resto alle loro capacità. Ci si può domandare, leggendo la legge istitutiva della “Cassa”, perché una istituzione essenzialmente finanziaria alla quale la legge istitutiva assegnava il compito di trasferire fondi sulla base di concessioni amministrative per i progetti presentati dai cosiddetti Enti Concessionari (Comuni, Province, Enti di Bonifica) avesse bisogno di tanti tecnici. In effetti quasi sempre il livello di competenza degli Enti Concessionari era bassissimo anche per assoluta mancanza di esperienza. Perciò la “Cassa” oltre che al finanziamento dei progetti doveva poi per la loro redazione ed esecuzione fornire una intensissima opera di assistenza tecnica da parte dei suoi funzionari. Anche in questo caso è abbastanza chiara l’influenza della TVA che eseguiva le opere in via diretta. Il Servizio Bonifiche e il Servizio Acquedotti e Fognature – l’organizzazione era fondata su “servizi” settoriali dei quali nei primi anni di attività quelli appena citati erano di gran lunga i più importanti – riuscirono a dirigere la progettazione e l’attuazione in tutto il Mezzogiorno di programmi di opere pubbliche in senso stretto (in particolare nel settore della viabilità, degli acquedotti e delle fognature) ma anche dalle dighe e dalle grandi condotte per il trasporto dell’acqua, dagli invasi alle aree e ai centri di utilizzazione per uso irriguo, potabile e successivamente industriale fino alle più modeste reti di distribuzione dell’acqua e alla viabilità di bonifica. Ad essi, sia pure su scala minore si aggiungeva il Servizio Viabilità il quale aveva il compito di migliorare la rete viaria e di provvedere alla costruzione di nuove strade, e gli altri servizi di staff con compiti amministrativi e di studio.
Con il 1955 era stato nominato Presidente Gabriele Pescatore, giovane consigliere di Stato, (già molto noto per i suoi studi di diritto della navigazione) che si doveva distinguere per grande capacità organizzativa oltre che per scrupoloso rigore amministrativo e che per i molti anni che seguirono fino al 1976 col suo costante ed appassionato impegno impersonò la “Cassa” nei confronti della pubblica opinione come mette bene in luce nel suo libro Roberto Napoletano7. L’autonomia della “Cassa” fu resa ancora più chiara dalla scelta della sede all’EUR, tra le cui costruzioni monumentali, molte delle quali abbandonate – e l’EUR (Ente Esposizione Universale di Roma, acronimo che tornò utile molti anni dopo) sede della Cassa era stata una di queste – aleggiava ancora lo spirito del regime fascista ed era allora considerato un quartiere fuori Roma. I locali di proprietà dall’Istituto Nazionale di assicurazioni furono presi in affitto per sottolineare il carattere temporaneo dell’Ente (e fu dal punto di vista finanziario un errore dato il vertiginoso aumento dei valori immobiliari che si verificò negli anni successivi).
Dal punto di vista organizzativo la Cassa era suddivisa in servizi operativi settoriali mentre le strutture di Staff (Centro studi e ufficio Piani e Programmi oltre i servizi amministrativi) erano estremamente limitate. I Capi Servizio erano di fatto dei direttori centrali che avevano la responsabilità dell’attuazione degli interventi deliberati dal Consiglio di Amministrazione e ne rispondevano alla Direzione Generale ma, di fatto, al Presidente. L’ingegner Celentani Ungaro, persona di grande competenza e dal piglio autoritario (si raccontava che non tollerava che in Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici si potessero fare obiezioni ai suoi progetti) proveniva dall’esperienza fascista attorno al grande ministro dei lavori pubblici Di Crollalanza – riuscì a creare un gruppo di giovani ingegneri, molti dei quali provenienti dalla scuola del professor Girolamo Ippolito al Politecnico di Napoli: gli ingegneri de Falco, Albano, Consiglio, Visconti, Arpaia, Valenti (per citare solo quelli con i quali chi scrive ha avuto i maggiori contatti) e molti altri erano tutti animati da grande passione per la soluzione dei problemi del Sud che si trovavano ad affrontare. Quando Celentani Ungaro andò in pensione dopo un breve periodo dell’ing. Faloci fu sostituito dal prof. Messina il quale alla grande competenza tecnica univa il prestigio in campo accademico. Nel settore delle bonifiche al capo servizio dr. Curato, che si trasferì presto nel settore privato, successe il dr. Leone autorevole esperto dei problemi della bonifica. Il Servizio Viabilità era diretto dall’ing. Grassini, un toscano proveniente dalle file cattoliche che univa alla competenza un estremo rigore di amministratore.
