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La SWIMEZ, il Mezzogiorno e un sessantennio di storia italiana 1946-2006 *
di Giuseppe Galasso
1. L’Italia del dopoguerra e la SVIMEZ: un evento significativo

Quando la SVIMEZ fu fondata, alla fine del 1946, l’Italia era appena uscita, come si sa, da una guerra disastrosa. Disastrosa sul piano materiale, con una grande distruzione delle sue risorse e del suo patrimonio di attrezzature e infrastrutture. Disastrosa sul piano morale e politico, con una credibilità internazionale assai bassa e, all’interno, un senso di frustrazione e di disorientamento che prevaleva sulle pur diffuse speranze e aspettative di una gran parte del paese per il ritorno alla pace e alla libertà. Non era stato neppure ancora firmato il trattato di pace coi paesi vincitori; e quando lo si firmò nel 1947, le condizioni ne furono dure, senza quasi alcuna considerazione per la partecipazione italiana all’ultima fase della guerra contro la Germania: il dignitoso discorso di De Gasperi alla conferenza della pace, a Parigi, fu accolto con manifesta freddezza e solo il Segretario di Stato americano si alzò per stringere la mano al capo del governo italiano.
In quel momento i problemi storici e strutturali dello Stato italiano, che non aveva neppure ancora compiuto il primo secolo di vita, si congiungevano e si sommavano a problemi specifici e immediati della congiuntura post-bellica. Così – per dare solo un’idea, e un’idea davvero esigua, di questo micidiale connubio fra strutture e contingenze – c’era il problema di un’inflazione rovinosa e c’era il problema perdurante di un’ancora parziale modernizzazione del paese; c’era il problema della difficoltà di provvedere addirittura al rifornimento alimentare del paese e c’era il problema annoso, anzi originario, costituito dalla “questione meridionale”, che ritornava alla più piena e pregnante attualità dopo la lunga pausa di silenzio imposta dal crollato regime fascista.
A suo modo, e nei suoi limiti connaturali, la fondazione della SVIMEZ fu allora un evento significativo.
Testimoniava, infatti, innanzitutto, di una volontà concreta di ripartire, nella vita nazionale, dopo le fratture e le distorsioni dovute alla guerra, e fra i molti problemi e le poche certezze che essa lasciava, con iniziative e idee nuove: iniziative e idee che sostenessero in modo adeguato al caso il rinnovamento degli spiriti, delle menti e delle volontà, e che sostenessero, con ciò, allo stesso tempo, un’opera di ricostruzione che a ragione appariva ardua, sia per la difficoltà di orientarla nei valori e nei fini, sia, ancor più, per la sua imponente e disperante portata materiale. E già questa testimonianza era importante, oltre che di per se stessa, anche per la libera forma associativa in cui si proponeva. Si sa che il livello associativo della presenza e dell’azione nella vita pubblica è tradizionalmente poco frequentato in Italia, e lo era ancor più allora, essendosi tale frequenza, dopo di allora, sicuramente incrementata. Si sa che la carenza di spirito e di iniziativa associativa era segnalata da sempre come un “carattere originale” del paese; e si sa che, a ragione, tale carenza era ritenuta correlativa, fra l’altro, anche a quell’attendersi tutto, e sempre, dallo Stato, che veniva indicato come un altro “carattere originale” dello stesso paese, sancendo un non fisiologico rapporto fra società civile e istituzioni, legato anch’essa a tali caratteri.
L’iniziativa che dava vita alla SVIMEZ proveniva, per l’appunto, dalla società civile in una delle sue giunture più delicate e di maggiore peso, ossia da quella tra pensiero e azione, tra cultura e linee di governo, tra “tecnici” e politica. Non se ne esagera, quindi, l’importanza e il significato sottolineandone il rilievo. E, tuttavia, ancor più significativa era, forse, la testimonianza che la fondazione della SVIMEZ dava nel campo delle idee, attestando che in questo campo, non meno che in altri, il paese non ripartiva da zero; attestando che ci si muoveva sulla solida base di una cultura che, nonostante tutto, non era mai rimasta immobile, né appartata dal movimento generale delle idee del tempo, e in particolare dal travaglio di esperienze e di riflessione degli anni ’30.


