Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XII - n. 3 > Rendiconti > Pag. 284
 
 
Tra cavourismo e bismarckismo
di Anna Maria Voci
Non si può dire che la letteratura storica dagli anni ’70 del secolo XIX sino ad oggi sia ricca di studi monografici che mettono a confronto i due statisti, principali artefici delle due «nazioni giunte in ritardo all’unificazione» («verspätete Nationen»). Nella ricognizione di questa bibliografia salta, inoltre, all’occhio che, accanto a qualche studio ottocentesco in lingua italiana (Ruggiero Bonghi, 1879, e Filippo Mariotti, 1886), e in francese (Vincent Benedetti, 1896, e H.N. Reyntiens, 1874), e a qualche lavoro del primo Novecento di storici anglofoni (William Roscoe Thayer, 1906, e Edward Cadogan, 1905), il primo, peraltro breve, saggio monografico tedesco su questo tema, a parte la traduzione in tedesco del lavoro di Mariotti, uscita ad Amburgo nel 1888, risale solo agli anni ’30 del secolo XX1. Fino al 1945 una spiegazione può essere data dal fatto che la figura di Cavour fu “schiacciata” da quella del Cancelliere ad opera di una storiografia dai marcati caratteri borussici, “neu-reichsdeutsch”, che in massima parte (con qualche eccezione, ad esempio Erich Eyck) esaltò, e spesso anche nel modo più acritico, la figura del “gigante” Bismarck.
Il breve saggio monografico tedesco di cui si diceva è dovuto alla penna non di uno storico, ma di un diplomatico: Ulrich von Hassell. Il 27 marzo 1936 questi tenne una conferenza a Roma, in italiano, nella Bibliotheca Hertziana, sul tema Cavour e Bismarck. Il 17 aprile seguente lesse di nuovo il testo di questa conferenza a Milano, presso il Conservatorio di Musica, e lo pubblicò prima nella Nuova Antologia, poi, in versione tedesca a Lipsia, presso l’editore Keller nel 1936 (ristampa:
1937)2.
Il libro di Gian Enrico Rusconi (Cavour e Bismarck. Due leader fra liberalismo e cesarismo, Bologna, il Mulino, 2011, 212 pp.), che è uscito tra le due ricorrenze del bicentenario della nascita di Cavour e del centocinquantesimo anniversario dell’unità italiana, riprende, pertanto, un argomento sorprendentemente poco trattato, o, quanto meno, poco approfondito da studi monografici, in particolare italiani e tedeschi.
Questo libro è un’agile e ben leggibile sintesi, fondata sullo studio e l’interpretazione critica di numerose fonti edite, dei caratteri di due personalità, di due concezioni politiche, di due prassi di governo molto diverse. Di solito gli storici esprimono tale diversità usando i due sostantivi “liberalismo” e “autoritarismo”3. Rusconi riprende il primo, ma, come salta subito all’occhio dal sottotitolo del libro, preferisce servirsi, quanto al secondo, di un altro termine: il “cesarismo”. In realtà quest’ultima classificazione è usata, poi, dall’Autore, nel suo libro, con molta, molta cautela. E, a mio giudizio, a ragione.
Secondo Rusconi la pubblicistica politica apparsa fra la metà del secolo XIX fin verso il 1870 non sbaglia a individuare forme di cesarismo in fenomeni politici strutturalmente differenti come il bonapartismo francese […] il cavourismo italiano e il bismarckismo tedesco. […] Sia Cavour sia Bismarck sono riconosciuti come grandi Realpolitiker, accomunati nello stile decisionale, nelle tecniche comunicative, nelle strategie d’azione verso avversari e alleati politici esterni ed interni, pur sulla base di culture politiche apparentemente incompatibili: in linea di principio liberale quella cavouriana e illiberale quella bismarckiana». (pp. 19-20).