Il Consiglio di Amministrazione esaminava tutte le pratiche e i progetti proposti dalla Direzione Generale – il direttore generale era il dr. Francesco Coscia proveniente dall’attività politica nella Democrazia Cristiana, persona di grande equilibrio e buon senso che riusciva a convivere con l’attivismo del Presidente – e approvava i “bilanci” annuali che poi erano dei rendiconti di spesa delle somme stanziate per legge e trasferite dal Tesoro nei quali – è interessante osservare – era indicato anche l’ammontare di ore lavorate per effetto della realizzazione delle opere straordinarie. I consiglieri, oltre ai rappresentanti dei partiti minori della coalizione di governo, socialdemocratici e repubblicani che avevano delle vice presidenze di fatto solo nominali, erano tutti notabili della democrazia cristiana tranne Domenico Rubino professore di diritto commerciale che Pescatore aveva voluto in consiglio e che era un esperto di appalti, per la maggior parte provenienti dalle province e che riflettevano soprattutto gli interessi locali che rappresentavano con grande correttezza. Il Consiglio si riuniva di solito ogni settimana. Nonostante tutte le polemiche e le denunzie della sinistra la “Cassa” non fu mai coinvolta in scandali e ruberie e riuscì a condurre a termine con una efficienza ignota all’Italia un colossale programma di opere pubbliche ricorrendo alle tecniche più moderne e spesso innovative. Il “clientelismo” di cui era accusata consisteva nel fatto che a preferenza, ma non sempre, erano preferiti nell’assegnazione di opere pubbliche comuni e province nelle mani della DC e dei suoi alleati (i consorzi di bonifica erano tutti dominati dalla DC) ma nell’assoluta carenza di infrastrutture erano pur sempre soddisfatti dei bisogni reali e quindi non si può assolutamente parlare di sprechi di fondi pubblici.


3. La fine del “centrismo” e il passaggio alla politica di programmazione

Intanto in Italia la situazione appariva in rapida evoluzione: il “centrismo” cioè l’alleanza politica tra la Democrazia Cristiana e i partiti laici appariva concluso. Convegni e riunioni discutevano sulle prospettive dell’alleanza allargata ai socialisti i quali anche se ormai indipendenti dal PCI portavano con sé una cultura formatasi negli anni dell’“unità d’azione” con i comunisti e caratterizzata spesso dal massimalismo. Uno dei principali temi che affioravano era quello della programmazione che avrebbe dovuto indirizzare tutti i settori della vita economica e sociale e che partiva dalla critica alla politica economica del “centrismo” e che si esprimeva da parte di socialisti e radicali con la richiesta del superamento dei cosiddetti “piani settoriali” tra i quali appunto veniva individuata la Cassa per il Mezzogiorno. Pur condividendo l’esigenza di una politica di programmazione Ugo La Malfa, segretario del Partito Repubblicano e ministro del bilancio, aveva precisato nella cosiddetta “nota aggiuntiva” le premesse concettuali dalle quali dovevano poi discendere le misure che avrebbero dovuto caratterizzare l’azione di governo ma che si distinguevano per un maggiore realismo8 dalle proposte radical-socialiste. Con la formazione del primo governo di centro-sinistra caratterizzato dalla partecipazione dei socialisti il Ministero del Bilancio fu affidato ad Antonio Giolitti che non tardò ad istituire un Ufficio per la Programmazione.
Allo stesso tempo il ministro Pastore insieme ai suoi principali collaboratori, Enzo Scotti e Giovanni Marongiu si poneva un duplice obiettivo per la politica del Mezzogiorno: quello di resistere all’impostazione dei socialisti i quali volevano ricondurre tutto alla programmazione e ai suoi strumenti ancora da definire – e che non lo furono mai – e d’altra parte di imprimere un svolta alla Cassa per il Mezzogiorno tenendo conto dei nuovi tempi e delle nuove esigenze. La contrapposizione tra Ministero del Bilancio e Ministero del Mezzogiorno durò per anni e finì per giustapporre al Programma Economico Nazionale che il ministro Antonio Giolitti e il suo principale collaboratore Giorgio Ruffolo aveva addirittura fatto approvare per legge, il Piano di Coordinamento degli Interventi nel Mezzogiorno del Ministro Pastore.
