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Dopoelezioni 2011
di G. G.
Che con le recenti elezioni amministrative siamo entrati in una fase nuova della vita politica nazionale è impressione generalmente diffusa sia negli ambienti politici che fra gli osservatori e i commentatori delle cose italiane. Questa impressione essendo ricorsa anche in varii altri momenti precedenti, noi siamo stati sempre estremamente cauti, riportandola e parlandone, nel valutarla. Abbiamo, anzi, espresso, per lo più, l’opinione che l’apparenza di mutamenti imminenti o in atto nei complessivi equilibri politici del paese fosse molto maggiore della consistenza effettiva di tali mutamenti. E, invero, i fatti ci hanno poi dato fin qui ragione, poiché anche nei momenti di maggiore difficoltà, come dopo l’uscita dei seguaci di Fini dal Popolo delle Libertà, la maggioranza ha retto e ha continuato a dimostrare di essere tale nel modo più eloquente in un regime parlamentare, ossia superando la prova di molte votazioni, tra quelle di fiducia e quelle ordinarie. Votazioni in Parlamento sono state da essa superate anche dopo le elezioni di maggio. E, tuttavia, in questo caso il successo e la stabilità dimostrata a livello parlamentare non sono bastati a dissolvere l’impressione negativa nata con le elezioni e a fare ritenere che quello di maggio non sia stato solo uno scivolone elettorale senza particolari conseguenze e ripercussioni politiche, almeno nel prossimo futuro.
Si riflette in ciò, indubbiamente, la sconfitta riportata dai partiti della maggioranza di governo nelle elezioni di maggio: una sconfitta evidente e rilevante, che anche i maggiori esponenti della maggioranza, dopo qualche iniziale esitazione, non hanno potuto che apertamente riconoscere e che, come tutte le vere sconfitte, non ha tanto rilievo, sul piano della conta dei voti quanto sul piano del significato politico di ciò che con quelle elezioni si è guadagnato o si è perduto.
Basterebbero, infatti, i risultati di Milano e di Napoli a dare alla sconfitta della maggioranza una evidenza inconfutabile.
A Milano era in lizza, a capo della lista del suo partito, lo stesso Berlusconi; il sindaco uscente Moratti aveva amministrato per anni il Comune fra luci e mbre, ma aveva sempre mantenuto un forte prestigio personale e politico-amministrativo; la Lega Nord sembrava sicura di ampliare i suoi suffragi ella città della cosiddetta Padania, che per essa è stata sempre la più importante e significativa; l’avversario della Moratti era un esponente non del Partito Democratico, ma della Sinistra estrema, che si riteneva non potesse dare affidabilità politica in una città in cui l’opinione moderata e legalitaria ha sempre fatto premio su altre tendenze; la campagna elettorale aveva teso a mettere in luce, da parte della maggioranza, i motivi che si ritenevano di più sicuro ascolto presso l’opinione milanese, come i Rom da ospitare e la moschea da costruire nella metropoli lombarda, quali iniziative temute del candidato della sinistra, se avesse vinto, e quali motivi da sfruttare elettoralmente perché giudicati molto molesti alla sensibilità ambrosiana.
A Napoli l’affermazione della Destra era data per scontata, viste le prove giudicate altamente insoddisfacenti di sedici anni di amministrazione della Sinistra, identificata con personalità come quelle di Antonio Bassolino e di Rosa Jervolino, che erano diventate eponime di cattiva amministrazione e di inettitudine. I risultati delle elezioni regionali e provinciali svoltesi l’anno precedente autorizzavano largamente una tale previsione. Inoltre, la fase pre-elettorale era stata ancor più negativamente caratterizzata dal travaglio interno del Partito Democratico, rivelatosi incapace di gestire anche la procedura interna delle “primarie” e costretto a ripiegare in ultimo su un candidato esterno, napoletano, ma non addentro alla vita della città, e ritrovato nelle file della pubblica amministrazione, con una grave mortificazione di tutti i dirigenti e gli esponenti locali del partito. Per di più, al primo turno questo candidato era stato clamorosamente escluso dal ricorso al ballottaggio al quale obbligò il risultato elettorale di quel turno, che segnò l’affermazione di un candidato della Sinistra esterno al Partito Democratico, e molto di più che a Milano saldato con le frange della Sinistra più radicale, e quindi, secondo le previsioni, meno gradevole all’opinione napoletana in generale, e alla stessa opinione di sinistra più legata al Partito Democratico.
Entrambe queste serie di previsioni si sono dimostrate, alla prova dei fatti radicalmente infondate e sono state sovvertite da risultati clamorosi. Qualcuno si è posto il problema se pesi di più il risultato di Napoli o quello milanese. Questione insensatissima, sia perché i due risultati vanno letti sinotticamente, sia perché le differenti implicazioni dei due risultati appaiono attinenti a campi diversi. A Milano la sconfitta è stata disastrosissima per la Destra perché ne sono rimasti colpiti in maniera pesantissima Berlusconi, per la sua esposizione personale, oltre che come leader della Destra e come uomo di governo, e la Lega, che ha visto vanificate le sue aspettative di un’espansione senza limiti anche nelle zone che essa considera come un suo riservato dominio, e ha visto per Bossi personalmente disdetta la sicumera dei suoi ripetuti pronostici elettorali di grandi affermazioni. Né meno grave è stata la sconfitta di Berlusconi a Napoli, dove non solo il candidato della Destra, un noto imprenditore, era una sua scelta personale, ed è stato rifiutato largamente anche in quell’ambiente industriale, per il quale Berlusconi ostenta sempre una grande familiarità e sintonia, e in cui, in teoria, avrebbe dovuto ricevere non pochi appoggi.