2. Le novità della SVIMEZ

Questi aspetti dell’iniziativa concretatasi nella SVIMEZ non appaiono messi di solito nella dovuta evidenza, ma vanno, invece, chiaramente sottolineati, per molte ragioni immediatamente percepibili, ma anche, se non soprattutto, perché nel campo della cultura economica – economia politica e, ancor più, politica economica – la SVIMEZ fu una delle vie per cui si ebbe nell’Italia del dopoguerra una maggiore diffusione delle idee più avanzate e più collaudate al fuoco delle drammatiche emergenze e vicende che seguirono alla prima guerra mondiale e, poi, alla crisi economica mondiale del 1929. Le stesse storie personali di varii fra i più noti ed eminenti fondatori della nuova associazione non fanno, del resto, che convalidare il riferimento, da noi sottolineato, agli anni ’30 e alle relative prove e circostanze.
Bisogna, peraltro, ampliare le considerazioni fin qui esposte. Non era, infatti, soltanto la visuale economica quella in cui fin da principio la SVIMEZ si mosse. Demografia e sociologia furono da subito presenti nello spettro – già in partenza, perciò, alquanto ampio – degli interessi della nuova associazione. Non erano (è chiaro) discipline nuove in Italia né la demografia, né la sociologia, e specialmente la demografia, e vantavano già una cospicua e illustre tradizione nazionale. La sociologia, in particolare, era, però, legata, più che altro, a una tenace sopravvivenza di moduli e idee dei tempi del positivismo, e in questo solco la si era continuata a coltivare nel ventennio fascista, mentre da parte storicistica e idealistica se ne pronunciava una sostanziale condanna scientifica e intellettuale. La ripresa operata dalla SVIMEZ fu subito assai forte per la demografia, e fu, invece, più discreta e misurata per la sociologia, ma nel rinnovamento culturale italiano del dopoguerra fu di indubbia efficacia.
Un’efficacia che, del resto, in tutta l’idea, in tutto il progetto della SVIMEZ fu incrementata in maniera decisiva dall’applicazione della neonata associazione a un oggetto molto specifico: e, cioè, lo sviluppo industriale del Mezzogiorno. Il problema aveva, invero, dietro di sé decennii di studi e di riflessioni, che avevano impegnato alcuni degli ingegni maggiori e migliori della nuova Italia uscita dal Risorgimento e già approdata alla “rivoluzione industriale” tra la fine del secolo XIX e gli inizi del secolo XX. La SVIMEZ ne raccoglieva, per un verso, l’eredità, ma, per altro verso, si poneva fin da principio su un terreno nuovo e diverso.
Traeva, in primo luogo, la questione meridionale fuori dal quadro italiano entro il quale la si era sempre rilevata e discussa, e ne faceva un caso della più generale questione delle aree depresse o sottosviluppate, come allora non si aveva timore di dire. Lo slargamento dell’orizzonte tematico così realizzato valeva di per se stesso a dare, come ben s’intende, un’altra dimensione storica e strutturale al problema, ma soprattutto ampliava a nuovi terreni la tecnica di intervento economico e sociale al riguardo.
In secondo luogo, la SVIMEZ puntava con decisione sulla industrializzazione, sullo sviluppo industriale come strategia di fondo per affrontare con nuova determinazione il problema del Mezzogiorno, assumendo addirittura l’industrializzazione come propria ragione sociale. Questo non voleva dire che si fosse poco attenti all’economia agraria del Mezzogiorno e ai suoi problemi. Al contrario, la considerazione dei problemi delle campagne meridionali rientra fra i suoi criteri di studio e di analisi più evidenti fin dall’inizio. Voleva dire soltanto che si rifiutava ogni strategia puramente agraria dello sviluppo del Mezzogiorno. Allo stesso modo, pur prestando la dovuta attenzione ai problemi del turismo e, via via, di altri aspetti e settori dello sviluppo del Mezzogiorno, la SVIMEZ ne avrebbe rifiutato ogni visione puramente terziaria. In altri termini, la SVIMEZ pensò fin dall’inizio che solo una cospicua espansione dell’economia reale, a partire dalla base produttiva più potente rappresentata dall’industria in tutta la gamma delle sue espressioni tecniche e produttive, ma soprattutto di quelle ai massimi e più avanzati livelli, avrebbe potuto portare il Mezzogiorno fuori del sottosviluppo e renderlo, in misura sufficiente, ancorché eventualmente non totale, soggetto autonomo e autopropulsivo del suo approdo a una piena modernizzazione del suo sistema economico e sociale nel quadro di quello italiano.
Quest’ultimo accenno va, a sua volta, immediatamente ripreso per osservare che il problema meridionale non fu mai per la SVIMEZ un problema regionale. In modo esplicito o implicito, fu chiaro per essa, ugualmente fin dall’inizio, che si trattava invece di un grande problema nazionale, che aveva condizionato nel passato e avrebbe condizionato nel futuro lo sviluppo generale dell’Italia unita. In altri termini, e secondo quelle che furono sempre l’ispirazione e l’idea del maggiore meridionalismo, il problema dello sviluppo del Mezzogiorno faceva tutt’uno con il problema della possibilità, per l’Italia, di varcare la soglia di una piena e definitiva modernizzazione: il che, supposto quando del “miracolo economico italiano” non si aveva ancora alcun sentore, presentava, naturalmente, un particolare valore, e tanto maggiore valore in quanto la SVIMEZ – del cui significato di grande iniziativa spontanea della società e della cultura italiana si è accennato – nacque forte: forte per i nomi delle personalità che presero quella iniziativa; forte per i soci che parteciparono alla sua costituzione e che furono fra i nomi più eminenti del mondo delle imprese italiane di allora.
Ciò spiega come la nuova associazione potesse subito assumere un ruolo, che non avrebbe più dismesso, anche se a volte più e a volte meno intenso, di consulenza, di assistenza, di supporto progettuale e di simile altra forma di partecipazione all’attività del governo, dei ministeri e di ogni tipo di ente pubblico. E per questo vanno almeno ricordati lo studio di una tipologia di “intervento straordinario” che precedette l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, la collaborazione prestata alla neonata Cassa per il Mezzogiorno e, poi, con il nuovo Ministero per l’Intervento Straordinario nel Mezzogiorno, l’impegno per la preparazione di alcuni dei documenti più importanti nella storia dell’Italia repubblicana quali furono, ad esempio, lo Schema Vanoni e la Nota aggiuntiva al bilancio del 1962 del ministro Ugo La Malfa, la parte avuta nella ideazione e identificazione delle Aree di Sviluppo Industriale. Né questo tipo di presenza fu limitato al settore pubblico: basta ricordare, al riguardo, la collaborazione con la FIAT negli anni della guida dell’azienda torinese tenuta da Vittorio Valletta, che si esplicò in seguito nella collaborazione prestata per la scelta della ubicazione delle iniziative di produzione automobilistica e motoristica assunte dalla FIAT nel Mezzogiorno. E basti ugualmente ricordare che la SVIMEZ ha contribuito anche in sede internazionale a sostenere e a definire l’azione del governo relativa al Mezzogiorno, come presso la Economic Commission for Europe, dell’ONU, a Ginevra e presso l’OECE a Parigi.