In cosa consisterebbe, allora, il cesarismo di Cavour, o la forma di cesarismo nel fenomeno del cavourismo? Sostanzialmente nella «dittatura parlamentare» da Cavour temporaneamente esercitata (e basata sull’«autorevolezza della sua leadership») in situazioni di emergenza durante il biennio cruciale 1859-1860, come notarono osservatori sia italiani che tedeschi del tempo (pp. 17-18, 172 e 186). In realtà, Rusconi subito dopo afferma che il cavourismo, proprio per la centralità sempre riconosciuta al Parlamento, e per il pieno consenso dato a Cavour dall’opinione pubblica borghese, è «qualcosa di più originale di una variante del cesarismo» (p. 18). Più avanti, però, riconosce non solo che la visione liberale di Cavour è contraria a qualunque forma di dittatura (p. 45), ma che classificare l’azione di governo di Cavour «come variante del cesarismo è insufficiente». Essa è, conclude giustamente, «cavourismo» (p. 38). Ma non cavourismo nel senso di cinismo e immoralismo, rimproveratogli dalla pubblicistica conservatrice, clericale e reazionaria tedesca dell’Ottocento (i fratelli Gerlach), che coniò quel termine e gli diede un’accezione ripresa, poi, pur se da una formazione culturale diversa, da qualche superficiale storico britannico del secolo XX. È il cavourismo come lo intendevano i nazional-liberali tedeschi, ad esempio gli storici Duncker, Sybel, Treitschke, un intreccio di Realpolitik e fede liberale; è Realpolitik sorretta da un’incrollabile fede nel valore superiore della libertà; è liberalismo che sa di potersi affermare solo se accompagnato da un sano realismo, o pragmatismo politico; è l’accettazione di compromessi spregiudicati e contingenti pur di far trionfare valori, insieme politici e morali, superiori e permanenti.
E Bismarck? Qui mi pare che le cose siano un po’ più complicate. Per questo spero che il lettore mi perdonerà se dedico a Bismarck molte più pagine che a Cavour. Le cose sono più complicate non naturalmente quanto al liberalismo di Bismarck. Egli non credeva né al liberalismo, né al Parlamento, né agli uomini. Bismarck credeva nella Monarchia, e in una Monarchia forte, nella potenza dello Stato, nella volontà di potenza del singolo, nell’uomo che «fa la storia», nella forza dei fatti che si impongono, se necessario anche brutalmente, alle idee. Bismarck era uno statista da Kabinettspolitik: questo fu compreso subito, nel 1866, da un suo convinto sostenitore, il liberale unitario Karl Hillebrand: «M. de Cavour était un ministre parlementaire, et M. de Bismarck est un ministre de cabinet»4. Ma Bismarck si trovò a vivere ed operare in un’epoca in cui tale modo di fare politica era superato, e dovette venire a patti con le nuove forze sociali e politiche della storia. Cercò di servirsene, ma, per perseguire i suoi fini dovette al tempo stesso cercare continuamente un compromesso. Il suo non fu “cesarismo”. Fu qualcos’altro, fu “bismarckismo”.
La complicanza sorge, a mio modo di vedere, quando, dal piano astratto delle aspirazioni di uno statista, e, poi, della definizione più o meno ampia e pertinente di uno studioso, si passa a esaminare in concreto, nelle sue realizzazioni, il cosiddetto “cesarismo” di Bismarck. Essa dipende dalla natura di tale concetto. In genere il cesarismo è considerato come un sistema di governo autoritario e fortemente accentrato, basantesi su una legittimazione popolare, su un’investitura plebiscitaria di un soggetto, primo e supremo depositario del potere. A tale concetto, in relazione a Bismarck, ha fatto talvolta ricorso la storiografia tedesca dopo il 1945 spinta da un bisogno comprensibile di «Traditionskritik», come si è espresso Ernst Schulin5.
Rusconi ritiene che cesarismo sia un «un concetto plurivalente» e «ambiguo», il quale «presuppone l’esistenza di una forte personalità che in qualche modo si appella direttamente al ‘popolo’ o alla ‘nazione’, modificando o rifunzionalizzando le istituzioni esistenti, siano esse di carattere democratico-parlamentare o monarchico-autoritario» (p. 19). Nel caso di Bismarck, e del suo sistema di potere e di governo, a me sembra che, se a lui è applicabile qualcosa di questa definizione, ciò sia, e solo parzialmente, la sua prima parte. Altrove Rusconi definisce il “cesarismo” di Bismarck «la capacità di gestire l’insieme delle istituzioni attraverso e al di là del suo semplice ruolo di presidente dei ministri» (p. 190). Se definito in questo modo, ben più ampio, ma anche più generico, mi pare si possa senz’altro convenire su questa accezione di “cesarismo” bismarckiano. C’è, però, da chiedersi, se tale definizione non finisca per sfumare troppo il termine “cesarismo” facendogli perdere la sua specificità. In altri termini: l’etichetta di “cesarismo” è applicabile a Bismarck solo al prezzo di dissolverne i connotati distintivi. Forse è più utile servirsi del termine «carisma», come rileva lo stesso Rusconi: «Il caso Bismarck offre l’esempio di una complessa e originale articolazione e costruzione di elementi tradizionali, burocratico-razionali e carismatici che si sviluppa anche nel tempo, nel corso della lunga carriera politica dello statista» (p. 185).