È interessante osservare che al livello operativo l’unico organo di programmazione nell’Amministrazione Pubblica italiana – sia pure a livelli non molto sofisticati – rimaneva la Cassa per il Mezzogiorno come non sfuggì ad Ugo La Malfa il quale propose senza successo di utilizzarla per la nuova politica economica9. Infatti per l’ammontare di competenze tecniche e di esperienze innovative nel campo dell’attuazione di un programma di opere pubbliche nonché per le procedure di spesa molto semplificate a cominciare dalla rapidità con la quale erano effettuati i pagamenti alle imprese e ai professionisti, la “Cassa” presentava degli indubbi vantaggi che d’altra parte rappresentarono negli anni successivi anche la sua debolezza in quanto molto più esposta alla direttiva politica e ai suoi errori di quanto non fosse l’amministrazione ordinaria che proprio con la sua lentezza riusciva a temperare il danno di direttive sbagliate. Ma l’avversione dei socialisti per la “Cassa” che era, non a torto considerata strumento della Democrazia Cristiana, si manifestava in sede di politica di programmazione affidata al Ministero del Bilancio, nello sforzo di svalutarne l’esperienza ed il ruolo che aveva svolto. Basti osservare che nella relazione della Commissione Nazionale per la Programmazione Economica presentata dal professor Saraceno, la Cassa per il Mezzogiorno è appena citata10.


4. L’Industrializzazione

Negli ultimi anni del “centrismo” con l’avvento di Giulio Pastore al governo per la prima volta un accento diverso era posto sulla necessità di sviluppare l’apparato industriale del Sud. È appena il caso di ricordare che in tutto il primo decennio di attività la “Cassa” rivelava un’anima essenzialmente extraurbana avendo affrontato i problemi delle infrastrutture soprattutto nei piccoli centri e della costruzione di dighe e condotte per rendere possibile l’irrigazione e assicurare il successo della riforma agraria. Si rifletteva, mentre si stava per concludere il primo decennio di attività, sull’opportunità di concentrare i nuovi impianti industriali e le attrezzature di servizio in determinati punti del territorio sviluppando la teoria dei “poli” di Perroux. L’Istituto per l’Assistenza allo Sviluppo del Mezzogiorno, IASM, associazione creata da Giulio Pastore ed affidata ad Alessandro Molinari e, dopo la sua scomparsa, a Nino Novacco era strumento che doveva appoggiare il nuovo e ambizioso disegno industriale. Lo IASM non si contrapponeva alla “Cassa” ma rappresentava esso stesso una sollecitazione all’adeguamento ai nuovi compiti e ciò non era facile per una istituzione che aveva con successo attuato un grande programma di opere pubbliche ed a questo obiettivo aveva conformato nel corso degli anni tutta la sua organizzazione e le procedure applicate. Quando si passò ai provvedimenti di legge per attuare la nuova politica di sviluppo e concentrazione industriale i problemi si complicarono ulteriormente. Tutte le province, anche quelle meno importanti, volevano la loro area industriale; i consigli generali previsti dalla legge risultavano pletorici e difficilmente gestibili in quanto anziché essere costituiti da soli imprenditori comprendevano sindacati ed istituzioni varie. Lo schema organizzativo, basato su quello, attuato con successo, dei Consorzi di Bonifica del ministro fascista Serpieri, fu presto abbandonato per ciò che riguardava il principio ed il livello della contribuzione obbligatoria dei consorziati, per arrivare alla fine al finanziamento delle opere a totale carico dello Stato. Tutto ciò aumentava la diffidenza non ingiustificata della “Cassa” per i nuovi strumenti, ma che rivelava un atteggiamento di estrema cautela se non di resistenza ad ogni proposta innovativa. In Consiglio di amministrazione Giovanni Marongiu, che da poco era stato nominato, ed io rappresentavamo le istanze di innovazione in appoggio alla politica del Ministro Pastore che però trovavano difficoltà da parte di una organizzazione che non era capace di perseguire altri obiettivi rispetto a quelli sui quali era cresciuta; si pensi che solo nel 1966 venne istituito un Servizio per le Aree Industriali.