3. L’apparato concettuale

Sarebbe lungo illustrare la parte concettuale di questa grande prova operativa che la SVIMEZ diede fin dai suoi inizi. Almeno qualche punto va, però, richiamato, per avere un’idea più concreta del protagonismo intellettuale che non si può non riconoscere alla SVIMEZ sia nel dibattito meridionalistico che nelle sue implicazioni culturali e politiche più generali.
Così, forse, innanzitutto, la davvero precoce delineazione di una tipologia delle aree di intervento pubblico e di stimolo allo sviluppo in relazione ai caratteri strutturali di tali aree, in relazione alla loro suscettibilità di trasformazione spontanea o sollecitata da interventi esterni e in relazione, infine, agli scopi di fondo che l’intervento poteva porsi nei loro confronti. Ne nasceva una trilogia (aree di sviluppo integrale, aree di sviluppo ulteriore e aree di mera sistemazione), tuttora, a nostro avviso, del tutto valida sul piano concettuale e metodologico, che sarebbe bene riprendere a tenere presente, se davvero si volesse razionalizzare nel modo più proficuo l’azione per il Mezzogiorno, in seguito gravemente dispersasi in una prassi di interventi a pioggia su tutto il territorio, senza sufficiente o, addirittura, senza alcuna graduazione di fini e di percorsi possibili.
Così, il lavoro per definire il meccanismo di finanziamento dell’intervento per il Mezzogiorno, condotto su conforme richiesta della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS), che – come veniva detto nella relazione per il bilancio SVIMEZ del 1950 – determinava, «sulla base di una serie di ben definite ipotesi di lavoro, la distribuzione [degli investimenti] fra consumi, tributi, risparmi ed importazioni per dedurne infine, applicando lo strumento del “moltiplicatore”, gli incrementi complessivi di reddito e di occupazione», che ne sarebbero derivati. Ciò ebbe anche per effetto di indurre la BIRS ad accettare di «non limitare l’intervento al finanziamento della spesa direttamente eseguita nelle zone di depressione» e di «effettuare anche finanziamenti in dollari da trasformare nella moneta locale per lo sviluppo dei programmi di industrializzazione». Era un’acquisizione preziosa per dare all’intervento a cui si pensava un’autonomia in sede nazionale, della quale non si sarebbe potuto altrimenti godere. Si capisce che di questo successo, che accreditava ormai la SVIMEZ in maniera evidente anche sul piano internazionale, i responsabili dell’associazione andassero particolarmente orgogliosi. E anche in questo caso la SVIMEZ si trovava a indicare un percorso di studio operativo e funzionale che è stato, poi, in pratica, abbandonato e che conserva una sua indubbia validità non solo in relazione a una politica per il Mezzogiorno.
Così, ancora, quello che la stessa SVIMEZ considerava come «il documento che meglio di ogni altro [ne] caratterizza l’attività» in tutto il primo periodo della sua vita, ossia lo Schema Vanoni; così, il contributo che, anche sulla base del lavoro fatto per lo Schema Vanoni, la SVIMEZ diede alla definizione del rapporto fra sviluppo del Mezzogiorno, sviluppo nazionale e programmazione, per cui, quando negli anni ’60, la programmazione, appunto, venne all’ordine del giorno della politica italiana, la SVIMEZ si trovò in prima linea e già ampiamente preparata a sostenere la parte che sostenne sia per la Nota aggiuntiva del 1962, alla quale abbiamo già accennato, sia per il quasi contemporaneo rapporto della Commissione per la programmazione economica nazionale.


4. Il lavoro statistico

Sarebbe, inoltre, impossibile dire alcunché della SVIMEZ senza riferirsi in congrua misura al lavoro statistico da essa svolto. Senza uscire da un cenno sintetico come quello qui possibile, basterebbe, del resto, riferirsi all’imponente silloge statistica pubblicata prima per il 1861-1953 e poi prolungata fino al 1961 nel volume pubblicato per il primo centenario dell’Unità italiana e comprendente una serie di tutti i principali indicatori della vita economica e sociale del paese fra il 1861 e il 1961. La presentazione editoriale di questo volume richiamava le necessità statistiche comportate dai disegni di intervento per il Mezzogiorno, ma richiamava pure l’analoga necessità di documentazione statistica per motivi di ordine internazionale «in relazione all’apporto di capitale estero» auspicato per il Mezzogiorno, nonché per le necessità degli «studi di economisti e di enti internazionali sui paesi economicamente sottosviluppati, di cui il Mezzogiorno costituisce un particolare caso». Perciò fin dal 1948 – proseguiva quella presentazione – la SVIMEZ aveva atteso a raccogliere e pubblicare dati statistici, «pur non potendo allora sospettare quale vastità e importanza tale documentazione dovesse assumere nel giro di pochi anni».
La vastità e l’importanza furono, infatti, fuori del comune per una libera associazione di questo tipo, e lo sono rimaste anche in seguito. Nel 1978 veniva pubblicata una nuova sintesi statistica, di consistenza non inferiore a quelle del 1953 e del 1961, dedicata al venticinquennio 1951-1976: un altro conseguimento da ricordare nel lavoro della SVIMEZ in questo campo. Nel presentarla, si metteva in rilievo la mutata scala territoriale adottata per le tabelle del volume, soprattutto perché per il Mezzogiorno si era ritenuto di passare dal livello regionale a quello provinciale; e si faceva presente che venivano offerte tabelle anche per «fenomeni in precedenza non rilevati o rilevati solo parzialmente rilevati». La tematica di questo ampliamento tabellare, interessante per il piano territoriale, lo era forse ancora di più per gli aspetti settoriali ora presi in considerazione. Se l’attenzione alla scala provinciale denunciava il forte impulso a una nuova presenza delle realtà locali nella vita pubblica, i fenomeni a cui ora ci si riferiva nella più articolata documentazione statistica che si presentava erano scelti in quanto «indicativi di aspetti qualificanti delle condizioni di vita e di attività delle popolazioni meridionali» (e si andava, infatti, dallo spopolamento montano alla vetustà del patrimonio immobiliare, dalla distribuzione delle nuove forme di vendita al dettaglio all’attività degli uffici postali e al movimento dei fidi bancari, e così via). Per di più, la grossa mole delle statistiche del volume era preceduta da una introduzione (Il Mezzogiorno che cambia: un quarto di secolo in cifre), già essa stessa ampia (24 pagine), che offre tuttora uno dei quadri migliori del Mezzogiorno di allora nei suoi aspetti statistici, e che concludeva con un’osservazione fondamentale e troppo spesso, e tuttora, ignorata nelle discussioni sul Mezzogiorno, i cui indici risultavano superiori a quelli del Centro-Nord, ma senza evitare che «i progressi conseguiti si [rivelassero] sufficienti a colmare i preesistenti divari con le regioni centro-settentrionali».