Rusconi non si sofferma molto sul primo periodo di governo di Bismarck (1862-1871), in relazione al quale alcuni storici tedeschi hanno parlato di “bonapartismo”, di una variante, a loro parere, ben riuscita di tecniche di sovranità bonapartista. Tale tesi è stata convincentemente respinta prima da Elisabeth Fehrenbach6, poi da Lothar Gall7. Contro la tendenza ad una dilatazione ad libitum, e astrattamente teorica, non concretamente analitica, del concetto di bonapartismo (come, del resto, di quello di cesarismo) Gall ha sottolineato come il connotato tipico del bonapartismo sia quello di essere un fenomeno di una società post-rivoluzionaria, che aveva distrutto le basi dell’ordine sociale e politico dell’assolutismo, le quali, invece, continuavano in parte a vigere nei territori mitteleuropei, e soprattutto in Prussia. Ivi, verso la metà dell’Ottocento, vigeva un sistema politico che non era né plebiscitario e pseudo democratico, come quello di Napoleone III, ma non era neanche più assolutistico, bensì viveva della legittimità sia del principio monarchico, sia del principio parlamentare: esso era basato, in altri termini, su un equilibrio tra questi due principii. Dal punto di vista sociale, poi, a differenza della Francia, il processo di industrializzazione ebbe luogo, in Prussia, in uno Stato autoritario e ancora in gran parte feudale e conservatore, nel quale l’aristocrazia agraria riuscì, comunque, a conservare il proprio potere. Il problema di Bismarck, come ha osservato Fehrenbach, consistette non nel contenimento, a tutto favore del ceto borghese, delle masse rivoluzionarie e del pericoloso scontento dei contadini, bensì nel far convergere gli interessi della borghesia liberale con l’ordine feudale tradizionale della Prussia, nell’adattare i primi al secondo8.
Una delle fonti cui Gall si richiama sono due scritti di Ludwig Bamberger, una delle intelligenze migliori del liberalismo tedesco. Si tratta del saggio su Bismarck da Bamberger scritto nella tarda estate del 1867, e pubblicato in francese, a Parigi, nel 1868, subito tradotto in tedesco (1868), inglese (1869) e anche in italiano (1870), sul quale tornerò brevemente, e di un articolo apparso nell’agosto del 1866 nella «Rheinische Zeitung», intitolato Der Caesarismus9. In quest’ultimo Bamberger dimostra l’errore concettuale, in cui incorrevano sia i liberali francesi del suo tempo, ostili al regime di Napoleone III, sia i liberali tedeschi, e soprattutto quelli della Germania meridionale, nel definire “cesarismo” il reggimento bismarckiano, data la situazione politico-sociale della Prussia, che era molto diversa da quella francese. Secondo Alfred Heuss, queste pagine di Bamberger sono, nella loro concisione, tra le cose migliori scritte sul fenomeno del cesarismo10.
Rusconi, pur non propendendo verso la tesi “bonapartista” (cfr. pp. 176-177), parla, tuttavia, richiamandosi al giudizio di uno dei più autorevoli biografi di Bismarck, Otto Pflanze, dell’avvio di «un periodo di dittatura» in relazione alla cosiddetta Presseordonnanz del 1° giugno 1863, con la quale il Governo prussiano introdusse restrizioni alla libertà di stampa, alla quale si accompagnarono «altre misure liberticide che fanno ipotizzare addirittura progetti di colpo di Stato» (pp. 92-93). Ciò, forse, poteva essere nei desideri di Bismarck. Di fatto, però, avvenne che la Camera bassa prussiana, uscita dalle elezioni tenute in quello stesso anno 1863, si affrettò, con uno dei suoi primi provvedimenti, a cassare quella famigerata ordinanza, che, dunque, decadde. E la motivazione addotta fu proprio che essa era stata rilasciata senza il consenso della Camera (Abgeordnetenhaus)11. Trattandosi di una questione di non vitale importanza, Bismarck decise di non inasprire il contrasto. Ciò compì, invece, provocando un vero e proprio conflitto costituzionale, in relazione al problema della riorganizzazione dell’esercito. Tale conflitto fece capo, nel 1867, non a un colpo di Stato, ma ad un compromesso, che dava in parte ragione, in parte torto a entrambe le parti (Camera bassa prussiana e Bismarck). Si converrà, credo, che si tratta di episodi difficilmente qualificabili come atti di bonapartismo o di cesarismo. Né riesco a classificarli come una procedura “dittatoriale” contro il Parlamento. Era il modo di governare di Bismarck, insieme spregiudicato, autoritario e duttile. Era “bismarckismo”.