Per fare fronte alle esigenze di un’amministrazione sempre più complessa si decise di ricorrere al calcolo elettronico. Fu affidato a me il compito dell’adozione di un moderno sistema informatico – e si era all’inizio di un processo che doveva poi abbracciare tutta l’Amministrazione Pubblica italiana – per superare l’arretratezza della prassi della “Cassa” fondata addirittura su un arcaico sistema meccanografico. Feci scegliere, in contrasto con il Ministro, la IBM (oggi non lo farei perché finirei quasi certamente in carcere) guadagnandomi, oltre alle inevitabili insinuazioni un pesante fermacarte di legno con il motto “Think” che dissi avrei sbattuto in faccia a chi avesse sollevato dubbi sulla correttezza dei criteri che avevo seguito; ma mi servii del processo di informatizzazione che comportava una razionalizzazione delle procedure seguite per proporre un diverso schema organizzativo fondato sulla capacità di controllo e di programmazione di un grande elaboratore centrale di dati (si pensi che al livello della tecnica di allora l’elaboratore occupava tutto un piano ed era raffreddato ad acqua). Pescatore non capiva o non voleva capire le grandi possibilità di accentramento che aveva il processo di informatizzazione. Ma lo capirono i dirigenti che si vedevano privati di poteri e organizzarono uno sciopero “luddista”11. Delle mie proposte non se ne fece quasi niente e ci vollero anni per utilizzare le possibilità che si aprivano con l’informatizzazione.
Ma la vera svolta che nel volgere di qualche anno doveva cambiare la natura della “Cassa” e tutta la politica per il Sud avvenne con i grandi investimenti, di Nino Rovelli, persona di ingegno e priva di scrupoli (era stato espulso permanentemente da tutte le colonie britanniche), nel settore della petrolchimica nel Nord della Sardegna. La legge autorizzava la “Cassa” a finanziare le grandi industrie limitatamente ai primi 6 miliardi di lire di investimento. Ma Rovelli suddivise il suo investimento nel settore della petrolchimica in tante imprese (che poi erano strettamente legate tra loro) ognuna per un investimento di 6 miliardi, moltiplicando così i finanziamenti della “Cassa”. Il Consiglio di Amministrazione all’unanimità respinse la proposta di “scorporo” appoggiata anche dal Ministero per il Mezzogiorno; il Consiglio di Stato al quale Rovelli ricorse, difeso da grandi avvocati di diversa ispirazione politica, dette torto alla “Cassa” e ritenne legittima la tecnica degli “scorpori” (la condanna fu una fortuna per il Consiglio della “Cassa” perché quando il procuratore di Roma Alibrandi convocò Pescatore chiedendogli in base a quali motivazioni era stata erogata una tale somma di denaro pubblico, fu facile replicare che ciò era avvenuto in base a sentenza).
La possibilità di dare alla “Cassa” il compito di finanziare ciascun reparto di un grande impianto industriale considerandolo un’impresa separata permise di applicare a tutte le grandi imprese il massimo degli incentivi finanziari e ciò era utilizzato soprattutto dall’ENI e dall’IRI che erano in quel momento al massimo della loro potenza politica e finanziaria. Il governo col consenso delle forze politiche della maggioranza e col silenzio di quelle dell’opposizione, ritenne che questa fosse la strada più semplice che evitava di dovere andare in Parlamento. In questo modo attorno agli anni Settanta del XX secolo un enorme flusso di fondi pubblici fu indirizzato verso il Sud per finanziare soprattutto le industrie di “base” cioè la metallurgia e la chimica da virgin nafta sulla base di delibere del CIPE (Comitato dei Ministri per la Programmazione Economica) seguendo la procedura della “Contrattazione programmata” fondata sull’accordo tra imprese e autorità politica. Era la prima volta dopo la conquista piemontese del 1860 che un simile ammontare di risorse era destinato all’industria nel Sud. Ma il rovescio della medaglia è che pur affermando che la grande industria ubicata nel Mezzogiorno avrebbe provocato lo sviluppo della piccola e media industria ad esse collegate, salvo imprese di manutenzione e di servizi non qualificati, i grandi impianti rimasero isolati, quasi dei corpi estranei in una economia che rimaneva arretrata, le “cattedrali nel deserto” come le chiamò efficacemente la pubblicistica di sinistra.