5. La parte di Saraceno

Gli anni ’50 segnarono, quindi, davvero per la SVIMEZ, l’età della prima e fiorente giovinezza, e lungo le linee allora segnate ci si sarebbe mossi in tutto il periodo posteriore. Non sorprende che alla fine di quel decennio, dal 1958, e poi fino al 1968, l’associazione potesse varare, insieme con la Ford Foundation, una Scuola sullo sviluppo economico, così come in seguito avrebbe varato, insieme con l’IRI, il FORMEZ quale scuola e centro di formazione di quadri e di dirigenti ai fini di un sostegno quanto mai opportuno da dare alle attività della Cassa per il Mezzogiorno e alla gestione dell’intervento straordinario per lo stesso Mezzogiorno. Ulteriori potenziamenti dell’azione della SVIMEZ sul piano della comunicazione pubblicistica e delle sue attività di studio sarebbero state poi la pubblicazione di una rivista economica e di una rivista giuridica, e, dal 1974, la presentazione di un rapporto annuale sull’economia meridionale. Tutti arricchimenti di una realtà operativa non solo collaudata alla luce di un monitoraggio statistico sempre più articolato e raffinato, ma anche via via più strutturata, in vista dei sempre più ampi compiti fissati alla sua attività, mediante una evoluzione organizzativa attenta e mai precipitosa, ma sensibile e tale da consentire la graduale espansione dei mezzi finanziari a sua disposizione per l’ampliamento dei compiti dei suoi uffici e per le sue cresciute e crescenti iniziative.
Sempre negli stessi anni ’50 non poche furono le perdite di protagonisti dei primi anni della SVIMEZ, da Rodolfo Moranti a Giorgio Ceriani Sebregondi, da Alessandro Molinari a Francesco Giordani. Nello stesso tempo si consolidava il ruolo di Pasquale Saraceno, alla cui insegna l’associazione svolse la sua attività nel trentennio 1960-1990, e non si trattò di una insegna pallida o statica.
Saraceno aveva maturato, sul Mezzogiorno, una riflessione di grande complessità, che aveva la sua base di partenza in una visione storica approfondita del problema, sancita nell’ammirevole saggio del 1961 sulla mancata unificazione economica dell’Italia a cento anni dall’unificazione politica: un saggio rispetto al quale erano, e sono, possibili varie riserve, ma che, pur nel grande progresso degli studi in materia, mantiene non pochi motivi di validità e che, soprattutto, aveva il pregio di dare alla politica meridionalistica il background temporale indispensabile a un’azione di grande respiro economico e sociale come quella a cui si ambiva con tale politica. Maturò su questa base una rappresentazione molto aggiornata e moderna del “dualismo italiano”, che fino ad allora era stato teorizzato in termini piuttosto schematici e rigidi e che avrebbe trovato poi in una studiosa inglese, Vera Lutz, una interpretazione particolarmente sagace, benché troppo presto accantonata nell’attenzione degli studiosi.
Del pensiero e dell’opera di Saraceno bisogna, però, ricordare qualche altro elemento, solitamente ignorato o trascurato. E, cioè, che per lui il problema del Mezzogiorno andava posto in rapporto ai fini e ai valori ai quali la politica meridionalistica doveva essere ispirata, in rapporto al nobile assillo di un costante interrogarsi sul quo vadis? di quella politica. Era questa preoccupazione altamente e finemente etica a ispirare Saraceno e a dare alla sua attività una componente suggestiva che era impossibile non avvertire e non tenere in conto, in qualche modo. Quando nel 1970 Saraceno successe nella presidenza a Giuseppe Cenzato, altro protagonista originario della SVIMEZ, scomparso l’anno prima, la sua impronta si fece ancor più evidente; e si può dire senza tema di esagerare che, in maniera e misura assai varie, ne furono impregnati tutti i più giovani militanti della SVIMEZ e suoi soldati sul campo, anche quando ne uscirono o lavorarono soltanto in organismi ad essa collaterali: da Giuseppe De Rita a Nino Novacco, da Gian Giacomo Dell’Angelo a Massimo Annesi, da Salvatore Cafiero a Sergio Zoppi e ad altri. Ed ecco perché la novità non solo di quello di Saraceno, ma dell’intero lavoro della SVIMEZ non può essere vista soltanto, come si suole ripetere, in un approccio statistico-economico diverso da quello, definito storico-politico, del cosiddetto “meridionalismo classico”: il vecchio meridionalismo era nutrito di economia e di statistica pur esso (si pensi anche soltanto a Nitti, per non parlare di innumerevoli studi sull’emigrazione, la proprietà agraria, l’agricoltura, la demografia, la sanità etc.), mentre il nuovo meridionalismo si nutriva di storia e aveva un animus politico non meno del precedente. La differenza fra i due era nel sopra indicato riferimento a un quadro generale molto più ampio del quadro nazionale e alle più recenti esperienze e dottrine economiche e sociali dopo le vicende degli anni ’20 e, soprattutto, degli anni ’30 del ’900.


6. La SVIMEZ e gli anni ’60

Mentre tutto ciò accadeva, già gli anni ’60 si erano aperti in Italia (ma non solo in Italia) all’insegna di una situazione del tutto mutata rispetto a quella che aveva visto nascere la SVIMEZ. L’Italia aveva varcato decisamente la soglia della modernizzazione, trasformandosi in un paese a dominante caratterizzazione industriale, e si andava collocando nel gruppo dei dieci paesi più avanzati del mondo. Sulla scena politica il centro-sinistra aveva soppiantato l’alleanza centrista del quindicennio precedente. Si annunciavano riforme istituzionali di primario rilievo, come quella della istituzione delle Regioni a statuto ordinario. Si delineava appieno la fisionomia dello Stato sociale e cresceva il ruolo dei sindacati nella vita pubblica. L‘intervento pubblico nell’economia assumeva un alquanto più accentuato spessore. I partiti operavano una mobilitazione e favorivano una partecipazione alla vita pubblica senza precedenti in Italia. Essi si insediavano, però, nelle sedi del potere pubblico e nella vita sociale non solo di più, ma in maniera progressivamente incongrua rispetto alle esigenze di una società più aperta e più libera come quella che era maturata in Italia negli anni del “miracolo”, e che continuava a maturare anche grazie, proprio, all’opera degli stessi partiti. Nell’azione di questi ultimi si manifestava così una contraddizione che solo in seguito, ingrossata e divenuta quasi esplosiva, sarebbe stata percepita in tutta la sua portata: i partiti sollecitavano, favorivano e accompagnavano la crescita della società, ma la società cresceva anche per vie sue proprie e, crescendo, diveniva sempre meno paziente del ruolo dei partiti, della loro presenza fuori dell’ambito strettamente politico, dell’arroganza del potere a cui spesso essi davano luogo, pur rimanendo ad essi in gran parte debitrice di quella crescita e pur non smettendo di appellarsi e di aprirsi ad essi.
Nella SVIMEZ l’adattamento a queste nuove condizioni non fu del tutto facile e immediato. Aperte riserve furono formulate su punti come quello, storicamente molto rilevante, della soppressione delle “zone salariali” nel trattamento retributivo del lavoro, effettuata, a parere della SVIMEZ, senza corrispettivi compensativi della funzione che le “zone” esercitavano nel mercato del lavoro in un paese a struttura dualistica, com’era l’Italia. Ancora maggiori furono le riserve verso le nascenti Regioni, delle quali si paventava soprattutto che la dimensione economico-territoriale non fosse congrua rispetto a quella congeniale ai livelli propri delle iniziative davvero strategiche in un’economia internazionale ormai in marcia verso la cosiddetta globalizzazione. Naturalmente, il problema regionale non poteva essere considerato solo in questa ottica, e la questione, certamente oggettiva, delle dimensioni territoriali dell’iniziativa economica poteva e doveva essere superata per altre vie. Sta, tuttavia, il fatto che non furono pochi quelli che poi rividero – e non solo su questo terreno – i loro iniziali entusiasmi regionalistici.
Riserve e divergenze non impedirono, peraltro, che la SVIMEZ continuasse a svolgere in maniera intensa ed efficace i compiti che aveva delineato per sé nel suo primo decennio e che andava progressivamente aggiornando. Attraverso un impegno diretto di Saraceno nella Cassa per il Mezzogiorno, in stretta collaborazione col presidente della stessa Cassa, Gabriele Pescatore, si ebbe, anzi, un’accentuazione della influenza dell’associazione sulla prima linea dell’attuazione delle strategie meridionalistiche del tempo: il tempo – va sottolineato – che vide il passaggio all’intervento per l’ubicazione nel Mezzogiorno di grandi impianti industriali nella siderurgia, nella chimica, in qualche settore manifatturiero. La stessa fase vide pure un più stretto raccordo fra la SVIMEZ e l’azione di meridionalisti come Rossi-Doria e Compagna: un raccordo a sua volta da notare per i ruoli parlamentari (e per Compagna anche di governo) di queste due notevoli personalità negli anni ’70.