D’altra parte, non si può fare a meno di rilevare le differenze anche sul piano strettamente istituzionale. Il sistema napoleonico, introdotto in uno Stato unitario fortemente centralizzato, organizzò il potere legislativo in modo molto differente rispetto al sistema di uno Stato monarchico a struttura federalista (nonostante la prevalenza prussiana), quale era quello tedesco: a differenza di quest’ultimo, il sistema napoleonico non conosceva né partiti, né frazioni, e i deputati al Corps législatif potevano o approvare in blocco, o respingere, non discutere i progetti di legge loro presentati dal Consiglio di Stato, cioè dagli uomini dell’Imperatore, né disponevano di ulteriori diritti politici. Solo nel 1861 Napoleone III concesse loro la facoltà di discutere il bilancio. A propria discrezione l’Imperatore poteva convocare, aggiornare o sciogliere la Camera12. Quello che si diceva dell’Imperatore, che egli cioè: «n’est pas seulement le chef, il est, autant qu’on peut l’être dans la France moderne, le maître de l’Etat. Il n’a pas seulement à lui tout le Pouvoir exécutif: il met son empreinte sur le Pouvoir Constituant, sur le Pouvoir Législatif, sur l’autorité judiciaire»13, non poteva dirsi di Bismarck.
Rusconi vede l’elemento cesaristico incarnarsi o concretizzarsi soprattutto nello strumento «rivoluzionario» (p. 17) del suffragio universale, introdotto con la Costituzione del Norddeutscher Bund del 1867, e al quale, mi pare, egli attribuisce un valore plebiscitario, «cesaristico-populista», che, probabilmente, era nei desideri, o quanto meno negli auspici di Bismarck, e che fece, per questo, subito insorgere i timori più foschi non solo nei liberali, bensì anche, e per motivi analoghi, tra le file dei conservatori. Di fatto, però, esso non sortì affatto l’effetto desiderato, neanche all’inizio, e, anzi, finì per ritorcersi contro di lui.
E, infatti, quale fu a partire dal 1867 la conseguenza dell’applicazione del suffragio universale maschile per l’elezione al Reichstag, di quest’arma plebiscitaria di reminiscenza bonapartista, dalla quale certamente Bismarck si aspettava (o si augurava) un rafforzamento del partito conservatore al fine di controbilanciare l’influenza dei liberali, con i quali aveva dovuto trattare in quegli anni per far conseguire alla Prussia l’egemonia in Germania? Quale fu la conseguenza dell’introduzione del suffragio universale, da Bismarck voluto anche per introdurre nel sistema costituzionale tedesco un elemento democratico-unitario che frenasse le spinte particolaristiche? Forse la vittoria schiacciante di un “partito del Cancelliere”, ad esempio della Deutsche Reichsund Freikonservative Partei, chiamato da un suo recente studioso, appunto, il “partito di Bismarck”14, mediante il quale egli poté governare indisturbato per un ventennio? Tutt’altro. Prima dovette venire a patti con i liberali, poi, dopo il 1878, con i cattolici del Zentrum.
Né, a differenza di quanto Rusconi sostiene, credo che lo strumento del suffragio universale abbia sconvolto «il quadro delle valutazioni e delle aspettative politico-istituzionali» degli avversari liberali e degli amici conservatori di Bismarck (p. 17). Esso fu, certo, fortemente avversato da entrambi i gruppi per motivi ideologici, ma non ne vennero sconvolte le aspettative politico-istituzionali, perché non portò alla dittatura “plebiscitaria” di Bismarck, sia per il peso che la Corona continuò ad esercitare nella vita pubblica tedesca, che era ben maggiore che in altri paesi, sia per la natura della Costituzione pensata ed elaborata da Bismarck nel 1867/1871 e per i concreti rapporti di forza tra gli organi dello Stato da essa risultanti.