Tuttavia, dopo lo scontro sulle iniziative della SIR (Società Italiana Resine) di Rovelli, l’attività finanziaria della “Cassa” si limitò al corretto funzionamento dei meccanismi di erogazione dei colossali fondi per il credito “agevolato” (cioè a tassi inferiori a quelli di mercato) agli istituti di credito a medio termine, nonché dei contributi a “fondo perduto” cioè dei grants proporzionati al costo degli impianti: un’attività ragionieristica e di controllo delle spese effettuate dalle imprese per l’acquisizione di macchinari e di impianti, comprese le costruzioni.


5. Modernizzzazione o improvvisazione?

Dove invece la “Cassa” svolse un ruolo attivo fu nel campo delle infrastrutture a servizio dell’industria che in aggiunta agli incentivi finanziari (credito “agevolato” e sovvenzioni sul capitale investito) costituivano dei veri e propri incentivi in natura. Anche qui ci si avvalse della legge del 1957 per le aree industriali la quale prevedeva un contributo delle imprese per le infrastrutture “specifiche” cioè a servizio di ciascun impianto e il finanziamento a totale carico dello Stato nel caso di infrastrutture a servizio di due o più imprese. Ma così nel caso della grande industria oggetto della “contrattazione programmata” l’ammontare degli investimenti per infrastrutture aumentava enormemente ed era facile alle grandi imprese (che erano poi quelle dell’IRI, dell’ENI e della SIR di Rovelli) costituire una o più imprese minori che utilizzavano le stesse infrastrutture così da rendere legittimo il finanziamento a totale carico dello Stato. Porti, dighe, grande viabilità furono realizzati abbastanza rapidamente da una struttura che era in grado di affrontare tutti i complicati problemi tecnici che si presentavano.
Intanto le decisioni della “contrattazione programmata” cominciavano ad avere effetti sulla “Cassa”. A differenza di quanto era avvenuto quando si volle introdurre l’informatizzazione, si andavano manifestando delle spinte per il rinnovamento all’interno della struttura della “Cassa” soprattutto nel potente Servizio Acquedotti e Fognature il più legato ai problemi e alle esigenze della grande industria. L’istituzione della Commissione Analisi dei Sistemi aveva assorbito la Commissione intersettoriale delle acque e studiava con le metodologie più avanzate gli schemi idrici a servizio dell’industria e dell’agricoltura, settore nel quale operava il più conservatore Servizio Bonifiche. Luciano Piccioni un bravo matematico del Servizio Studi della “Cassa” ne era il segretario che con appassionata competenza manteneva i rapporti con la struttura mentre io ero il presidente. Operarono nella Commissione come esperti alcuni economisti provenienti dalla Banca Mondiale e dall’università, ma un contributo essenziale era dato dai dirigenti del Servizio, in primo luogo il suo capo professor Messina, che portavano la competenza e l’esperienza acquisita in anni di attività e che partecipavano con entusiasmo agli sforzi di modernizzazione. Gabriele Pescatore pur non senza ragione scettico sulla possibilità di modificare le logiche di scelta degli investimenti che dipendevano dai politici le cui logiche ben conosceva, lasciò tuttavia che proseguisse l’attività della Commissione. L’utilizzazione delle tecniche più avanzate per la scelta dei grandi investimenti era favorita dal progresso dell’attività informatica e il capo del relativo Servizio ingegnere Cuocolo era riuscito a mettere in piedi un apparato tecnico e organizzativo per la elaborazione dei dati che era all’avanguardia di quanto si cominciava a fare nell’Amministrazione Pubblica italiana12.