7. Il segno degli anni ’70

Sullo sfondo, peraltro, di allora si configurò, come è noto, a sua volta, il lungo periodo di gravi difficoltà dovute, da un lato, alla crisi energetica per le vicende della produzione petrolifera e alle sue conseguenze sull’economia mondiale e, in particolare, europea; e dovute, dall’altra parte, a un drammatico inasprirsi della lotta politica e sociale (si ricordi “l’autunno caldo” del 1969) e al movimento definito della “contestazione”, sfociata poi negli “anni di piombo”. Furono pure gli anni del completamento della decolonizzazione, di una rapida diffusione del movimento femminista, di un non superficiale alterarsi di equilibri tradizionali all’interno di un po’ tutti i paesi e sulla scena internazionale. In Italia l’assassinio di Aldo Moro ebbe un impatto particolarmente significativo per le vicende della politica nazionale, determinando, fra l’altro, il breve intervallo della “solidarietà” nazionale, mentre alla fine del decennio ’70 l’economia del paese si trovava in tanto affanno da tradursi in una inflazione che giunse a superare il livello del 20% annuo. Da questa crisi si uscì poi negli anni ’80 con un nuovo equilibrio di governo, con il superamento dell’inflazione, con un nuovo slancio della vita nazionale.
Gli anni ’70 avevano, tuttavia, lasciato il segno. Per il Mezzogiorno si profilò allora quella negazione non solo della “politica speciale” che lo riguardava, ma della stessa “questione” che da esso prendeva il nome, nonché della legittimità e utilità di una sua considerazione particolare. A sostenere questo mutamento di clima, oltre a elementi più generali, valse certamente lo scarso effetto che da ogni parte si denunciava degli sforzi sostenuti con la “politica speciale”. Le distanze tra le due parti del paese ne apparivano solo marginalmente intaccate. Le grandi iniziative degli anni ’70 si chiudevano troppe volte con esiti infausti, e si parlava del Sud come di un cimitero di grandi opere e di un paese di “cattedrali nel deserto”. Simbolo ne fu, in particolare, lo spettacolo finale del fallito tentativo di impiantare un nuovo centro siderurgico in Calabria.
In effetti, poco o niente si ebbe di quel circuito economico virtuoso, che ci si aspettava di vedere indotto nel Mezzogiorno dalla politica delle infrastrutture, degli incentivi, delle “cattedrali” e di altri aspetti dell’intervento straordinario. Per converso, era possibile osservare un progressivo decadere di questo intervento sia sul piano di un assistenzialismo individuale e di massa, clientelare e profondamente diseducativo, sia sul piano di una sua riduzione a strumento della penetrazione e del dominio dei partiti nella società. Il discredito che ne derivò ai politici, agli amministratori e all’intera classe dirigente meridionale fu sensibile, accrescendo oltremisura pregiudizi tradizionali, non sempre fondati, e senza badare a quanto della politica per il Mezzogiorno era rifluito e rifluiva al Nord in termini di incentivi finanziari e di occasioni di lavoro per aziende settentrionali operanti sia al Nord che al Sud.
La stessa Cassa per il Mezzogiorno fu, in un tale contesto, largamente deteriorata e strumentalizzata; e anche per questa ragione già alla fine degli anni ’70 alcuni cominciarono a ritenere che la “politica speciale” avesse dato ormai tutto ciò, o il meglio di ciò, che poteva dare e ad auspicare che perciò si liquidasse sia il criterio della “politica speciale” che il suo strumentario, Cassa compresa. A costoro appariva preferibile, ormai, una considerazione specifica delle esigenze del Mezzogiorno nel quadro delle politiche nazionali di settore e di indirizzo generale. Una delle ragioni tempestivamente denunciata dello scarso effetto della “politica speciale” era, infatti, anche dovuta, da un lato, al carattere sempre più spesso sostitutivo, anziché aggiuntivo, della spesa pubblica straordinaria rispetto a quella ordinaria nel e per il Mezzogiorno; e, dall’altro lato, come soprattutto Saraceno ebbe a dimostrare, alla finale marginalità della spesa direttamente destinata a investimenti produttivi sul totale della spesa ordinaria e straordinaria per il Mezzogiorno. In altri termini, “politica speciale” e intervento straordinario si erano largamente tradotti in una sorta di ghettizzazione dei problemi meridionali rispetto alla più generale gestione della politica economica e finanziaria del paese; erano in gran parte diventati tradotti una sorta di grosso ammortizzatore sociale, utile soprattutto alla gestione del consenso nell’ordine costituito della realtà economica e sociale del paese.
La spesa per il Mezzogiorno appariva, perciò, in questa ottica ostile e negatrice, una spesa enorme e crescente, una sorta di pozzo senza fondo, che finiva con l’alimentare soltanto il parassitismo e il clientelismo meridionale, e un regno del malaffare che si giudicava anch’esso cresciuto negli anni intorno a quella spesa. Inoltre, e sempre negli stessi anni ’70, e ancor più nel decennio seguente, si ebbero il finale confluire delle attività della malavita organizzata nel nuovo ed enormemente vantaggioso campo offerto dal traffico della droga, e il suo espandersi, via via, dalle regioni originarie (Sicilia, Campania, Calabria) a varie altre parti del Mezzogiorno (e anche al di fuori di esso). Questo cancro non solo inquinava spesso il mondo politico e la stessa pubblica amministrazione, ma causava un peggioramento dell’immagine del Sud perfino nell’immaginario collettivo, con effetti profondamente negativi anche sul clima politico del paese. Il terremoto del 1980 fu, a sua volta, un ulteriore motivo di discredito della spesa per il Mezzogiorno e della credibilità sia di una qualsiasi politica meridionalistica, sia – è appena il caso di ricordarlo – della classe politica e delle classi dirigenti meridionali.