Quanto alla Corona, basterà ricordare le sue estese prerogative, per le quali sia la direzione politica, sia quella militare erano riunite nella persona del monarca, a differenza di altri Stati europei. In questo la Costituzione del Reich recepì la tradizione della prassi costituzionale prussiana. È vero che tutti gli atti di governo dovevano essere controfirmati dal cancelliere che se ne assumeva, così, la responsabilità. Ed è altrettanto vero che era il cancelliere a guidare la politica del Reich, ma solo nel campo civile. In quello militare la Costituzione assegnava all’imperatore una molto estesa capacità di direzione ed intervento. Senza contare, poi, che al monarca era riservata l’esclusiva prerogativa di nomina e di licenziamento del cancelliere. L’abilità di Bismarck consistette appunto nel sapersi sempre muovere in modo da conservare la fiducia del vecchio imperatore Guglielmo I e da persuaderlo a seguire la strada, in politica interna, come in politica estera, che egli di volta in volta intendeva percorrere, e, soprattutto, a imporre il primato della direzione politica su quella militare, concentrata nelle mani dell’imperatore e dei comandi delle forze armate: è, anche questo, appunto, non tanto “cesarismo”, quanto piuttosto “bismarckismo”. Ai suoi successori ciò non riuscì.
Ma che la sua posizione di potere fosse sempre rovesciabile, e non con una rivoluzione, ma con un semplice atto di volontà dell’imperatore, è dimostrato proprio dal licenziamento di Bismarck nel 1890, come da quello di Bülow nel 1909, come da quello di Bethmann-Hollweg, Michaelis e Hertling tra 1917 e 1918: tutti licenziamenti ai quali, è il caso di sottolinearlo, anche il Reichstag collaborò attivamente, pur non avendo, ai sensi della Costituzione del Reich, il diritto di sfiduciare il cancelliere. Tutti questi licenziamenti seguirono, infatti, ad altrettanti voti di censura della politica del Governo espressi dalla maggioranza del Reichstag15. Tale atto di volontà imperiale, è forse il caso di aggiungere, non doveva, a sua volta, avere un carattere di mera arbitrarietà, ma fondarsi sul principio costituzionale della responsabilità politica del cancelliere davanti al Reichstag e alla nazione, un principio di dipendenza non giuridica, ma politicomorale, che era al tempo stesso il punto di forza, ma anche di debolezza del cancelliere.
E, con questa osservazione, passo all’altra questione della natura della Costituzione voluta da Bismarck nel 1867/1871. Essa configurava una struttura ben complicata e prevedeva un assetto istituzionale connotato da un evidente compromesso tra diverse spinte (centralistiche e particolaristiche; unitariste-democratiche e federaliste; autoritarie ed egemoniali-prussiane e liberali-parlamentari) e tra diversi centri di potere (Corona e cancelliere; Reich e Prussia; Corona e cancelliere, da un lato, e Reichstag, dall’altro; Corona e Bundesrat da un lato, e Reichstag dall’altro). All’interno di questa struttura le istituzioni e tutti i centri di potere si bilanciavano, dipendevano l’uno dall’altro, e potevano sia collaborare a vicenda, sia bloccarsi o quanto meno ostacolarsi reciprocamente. Nessuno, in altri termini, concentrava eccessivo potere. Si trattava di una struttura che era l’esito di compromessi tra il vecchio, tra il risultato di secoli di storia tedesca, ed il nuovo affermatosi nel secolo XIX. Si trattava di «un complicato sistema di partecipazione pluralistica al potere»16, che fu il risultato di dibattiti intensi e trattative serrate tra Bismarck e i nazional-liberali. Tale complicato sistema fu il prodotto di decisioni in effetti non prese, o «aggirate», come le ha definite Wolfgang J. Mommsen17, appunto perché concepito da una mente in sommo grado pragmatica, elastica, capace sempre e comunque di adeguarsi alle diverse e mutevoli contingenze e spinte della realtà fattuale, aspirando a giocare il ruolo dell’ago della bilancia, a dominare quella realtà. Ed era, pertanto, una struttura, un sistema costituzionale suscettibile ben più di altri di evoluzione sia in senso più liberale, sia in senso opposto. Grazie alla sua forza di integrazione e al suo enorme prestigio Bismarck, come avvertì sin dalla metà degli anni ’60 Bamberger18 (che fino alla “svolta” del 1878 fu un sostenitore del Cancelliere), riuscì, almeno fin quando governò con i liberali, a tenere insieme e in equilibrio le forze, le tendenze e gli interessi contrastanti e in conflitto tra loro, e gli riuscì di instaurare un equilibrio tra reazione e progresso, tra aristocrazia e suffragio universale, tra passato e futuro, conservando, comunque, al suo “sistema” un’impronta sostanzialmente conservatrice: non però conservatrice nel senso tradizionale, bensì in un senso molto più dinamico ed elastico. E anche questo è “bismarckismo”.