È vero che la conduzione della campagna elettorale da parte del presidente del Consiglio dei Ministri e di Bossi è stata tra le loro più infelici, e han fatto dubitare più di qualcuno sulla tenuta personale di due leader, dei quali è stata messa in rilievo, a questo proposito, e senza tanti complimenti, la non più verde età. Inoltre, Berlusconi è entrato da mesi e mesi in un vortice giudiziario e mediatico distruttivo, del quale non ha fatto, coi suoi discorsi, gesti e atteggiamenti, che peggiorare rapidamente la negatività. Infine, l’azione del governo si è negli ultimi mesi notevolmente appesantita, schiacciata, fra l’altro, com’è, sulla questione dei problemi di bilancio e della finanza pubblica da recuperare o da salvaguardare nei suoi equilibri, che continuano a mostrarsi estremamente precari. Tutte ragioni di una impopolarità, che non ha consentito più al presidente Berlusconi di insistere con la consueta iattanza sul suo primato nei sondaggi sulle preferenze degli italiani per i loro leader. Per di più, la presa di Berlusconi sul suo stesso partito appare oggi alquanto inferiore a quella di un passato anche recente, sotto l’effetto di un costume, da lui stesso incoraggiato fortemente, di scelte di esponenti politici a livello nazionale e parlamentare provocate e condizionate da lui stesso, che ci stanno facendo assistere a una delle stagioni meno eleganti di trasformismo e di opportunismo nella storia politico-parlamentare del paese. Tutte cose che, dal più al meno, a parte l’esposizione giudiziaria e mediatica e il trasformismo, si possono ripetere, con le dovute variazioni, anche per Bossi.
Peraltro, le fibrillazioni senza precedenti che nel campo della maggioranza si sono registrate dall’immediato indomani delle elezioni dicono fin troppo chiaramente che qui non siamo soltanto dinanzi a una crisi personale di due leader, e di uno di essi in particolare, ossia di Berlusconi, ma siamo di fronte a una crisi in parte già chiaramente in atto, in parte ancora latente ma già sensibilmente percepita, di un intero schieramento politico. E proprio per questo motivo assume una irresistibile attrazione, ma anche una enorme importanza, la questione del come sia stato possibile un tale rapidissimo deterioramento di uno schieramento politico che fino a pochi mesi fa appariva ancora non solo saldo in sella e confortato da notevoli successi elettorali e da sondaggi favorevoli, ma anche aiutato dalla circostanza di dovere avere a che fare con una opposizione, secondo un giudizio fin troppo diffuso e generale, incapace di coagularsi e di condurre un discorso attraente e costruttivo per la pubblica opinione.
La fase nuova della vita politica italiana che ci si attende dopo le elezioni di maggio sarà meglio compresa quanto più e meglio si risponderà a tale questione. La novità consisterà, come molti pensano, in una rottura fra Berlusconi e la Lega? Oppure nel fatto che la leadership di Berlusconi nel suo partito e nella maggioranza rivelerà di appartenere ormai più al passato che al futuro, o anche solo al presente? O, ancora, in una forte redistribuzione dei rapporti di forza – restando o non restando Berlusconi in sella – tra le componenti della sua maggioranza, nonché tra le personalità che ne sono considerate più rappresentative? O, addirittura, in una più o meno tempestiva constatazione che il primato elettorale della Destra è finito e che è iniziato il conto alla rovescia per un ritorno della Sinistra al potere? O, infine, tutto si risolverà prima di quanto non si creda, e saremo portati a elezioni legislative anticipate?
Le vicende della “manovra” Tremonti non sono sufficientemente chiarificatrici al riguardo e poi bisogna pur porsi altri problemi. Ad esempio, se, essendo certo che la Destra ha perduto le elezioni di maggio, sia altrettanto certo che le abbia vinte la Sinistra o, questione più sottile ma ancor più importante, quale Sinistra le abbia vinte.
Il discorso sulla Sinistra sarà il caso di affrontarlo a sé e in dettaglio, appena sarà un po’ più chiaro che cosa accadrà sul punto delle “primarie” per la leadership di una coalizione alternativa alla Destra per le prossime elezioni al Parlamento. Nelle more sarà pure opportuno, per evidenti ragioni attinenti, se non altro, alle esperienze degli ultimi anni, oltre che per una più elementare ragione di prudenza politica, non considerare già del tutto chiusa la partita della Destra. Oltre tutto, il corso che prenderà l’attuale, indubbia crisi attraversata da tutta la Destra non solo non è consegnato ad alcun automatismo, ma dipenderà largamente da ciò che faranno le forze di opposizione. Che, comunque, anche alle elezioni di maggio si sono mostrate molto più forti nella Sinistra che nel Centro, nonostante la persistente rivendicazione, da parte di quest’ultimo, di una sua funzione di cerniera decisiva del gioco politico italiano. Il partito di Casini ha tenuto le posizioni, ma senza alcun volo; quello di Fini continua a dimostrarsi solo un’ipotesi; quello di Rutelli poco più di una illusione ottica. Nonostante quel che da molte parti si è detto, lo schema bipolare nell’articolazione di forze e gruppi politici ha sostanzialmente resistito, e sembra dimostrare che questo sarà lo schema prevalente ancora nel futuro prevedibile. Con una conseguente complicazione ai fini della formazione di una eventuale grande coalizione, non limitata solo alla Sinistra, che alle attuali opposizioni sembrasse opportuna per affermarsi nelle elezioni previste per il 2013, ma che potrebbero anche essere congruamente anticipate.
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