8. La liquidazione dell’intervento straordinario, la «Seconda Repubblica» e il nuovo attore europeo

In considerazione di tutto ciò – anche se il giudizio negativo andava in qualche misura al di là della realtà dei fatti – sarebbe stato probabilmente opportuno procedere a un tempestivo superamento della “politica speciale”, non esclusa la Cassa, e a una revisione degli stessi fondamenti concettuali del meridionalismo, così come, d’altronde, si era fatto al ritorno del paese alla libertà e alla pace. Ciò avrebbe evitato, forse, la frettolosa liquidazione, a cui pure si dové giungere alla fine degli anni ’80, della Cassa e dell’impianto che appariva più consolidato dell’intervento straordinario. Per giunta, a ridosso di questa liquidazione si produsse quel profondo sconvolgimento che, per vie quasi soltanto giudiziarie (da cui non furono toccati, peraltro, gli uomini e gli istituti dell’intervento straordinario), mutarono radicalmente le condizioni del gioco politico in Italia e si prese a parlare dell’avvento di una “seconda Repubblica”. Si parlò pure di una “questione settentrionale”, ritenuta in legittima contrapposizione alla vecchia e negativa “questione meridionale”, e si accrebbe così la confusione delle lingue e il misconoscimento dei termini reali del problema meridionale quale si configurava a quasi mezzo secolo, ormai, dalla fine della guerra e dopo la così profonda trasformazione del paese che si era avuta nell’Italia dagli anni del “miracolo” in poi. Questa trasformazione era proseguita ininterrotta anche negli anni più difficili della congiuntura politica ed economica che nel frattempo si erano dovuti registrare, e aveva fatto dell’Italia un paese ormai saldamente ancorato alla punta avanzata del mondo contemporaneo, e anche con i problemi emergenti della società da molti alquanto approssimativamente definita come post-industriale o come post-moderna. Sicché anche le condizioni più immediate e di dettaglio in cui si doveva parlare della realtà e dei problemi del Mezzogiorno apparivano ed erano tanto profondamente diverse da quelle di appena qualche decennio prima da determinare in molti l’impressione come di una evanescenza di quella realtà e di quei problemi.
Si aggiungano, poi, il progresso decisivo che si è avuto nella unificazione ormai, non più solo integrazione, europea durante gli anni ’90 e i suoi sviluppi negli anni successivi, che hanno determinato, a loro volta, un nuovo quadro generale della considerazione dei problemi delle nazioni europee. Da questo quadro hanno subito cominciato a essere condizionate in maniera determinante tutte le discussioni e azioni relative a singoli problemi nazionali, per rilevanti che, come quello italiano del Mezzogiorno, possano essere. Al livello europeo è toccata addirittura la gestione di una parte consistente delle risorse disponibili per politiche di sviluppo come quelle a cui è primariamente interessato il Mezzogiorno, onde è anche con questo nuovo, e già forte, attore che dall’inizio degli anni ’90 bisogna fare i conti sul piano meridionalistico. Un attore, per giunta, non statico. L’allargamento dell’Unione Europa ha comportato, come si sa, la presenza sulla scena delle politiche europee di sviluppo di paesi in condizioni perfino più bisognose di tali politiche di quanto non sia, e a noi non appaia, il Mezzogiorno.


9. Le mutazioni degli anni ’90 e il persistente dualismo italiano

Il mutamento su questo piano si è, inoltre, prodotto contemporaneamente al momento in cui sul piano interno si ponevano problemi di natura e dimensione fuori del comune in materia di finanze nazionali e di obblighi monetari e finanziari imposti dallo sviluppo delle istituzioni e dei vincoli europei. Il rientro nella soglia fissata dagli organi comunitari per il rapporto tra deficit dei bilanci statali ed entità del prodotto interno lordo ha rappresentato l’aspetto più divulgato e conosciuto dei problemi finanziari nazionali. È stato, però, tutt’altro che il solo. L’avvento della moneta unica europea non ha avuto minore importanza e non ha comportato difficoltà minori. E svariati altri problemi sono stati determinati dalla moltiplicazione (per qualche verso eccessiva) delle direttive europee, che ha provocato tutta una nuova rete di elementi, dalla quale il Mezzogiorno è particolarmente condizionato, in aggiunta al peso specifico che per esso hanno significato le necessità europee in materia finanziaria e monetaria.
Così, le mutazioni degli anni ’90 sono state vissute dal Mezzogiorno nelle condizioni peggiori possibili, in conseguenza, indubbiamente, di responsabilità gravi al suo interno, e innanzitutto della sua classe politico-amministrativa e delle sue classi dirigenti, ma anche in concomitanza con circostanze esterne non tutte prevedibili, e in presenza di reazioni nazionali allo stato della famosa “questione” comprensibili, ma non sempre, né in tutto giustificate. E il disorientamento e le difficoltà sono stati forti nel Sud di questi anni, che hanno visto un calo sensibile di occupazione e di redditi, e perfino di attrezzature, portando, fra l’altro, a un naufragio del sistema creditizio meridionale, che in pochi anni è passato in mani centro-settentrionali e ha fatto poi sentire, fuori tempo, il bisogno di un istituto meridionale in grado di assicurare il desiderabile rapporto “naturale” fra banca e territorio.
Se tutto questo basti a giustificare il passaggio a una emarginazione dell’interesse per il Mezzogiorno o una negazione della sua specifica problematica è materia che ci sembra prestarsi ben poco a discussione. Il persistere del dualismo italiano – statistiche alla mano – è indiscutibile, così come il carattere complessivo che conservano i problemi meridionali di modernizzazione e di sviluppo nell’area del Mezzogiorno. Paradossalmente, lo conferma perfino la diversa incidenza al Nord (più forte) e al Sud (meno forte) dell’immigrazione extra-comunitaria ed extra-europea: e a che cosa è dovuta questa diversa incidenza, se non alle ben più consistenti esigenze e possibilità di lavoro offerte dal Nord rispetto al Sud? E parliamo, come si sa, di uno dei fenomeni più caratteristici e più notevoli della nostra fase storica.