In questa costellazione il cesarismo poteva essere solo un’aspirazione, al massimo un breve «intermezzo», come lo ha chiamato Nipperdey 19, e poteva concretizzarsi, ad esempio, nel ricorso alle urne in caso di conflitto con la borghesia liberale parlamentare, ricorso che, come è noto, non sortì nella maggioranza dei casi gli effetti decisivi desiderati dal Cancelliere.
Qualsiasi riforma o misura legislativa importante (basta pensare al bilancio per l’esercito, o alla legislazione sociale, o a quella contro i socialisti) fu frutto di lunghi, snervanti negoziati e di compromessi, in cui Bismarck riuscì, e non sempre (come nel caso del bilancio militare) a imporre il suo volere, ma spesso più a causa della debolezza dei suoi avversari che per la natura “cesaristica” del suo potere.
Il suffragio universale maschile ebbe come conseguenza non la consegna del paese ad un “Cesare”, ma, al contrario, il lento accrescimento e consolidamento dei partiti a lui avversi, soprattutto dei socialdemocratici. Le masse riuscirono lentamente a ricavarsi uno spazio, non determinante i destini della nazione, è vero, e tuttavia pur sempre un loro spazio nella vita sociale ed economica e nella vita politica, proprio grazie allo strumento plebiscitario ideato dal loro primo nemico. Ciò è tanto vero che, negli anni ’80, dopo la dolorosa sconfitta elettorale del 1881 e di fronte alle crescenti difficoltà dei suoi rapporti col Reichstag, Bismarck rifletté seriamente sull’opportunità di modificare la legge elettorale e di abolire il suffragio universale per introdurre in Germania il modello del cosiddetto suffragio a tre classi (Dreiklassenwahlrecht) che vigeva in Prussia 20. Fu in questo periodo che egli più volte agitò davanti al Reichstag lo spettro di un “colpo di Stato” autoritario e conservatore, ma, se mai esso fosse stato tentato (e non possiamo sapere né se Bismarck sarebbe stato in condizione di farlo, né quale esito avrebbe avuto), non avrebbe avuto nulla in comune con quello di Napoleone III del 1851, che si era servito dell’arma del suffragio universale, ma sarebbe stata una soluzione tutta basata sulla tradizione monarchica e reazionaria prussiana 21.
E, come è stato notato, è proprio in relazione a questa fase tarda, e fortemente involutiva, del regime di Bismarck che occorre collocare, ridimensionandola e relativizzandola, l’espressione «cäsaristische Gestalt» usata da Max Weber in relazione al Bismarck degli anni ’60 e ’70, al Bismarck del suffragio universale con la sua ricerca, secondo l’opinione di Weber, di «Formen cäsaristischer Akklamation» 22. Anche Rusconi, naturalmente, dedica qualche pagina a questa interpretazione di Weber (Il cesarismo bismarckiano nell’interpretazione di Max Weber, pp. 182-186).
Se, alla fine, il sistema ideato da Bismarck nel 1867/71 fece capo ad un regime burocratico-autoritario, ad una vita pubblica e politica asfittica e imbarbarita, ostile ai principii liberali, ad una società in maggioranza antidemocratica, reazionaria e militarista, non fu per le pulsioni cesaristiche del Cancelliere, ma per l’involuzione autoritaria e reazionaria del suo reggimento politico, dei suoi rapporti con i partiti e col Reichstag negli anni ’80, senza per questo modificare alcunché nell’impianto costituzionale del paese. Ma fu anche per la debolezza dei suoi oppositori, che non seppero sfruttare a fondo gli spazi concessi dalla Costituzione ai contrappesi al potere esecutivo: Bamberger, nel 1890, qualche mese dopo il licenziamento di Bismarck, fustigava proprio l’impotenza dimostrata dai liberali, che non erano stati capaci di liberarsi di lui e avevano avuto bisogno dell’aiuto di un’altra mano. Tale debolezza era inoltre, a suo giudizio, un segno della fondamentale mancanza di maturità politica della «nazione», cioè della borghesia, il ceto portante del liberalismo. E, infatti, notava che, se vi fosse stata quella maturità, il reggimento bismarckiano mai avrebbe avuto quelle conseguenze fatali che, invece,aveva prodotto. Bismarck, infatti, osserva Bamberger, che lo conosceva bene, era un uomo in sommo grado abile a confrontarsi ovunque con le forze in campo. Era attento a non oltrepassare il limite oltre il quale intuiva che si sarebbe scontrato con una resistenza invincibile, e, quando ciò avveniva, era capace di cedere e di tornare sui suoi passi con la leggerezza spensierata e la spregiudicatezza dell’uomo di mondo. Se Bismarck avesse incontrato nella borghesia liberale quell’energica resistenza che gli avevano opposto il Cattolicesimo, lo Junkertum feudale e la socialdemocrazia, avrebbe fatto pace anche col liberalismo, «denn wir wissen aus seinen Handlungen und aus seinen ausdrücklichen Bekenntnissen, daß auch er, wie so viele große Praktiker, das richtige Kompromiß für die Seele der Politik ansah» 23.