Mentre all’interno della “Cassa” proseguiva, non senza difficoltà, lo sforzo di modernizzazione, decisioni improvvisate e carenti di ogni serio sforzo di valutazione dei vincoli di cui si doveva tener conto e degli effetti che avrebbero comportato mettevano in forse la stessa politica di contrattazione programmata. Infatti dopo il colera a Napoli fu approvata nel 1973 una legge la quale, in maniera confusionaria, era un semplice elenco di opere pubbliche nella maggior parte di non grandi dimensioni senza alcuno sforzo di una visione d’insieme. E qui si deve ricordare quanto si è detto a proposito della capacità (e quindi del pericolo) della “Cassa” di attuare, proprio per l’efficienza con la quale riusciva ad operare, anche decisioni sbagliate dell’autorità politica. Ancora più importante per le sue conseguenze della legge sul colera di Napoli ed esempio più indicativo di questa sequenza perversa fu quello dei cosiddetti “pacchetti” Sicilia e Calabria. Dopo la ribellione a Reggio Calabria e gli incidenti che ne seguirono anche in altre zone del Mezzogiorno il governo Colombo decise in tutta fretta di effettuare degli investimenti per fare fronte al malcontento dilagante. Furono così decisi, senza i necessari approfondimenti, sconvolgendo in questo modo i criteri che pure erano stati seguiti per la “contrattazione programmata”, i cosiddetti “pacchetti” (cioè gruppi di iniziative industriali) Sicilia e Calabria. Alle delibere del CIPE (Comitato interministeriale della Programmazione Economica) in sede di contrattazione programmata e che erano vaghe ed approssimate, decise sulla base delle proposte delle imprese per investimenti di grandi dimensioni talvolta contenute in una sola pagina dattiloscritta, faceva riscontro la necessità di precisare spesso in mancanza di elementi che rendessero appropriate le decisioni, tutte le importanti infrastrutture necessarie alle quali doveva provvedere la “Cassa” e che potevano essere definite soltanto quando fossero state chiarite le caratteristiche tecniche degli impianti rendendo vana ogni previsione e quindi ogni possibilità di programmazione.
Seguendo quanto era stato proposto dal Ministero del Bilancio che proponeva una politica di “programmazione per progetti” nel 1971 fu approvata una legge la quale, confermando l’indirizzo dirigistico della compagine governativa, consentiva nel Sud alle imprese pubbliche di provvedere direttamente o in associazione ai Consorzi industriali alla realizzazione delle proprie infrastrutture – fruendo degli incentivi delle leggi per il Mezzogiorno – mentre limitava fortemente l’autonomia della “Cassa” sottoposta ai poteri delle regioni ed alla quale era indicato di operare –accanto ai suoi campi tradizionali di attività – per mezzo di “progetti speciali” relativi a grandi complessi di opere pubbliche. Ma solo nel 1972, durante il governo monocolore Andreotti, il Ministro del Mezzogiorno che era anche Ministro del Bilancio, indicò alla “Cassa” un elenco di “progetti speciali” approvati dal CIPE che erano anche la traduzione moderna dei “complessi organici di opere” previsti dalla legge del 1950. Si può per inciso osservare come in più di una occasione le proposte che erano formulate con grande enfasi dall’Ufficio della Programmazione del Ministero del Bilancio per risolvere problemi che si riteneva interessassero tutto il paese, trovavano poi in concreto applicazione solo nel Mezzogiorno dove si poteva utilizzare la “Cassa” e gli incentivi di cui disponeva.
L’elenco di progetti, frutto certamente di una mediazione politica, abbracciava una gamma vastissima di temi: progetti complessi relativi a reti di infrastrutture e progetti che si limitavano a singole opere pubbliche nonché “progetti” che erano solo “programmi di promozione” come la produzione intensiva di carne nelle singole regioni. Al momento di passare all’attuazione13 si precisarono all’interno della “Cassa” diversi modi di affrontare il problema. Il gruppo della Commissione Analisi dei Sistemi proponeva di applicare una programmazione per obiettivi fruendo dell’esperienza maturata nel progetto delle fluenze ioniche della Basilicata14 mentre in altri progetti si seguiva una prassi più tradizionale. E tuttavia vi fu un comune sforzo per dare concretezza ai progetti come erano, spesso in maniera confusionaria, indicati nelle delibere del CIPE. Il lavoro di approfondimento portò ad una conoscenza molto più dettagliata dei problemi da affrontare fornendo all’autorità politica elementi certi per le loro decisioni. Basti citare il lavoro dell’ingegner Antonio Jamalio del Servizio Bonifiche sulle ricerche da affiancare al progetto speciale e alla ripartizione dei compiti con le regioni nonché dell’ingegnere Domenico Valenti sulla domanda d’acqua per usi civili nel piano generale acque della Sicilia15 e gli studi dell’ingegnere Francesco M. de Falco per la programmazione degli interventi per il progetto speciale per il disinquinamento del Golfo di Napoli.