10. Qualche punto da ricordare

Certo, né il dualismo, né questo carattere complessivo si propongono, dopo sessant’anni di storia repubblicana, negli stessi termini che all’inizio di tale storia. Ma chi ha mai seriamente sostenuto che ci sia un Mezzogiorno immutato e immobile? Chi ha mai sostenuto che il Mezzogiorno – indiscutibile realtà complessiva di alcune regioni italiane – sia anche una realtà indifferenziata, inarticolata, a pari velocità e tendenza al suo interno? Chi ha mai negato che, parlando di un problema complessivo del Mezzogiorno, non si nega affatto, e si inquadra, anzi, nel modo migliore e più proprio, la pluralità dei problemi meridionali nella molto varia articolazione territoriale della molteplice realtà meridionale?
Tutta l’Italia è mutata, ed è mutata profondamente in un quadro internazionale del tutto diverso da quello di sessant’anni fa, e il Mezzogiorno è mutato insieme con l’Italia, ma l’equilibrio interno del paese, per quanto riguarda il Mezzogiorno, ne è stato ben poco scosso o alterato. Si faccia solo un caso: quello delle province abruzzesi, che, si dice, sono ormai fuori della condizione meridionale, tanto è vero che non rientrano più nelle condizioni per godere dei fondi europei per lo sviluppo o per fini connessi. Ma le punte più alte fatte registrare dalle condizioni delle province abruzzesi rispetto alle altre province meridionali non tolgono che gli Abruzzi si ritrovino a un livello statistico inferiore di alcuni punti rispetto a quello delle province centro-settentrionali in meno favorevoli condizioni. Certo, è un dato statistico, ma chi può mai pensare che quelli della statistica siano puri e semplici numeri, e basta?
Insomma, si può dire, se si vuole, ed è stato, infatti, detto, che per il Mezzogiorno non convenga più parlare di una “questione”, come si faceva un tempo, ma è impossibile non continuare a parlarne come di un “problema aperto”, la cui effettività e la cui dimensione meritano un’attenzione e un impegno non minori di prima. E la variazione terminologica può essere in questo caso opportuna perché dà il senso sia di una realtà che non è rimasta immutata, sia della sua permanenza a livello strutturale nell’economia e nella società.
Anche quando si parla – e lo si fa da un po’ di tempo più spesso – di una “questione settentrionale” più effettiva e importante di quella meridionale, si va troppo sopra le righe. È vero che oggi del Nord non si parla più come se ne parlava fra gli anni ’80 e ’90. Allora se ne parlava come di una parte del paese sottoposta a un sacrificio costoso e improduttivo per sostenere l’altra dormiente e parassitaria parte dello stesso paese. Oggi se ne parla come di una parte del paese che ha profonde necessità di rinnovamento e di potenziamento delle sue infrastrutture prima e più del Mezzogiorno; e in questa rivendicazione non si può disconoscere un motivo di validità. Sia chiaro, tuttavia, che i problemi del Nord, alla cui soluzione il Sud è vitalmente interessato, sono, per usare termini della SVIMEZ, problemi di sviluppo ulteriore e, per qualche aspetto, addirittura problemi derivanti da un eccesso di sviluppo. Quelli del Mezzogiorno hanno una loro fisionomia storico-strutturale ben diversa.
È un po’ il caso inverso del problema posto dalla diffusione della violenza. Sono parecchi i meridionali che fanno presente come anche il Nord sia afflitto da fenomeni cospicui di violenza, con l’aria di insinuare che non c’è, quindi, sostanziale differenza, al riguardo, tra le due parti del paese; e si trascura così la differenza profonda che corre, evidentemente, fra la violenza metropolitana nelle grandi città del mondo odierno e nelle loro aree suburbane e la violenza che fiorisce come espressione di una forte diffusione e penetrazione di malavita organizzata nella quotidianità delle città e delle aree ad esse legate o connesse.


11. Il mutamento politico-sociale e il riformismo liberal-democratico

Quasi mai si parla, invece, pur in tanta esaltazione del mutamento, di come sia cambiato il panorama politico-sociale del problema meridionale. Negli anni in cui nasceva la SVIMEZ era chiaro il fronte sociale di maggiore impegno e di lotta, il fronte sociale più determinante per una trasformazione del Sud. L’opposizione tra baroni e contadini dominava, infatti, l’orizzonte sociale nella maggior parte del Mezzogiorno, e la grande proprietà latifondistica e la possidenza parassitaria di una borghesia redditiera e professionistica erano chiaramente gli avversari innanzitutto da battere. Tra gli anni ’50 e gli anni ’60 questo obiettivo era stato sostanzialmente e definitivamente conseguito. Il panorama sociale del Mezzogiorno mutò poi rapidamente e profondamente nei decennii successivi e portò a un paesaggio umano in cui era diventato sempre più difficile ravvisare, se non i nemici di classe, come si diceva una volta, almeno gli oppositori più evidenti e influenti dell’azione auspicabile per il Sud. Né con gli anni questa difficoltà sociologica si è ridotta. È, anzi, diventata sempre più anch’essa una testimonianza eloquente sia dei mutamenti, sia della permanente difficoltà del Mezzogiorno a trovare le vie di una dialettica sociale da grande società moderna. Sempre più evidentemente è diventata un nemico prioritario la malavita organizzata. Restano nemici evidenti della causa meridionale i corporativismi, i localismi, gli assistenzialismi più o meno clientelari, le tendenze monopolistiche o semimonopolistiche nella produzione e negli scambi, le rendite di posizione e funzionali della intermediazione commerciale e, soprattutto, finanziaria e bancaria (e con quest’ultima i suoi, oggi più diffusi, surrogati usurari) …. Una elencazione che potrebbe agevolmente proseguire, ma che vale, anche solo così, per il suo generale, complessivo valore esemplificativo.
Una elencazione, inoltre, che rinvia al metodo politico più conforme alle esigenze della causa meridionale e lo conferma in quello di un riformismo, che si neghi con decisione a ogni considerazione banalmente classistica, ma non ignori il gioco concreto dei grandi e piccoli interessi che la politica non può e non deve ignorare, se vuole essere concreta e robusta non solo sul terreno degli ideali, ma anche su quello dei suoi svolgimenti. Perché – ed è un corollario che è necessario enunciare almeno una volta in linea di principio – il Mezzogiorno richiede tutta la forza etico-politica di una grande causa nazionale e, ormai, anche europea; e richiede tutto il concretiamo (si diceva così una volta) di una grande forza storica che individua e impone e realizza i suoi grandi obiettivi. Perciò si è potuto sperimentare più che a sufficienza che il riformismo liberal-social-democratico è il piano politico più conforme, a parte le sue ragioni ideali, alle esigenze del Sud; e che più nel passato è stato forte questo riformismo, maggiori e più positive sono state le trasformazioni del Mezzogiorno. E perciò si è potuto anche sperimentare quanto siano da sentire e da sottolineare le responsabilità della classe politica meridionale, che nel grande terremoto degli anni ’90 è di molto cambiata nella sua composizione fisica, ma non si saprebbe dire se sia altrettanto cambiata sotto altri e più importanti punti di vista, e ha fatto e fa sentire più viva la sensazione che il crollo del precedente assetto politico e dei vecchi partiti contemporaneamente registratosi anche al Sud abbia lasciato per più versi un vuoto, non ben riempito nell’assetto politico successivo.