L’involuzione della vita pubblica tedesca a partire dagli anni ’80 fu, inoltre, conseguenza dello spirito del tempo, che favorì, e non solo in Germania del resto, la diffusione di idee fanaticamente nazionaliste, intolleranti e antisemitiche, antiliberali e antidemocratiche, irrazionali, pessimistiche. E fu, infine, anche dovuta alla grande influenza esercitata sulla vita pubblica tedesca dalla Corona, in mano a un reazionario militarista come Guglielmo I, o a un altrettanto reazionario militarista, e, in più, vanesio, impulsivo, intellettualmente mediocre, ed ambizioso megalomane, come Guglielmo II, in mano, cioè, ad una specie (mutatis mutandis) di Caligula, secondo il titolo esplicitamente allusivo del libro satirico dello storico e pacifista Ludwig Quidde (1894).
Si trattò, come riconobbe Bamberger nel 1888, di un regresso in primo luogo culturale che provocò incalcolabili danni alla Germania: la proscrizione dello spirito liberale, della politica liberale, l’indebolimento morale e civile della borghesia, la presa di potere dello spirito non del Cesare, ma dello Junker, anzi del cosiddetto Krautjunker (il signore di campagna, privo di cultura e di modi e mentalità primitivi) e della Feudalaristokratie 24. Questo era lo «spirito», scriveva Bamberger già nel 1882, che sarebbe restato nei «figli» di Bismarck, cioè nel ceto dirigente del paese che il Cancelliere stesso aveva allevato, una volta che il «genio», il «barbare de génie» fosse scomparso 25.
Naturalmente il libro di Rusconi non si esaurisce tutto nella discussione sui due poli del liberalismo e del cesarismo entro i quali si muoverebbero Cavour e Bismarck, ma tocca anche altri temi relativi ai rapporti tra Piemonte/Italia e Prussia/Germania nel biennio 1859/1861 e negli anni seguenti. Pertanto, a quanto detto finora, che è un semplice tentativo di dare un contributo alla discussione scientifica, occorre aggiungere qualche altra osservazione sul contenuto del libro.
Rusconi ricostruisce brevemente i rapporti tra Bismarck e i liberali negli anni ’60, i quali, da un atteggiamento di grande sospetto e anche disprezzo verso il reazionario Junker, passarono ad approvarne l’operato, in un primo momento con molta cautela, poi sempre più convintamente ed entusiasticamente. E, giustamente, nota come a partire dalla metà degli anni ’60 cominci a ridimensionarsi per i liberali tedeschi (l’Autore menziona August Ludwig von Rochau e Heinrich von Treitschke) il modello fino ad allora rappresentato da Cavour (pp. 147-160). In particolare si sofferma, naturalmente, sul celebre saggio di Treitschke su Cavour, iniziato a concepire nel 1865-66 e uscito nel 1869, un’opera scritta con un intento «politicopedagogico di presentare al pubblico quello che lui ritiene essere uno statista politico esemplare» (p. 150). Concordo in pieno con l’analisi che l’Autore fa della genesi e della natura di questo libro. Esso fu iniziato in un momento di impotenza del liberalismo di fronte alla questione nazionale tedesca, che rendeva Treitschke molto insofferente e lo indusse a proporre ai suoi connazionali appunto il modello Cavour, l’esempio di una «geniale Realpolitik». Nel corso dell’opera, però, si verificano gli eventi sorprendenti e inaspettati del 1866 e 1867, la politica bismarckiana si dimostra vincente. Dall’iniziale ostilità verso Bismarck Treitschke è indotto a ricredersi e a considerarlo prima (1865) il male minore per la Germania, poi a divenirne un convinto sostenitore. Pertanto a ragione Rusconi osserva che la conversione alla linea bismarckiana «coincide cronologicamente con una silenziosa rivisitazione critica della figura e dell’opera di Cavour, che è più profonda di quanto non ammetta lo stesso autore. Analisi della situazione politica tedesca, evoluzione del giudizio su Bismarck e stesura della biografia cavouriana procedono dunque parallelamente […]. Il risultato è che le vicende tedesche si sovrappongono alle vicende italiane, relativizzandone di fatto il significato storico esemplare; la figura di Bismarck si sovrappone a quella di Cavour, non viceversa» (p. 151).