Ma mentre si avviava il processo di modernizzazione della “Cassa” aumentava la pressione dell’ENI e dell’IRI non solo sulla Presidenza e sui singoli componenti del Consiglio di amministrazione, ma anche sui Servizi. L’assistente dell’ingegner Girotti, presidente dell’ENI, dr. Fogu imperversava negli uffici della “Cassa” per perorare gli interessi del suo Gruppo. D’altra parte le regioni anziché partecipare all’attività di programmazione rivolgevano la loro attenzione alle singole opere. Tra queste difficoltà proseguiva l’attuazione dei “progetti speciali” e il più elevato livello di competenza tecnica rimaneva l’unico argine alle pretese dei grandi gruppi16 e delle regioni. Intanto il Consiglio di amministrazione era stato rinnovato e solo io dei vecchi consiglieri ero rimasto; Giovanni Marongiu fu escluso per iniziativa di De Mita che voleva al suo posto il sindaco di Salerno e fu bloccato da Pescatore che però non riuscì a mantenere in Consiglio uno dei principali collaboratori del defunto Ministro Pastore; entrò in Consiglio e vi rimase per qualche tempo Pasquale Saraceno, presidente della Svimez. ed esponente delle correnti “industrialiste”.
Alla fine del 1973, dopo la guerra cosiddetta del Kippur scoppiò la crisi petrolifera che portò all’aumento dei prezzi delle materie prime, in primo luogo del petrolio, che generò una crisi economica internazionale. L’industria italiana, in particolare la chimica di base, fu particolarmente colpita e allo stesso tempo si ponevano problemi di riconversione di buona parte dell’apparato industriale il che poneva termine all’interesse agli investimenti nel Mezzogiorno. Si concludeva così definitivamente una fase importante della politica dello Stato italiano per il Sud ma al momento furono pochi ad accorgersene ritenendo si trattasse di una crisi transitoria, dopo la quale tutto sarebbe ritornato come prima. Le conseguenze sulla “Cassa” furono immediate; anche in questo caso, come era avvenuto per l’informatica, all’inerzia amministrativa che riteneva di affrontare la crisi solo col rallentamento dei lavori in corso si contrappose la proposta di un “piano di emergenza”, elaborato da una task force di cui ero responsabile, il quale selezionava i lavori in funzione della domanda diretta e indotta di energia e che a tal fine richiedeva delle modifiche organizzative. Il piano fu preso attentamente in esame dal Consiglio di Amministrazione ma ebbe la sola conseguenza di obbligare la struttura a riflettere sui fabbisogni energetici che ciascuna scelta comportava.


6. La fine delle illusioni

La situazione che si configurava dopo la crisi era per la “Cassa” completamente diversa da quella nella quale, sia nel primo decennio che successivamente, aveva operato. Molti dei grandi impianti, frutto della “contrattazione programmata” erano chiusi o in agonia (basti pensare alla Liquichimica di Saline di Reggio Calabria, alla Italproteine dell’ENI a Sarroch vicino Cagliari, a tutti gli impianti dell’ENI ad Ottana, nel centro della Sardegna) altri non erano nemmeno partiti (impianti SIR di Rovelli a Lamezia, l’acciaieria Italsider dell’IRI a Gioia Tauro) rendendo inutili le colossali infrastrutture che erano state realizzate o erano in corso di realizzazione. Continuava intanto il lavoro sui “progetti speciali” (quelli che non riguardavano l’industria) e sui settori tradizionali di intervento della “Cassa”, ma i nuovi equilibri politici successivi alla crisi, che col “compromesso storico” vedevano il Partito Comunista parte della maggioranza, sancivano la fine dell’eccezionale impegno dello Stato italiano per il Mezzogiorno (1950-1973). Gabriele Pescatore lasciava la presidenza della “Cassa” e poco importa il palleggio di responsabilità tra De Mita e Andreotti per la sostituzione e i sospetti – non infondati – che essa sia avvenuta su pressioni dei comunisti. La verità è che la fine di un’epoca richiedeva anche il cambiamento degli uomini che l’avevano interpretata.
In una delle ultime riunioni del Consiglio di Amministrazione prima della sua uscita il capo della segreteria del Presidente dr. Sferlazza, dopo essersi sentito col segretario del Consiglio dr. Forza, distribuì a tutti i consiglieri delle scatolette. Quando l’aprii vi trovai una medaglia d’oro. In effetti tra i poteri del Presidente era quello di conferire medaglie ed onorificenze. Alle mie rimostranze perché davamo a noi stessi una medaglia, Pescatore con la sua scanzonata ironia replicò «Se la medaglia non ce la diamo noi non ce la darà nessuno».