12. Una seconda giovinezza e nuove battaglie

Un grande sconvolgimento, dunque, e comunque, quello intervenuto nel Sud in sessant’anni, dal 1946 a oggi. E la SVIMEZ? Non credo di dire troppo osservando che essa ha vissuto nell’ultimo quindicennio come una sorta di seconda giovinezza, combattendo più battaglie insieme, con uomini che, come Annesi e, in particolare, come Cafiero e Novacco, avevano fatto la gavetta – per così dire – nell’associazione quasi fin dai suoi primi anni.
La prima e maggiore battaglia è stata necessaria sul fronte di quella negazione della sussistenza di un problema del Mezzogiorno, a cui abbiamo accennato, che assumeva forme diverse, ma concorrenti nella ripulsa del problema. Si dissolveva il concetto stesso di Mezzogiorno, perfino sul terreno storico: il Mezzogiorno non c’era, e non c’era mai stato. Nell’ipotesi migliore, c’erano molti Mezzogiorno, che non facevano un’unica questione e non rappresentavano una realtà complessiva. La questione meridionale era superata perché il Mezzogiorno aveva varcato le soglie dello sviluppo o aveva, comunque, trovato la sua strada, pur se potevano persistervi sacche in altre condizioni. Il Mezzogiorno doveva essere considerato come qualsiasi altro “pezzo di mondo” e non si poteva presumere che esso presentasse una qualsiasi specificità strutturale o problematica, e tanto meno una specificità complessiva. La politica dell’intervento straordinario veniva condannata in blocco, con tutti suoi strumenti e le sue articolazioni operative, e peggio ancora toccava al meridionalismo, che si riteneva avesse nuociuto, non giovato al Mezzogiorno, e veniva drasticamente declassato da aspetto tra i più importanti della cultura politica e civile del paese a querimonia infondata o interessata o a una errata lettura della realtà, e perfino a una pretestuosa invenzione dei meridionalisti o dei politici meridionali.
Questi e altri simili, deteriori e fuorvianti giudizi, diventati ben presto luoghi comuni del dibattito culturale e politico e spregiudicatamente utilizzati nella dialettica legata al nuovo assetto politico del paese, sono stati adeguatamente combattuti dalla SVIMEZ, che, con pochissimi intellettuali e altri centri politici e culturali, ha mantenuto fermo il criterio enunciato nella citata premessa al volume statistico del 1978, riconoscendo i progressi e i mutamenti visibili nel Mezzogiorno agli inizi del XXI secolo, ma sottolineando le differenze e i divari, immutati o quasi, che obbligavano a parlare di una persistenza del dualismo italiano. Ovvio era, pure, che la SVIMEZ respingesse la valutazione negativa non solo e non tanto della tradizione meridionalistica, che era costituzionalmente la sua, quanto la negazione della “politica speciale” e l’invalidazione dei risultati che essa aveva indiscutibilmente conseguito, specialmente nei suoi primi dieci o quindici anni, pur nei tratti molto negativi del suo bilancio finale, di cui abbiamo detto.
La seconda battaglia è stata, ed è, quella più protesa all’azione per il Mezzogiorno nel quadro delle mutate condizioni politiche del paese. Specialità, coesione, federalismo, straordinarietà, localismo e altre simili tematiche con le loro implicazioni e i loro nessi con altre, più particolari o più generali, questioni hanno costituito perciò un fronte assai impegnativo di riflessione e di discussione, sul quale la SVIMEZ si è distinta per assiduità di presenza e per la pertinenza – anche per chi non dovesse condividerle – delle ragioni che essa ha fatto e fa valere.
Il punto più delicato non è tanto, qui, quello del carattere addizionale che un impegno per il Mezzogiorno deve avere nell’azione e nelle risorse destinate al Mezzogiorno quanto, ancora una volta, il punto dei fini da proporsi a riguardo di tali risorse e azione. E una tale questione implica, a sua volta, una definizione duttile, funzionale, tutt’altro che rigida e univoca, ma anche chiara e congruente alla realtà e alla portata del problema. Si ha, invece, – in primo luogo – l’impressione che spesso le linee operative proposte – in primo luogo – siano innovative solo sul piano della terminologia. Aree deboli, fiscalità di vantaggio, federalismo solidale, politiche di coesione e simili altre espressioni, che costituiscono una sorta di hard core terminologico del dibattito e dell’azione odierna per il Mezzogiorno, rappresentano davvero un progresso e un mutamento sostanziali rispetto allo strumentario concettuale del periodo precedente? Fino a qual punto sotto i termini nuovi non continua ad agire, anche se con margini più o meno significativi di variazione, il patrimonio di idee e di criteri di azione dei decennii precedenti? Fino a qual punto le nuove agenzie, istituti, enti, società o altro che viene proposto e praticato per attuare quanto si intende fare per il Sud non sono che trasformazioni parziali, e in più di un caso solo di facciata o di nome, e neppure migliorative, di ciò a cui era consueto pensare ai tempi del deprecato meridionalismo passato?
Su questo fronte la SVIMEZ si è, dunque, ugualmente impegnata, e anche la presentazione del suo ultimo Rapporto annuale sull’economia meridionale, quello per il 2005, ha costituito un’occasione il cui significato a tale riguardo non è passato inosservato. E non si tratta, naturalmente, in nessun modo di disconoscere quel che di nuovo o anche le semplici variazioni in meglio che possono essere registrate nel più recente governo economico, politico, amministrativo del problema meridionale. Si tratta solo di acquisire la più precisa e propria nozione e consapevolezza di ciò che si fa: condizione indispensabile, come si sa, perché l’azione riesca pertinente e feconda.




NOTE



* Il testo qui presentato è la versione integrale del discorso tenuto dall’autore per la ricorrenza del 60° anniversario della SVIMEZ, ricordato alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in Roma, presso la Biblioteca Nazionale in Castro Pretorio, il 12 dicembre 2006, dopo un’introduzione svolta dall’attuale presidente della SVIMEZ Domenico Novacco. ^
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