Ma successivamente all’uscita di Pescatore le correnti modernizzatici all’interno della “Cassa” che potevano esprimere le esigenze di cambiamento venivano sbrigativamente messe da parte. Ed in questa fase si conclude anche la mia lunga esperienza alla “Cassa” che mi ha lasciato il ricordo di tutti quelli che a diversi livelli dell’organizzazione con entusiasmo e competenza cercarono di cambiare il Mezzogiorno.




NOTE
1 I partiti contadini erano stati particolarmente forti nel periodo tra le due guerre nei paesi dell’Europa Sud Orientale; basti ricordare tra i loro dirigenti Alexander Stambolinski in Bulgaria, Vladko Macek in Croazia, Ion Mihailache e Iuliu Maniu in Romania.^
2 Ministero per la Costituente, Rapporto della Commissione Economica II Industria Capitolo VIII: G. Cenzato, S. Guidotti, Il Problema Industriale del Mezzogiorno, Roma, Poligrafico dello Stato, 1947.^
3 Si veda AA.VV., Fanfani e la casa…, Istituto Luigi Sturzo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002.^
4 L. D’Antone, L’intervento dello Stato: lezioni on line per conto della Regione siciliana.^
5 D.E. Lilienthal, TVA. Democracy on the March, N.Y., 1953. Sulle vicende della TVA si veda anche A. Schlesinger, The coming of the New Deal, Boston, Houghton Mifflin, 1958 ed anche W.E. Leuchtenburg, Roosevelt e il New Deal, trad. it., Bari, Laterza, 1976.^
6 Si vedano a tal proposito i lavori di A.O. Hirschman che per anni viaggiò in Sud America studiando le politiche seguite dai governi. In particolare è interessante al tal riguardo Journeys toward progress, N.Y, Twentieth Century Fund, 1963, che debbo all’amico Leone Iraci grande conoscitore dei problemi politici ed economici dell’America Latina.^
7 R. Napoletano, Gabriele Pescatore. Il grande elemosiniere, Napoli, Sintesi, 1988, che mette efficacemente in luce il ruolo svolto da Pescatore quando si trattò di ottenere i finanziamenti da parte delle istituzioni economiche americane in un momento nel quale il merito di credito dello Stato italiano non era particolarmente elevato.^
8 Le idee di La Malfa sono precisate nella ormai famosa “nota aggiuntiva”. Cfr. Ministero del Bilancio, La programmazione economica in Italia, Vol. 2°, Roma, 1967, Problemi e prospettive dello sviluppo economico italiano, maggio 1962.^
9 Per celebrare il suo primo decennio di attività la “Cassa” pubblicò una serie di volumi e, nel momento in cui si discuteva della sua compatibilità con la progettata politica di piano, Gabriele Pescatore intervenne con uno scritto che è l’introduzione all’opera La “Cassa” e lo sviluppo del Mezzogiorno, Bari, Laterza, 1962, (Origine e caratteri dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno) nel quale difende la capacità di programmazione della “Cassa”.^
10 Rapporto del Vice Presidente della Commissione Nazionale per la Programmazione Economica, in Ministero del Bilancio, La Programmazione Economica in Italia…, cit.^
11 Sul frontespizio della nota organizzativa erano riportare le parole di Machiavelli «E debbiasi considerare come è non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo a introdurre nuovi ordini. Perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene e ha tiepidi difensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene».Un attento osservatore come Giorgio Ruffolo non mancò di utilizzare subito in un suo libro questa citazione.^
12 Il lavoro congiunto della Commissione Analisi dei Sistemi e del Servizio Elaborazione Dati è testimoniato dalla nota: La programmazione matematica nella progettazione di grandi opere (il caso del sistema idrico Puglia-Basilicata), in Collana di studi della Commissione Analisi dei Sistemi, Milano, Franco Angeli, 1976.^
13 Sul significato di “progetto speciale” si veda G. Pescatore, Il progetto speciale nel quadro dell’intervento straordinario, in «Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico», n° 3, 1974.^
14 Dossier sui progetti speciali per il Mezzogiorno, in «Economia Pubblica», 1973, nn. 1-2, che comprende una serie di articoli ed un elenco dei progetti.^
15 D. Valenti, Lo studio della domanda d’acqua per usi civili nel quadro del Piano Generale delle acque Sicilia, Amsterdam, International Water Supply Association, 1976.^
16 S. Petriccione, Un anno di lavoro sui progetti speciali, in «Economia Pubblica», cit..^
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