Nel libro l’Autore ha opportunamente inserito brevi excursus sulle relazioni diplomatiche tra Regno di Sardegna e Prussia tra 1859 e 1862 (anno in cui la Prussia riconosce il Regno d’Italia), sul giudizio e le reazioni di Bismarck e, più in generale, del ceto politico dirigente e dell’opinione pubblica tedesca davanti a Cavour e al moto d’indipendenza italiano, divise e oscillanti tra timori e sospetti, adesione più o meno convinta e sorretta da ragioni diverse, infine vera e propria ammirazione nella pubblicistica liberale.
Interessante è, inoltre, per il lettore italiano la ricostruzione che fa Rusconi dell’atteggiamento del “conservatore” Bismarck verso la “rivoluzione” italiana (pp. 65-74), finora studiato, o quanto meno toccato, in connessione al resto della classe politica prussiana e dell’opinione pubblica tedesca, solo da storici tedeschi e reperibile solo in testi in lingua tedesca. A tale proposito osservo che il tema generale di Bismarck e l’Italia resta ancora oggi un desideratum della ricerca 26. A differenza dei conservatori-reazionari del cosiddetto partito della Kreuzzeitung, che, in nome del rispetto del diritto e del principio del legittimismo dinastico, avversarono tenacemente il Risorgimento italiano, Bismarck intuì subito il potenziale vantaggio politico che alla Prussia sarebbe potuto venire dalla creazione di un forte Stato italiano nell’Europa meridionale, tra Austria e Francia, e spinse, per quanto poté, prima affinché la Prussia approfittasse della guerra del 1859 per attaccare l’Austria, cacciarla dalla Confederazione tedesca e far conseguire alla Prussia l’egemonia in Germania, poi, affinché la Prussia non ritirasse il suo rappresentante diplomatico a Torino e, anzi, riconoscesse subito il nuovo Regno d’Italia.
Ci sarebbe, forse, da aggiungere che Bismarck parlava, nel 1860/1861, dell’Italia come “alleato naturale” della Prussia e dava i suoi consigli al Governo di Berlino nella sua veste di diplomatico, non di statista, depositario di precise e gravi responsabilità di governo. Ma a Berlino si ragionava diversamente. Ivi si era, cioè, persuasi che i vantaggi derivanti da un’eventuale alleanza con il nuovo Stato italiano fossero inferiori agli svantaggi che un passo del genere avrebbe generato nel quadro della politica prussiana in Europa: la fuoriuscita della Prussia dal concerto delle potenze continentali, il suo allontanamento dalla Russia, l’offesa recata all’Austria, l’irritazione della Francia. E non si può negare che si trattasse di valutazioni di un certo peso. Tant’è vero che Bismarck, giunto al potere nel settembre del 1862, non si affrettò certo a stipulare alcuna alleanza con l’Italia.
Ma la parte del libro di Rusconi che, forse, risulterà più interessante per il lettore italiano è la ricostruzione dei rapporti tra Italia e Prussia nel 1866, delle trattative per l’alleanza, e dello svolgimento della guerra. Di solito, nelle sintesi italiane, non si trovano messi ben a fuoco parecchi dettagli, tutti i risvolti problematici che quelle trattative e quello svolgimento ebbero, pesantemente condizionate, come furono, da diffidenze, sospetti, equivoci, divergenze di piani strategici, e accuse reciproche di slealtà. La guerra del 1866 fu un episodio veramente infausto delle relazioni tra Germania e Italia, due paesi che, solo qualche anno prima, molta parte della pubblicistica e gli stessi Cavour e Bismarck avevano definito “alleati naturali”. Finora, a parte le memorie del Generale Govone, una ricostruzione esaustiva degli eventi prima, durante e subito dopo l’armistizio di Nikolsburg, era stata offerta, di nuovo, solo da studi in lingua tedesca, il cui contenuto e le cui conclusioni Rusconi ha sinteticamente, efficacemente e criticamente presentato ad un pubblico italiano più vasto di quello degli addetti ai lavori.
Nell’ultimo capitolo (Cavourismo e bismarckismo. Un bilancio, pp. 169-205) l’Autore si chiede se «si può parlare di cavourismo e bismarckismo come di due stili di comportamento politico tipici e dotati di significative analogie», e osserva che i due termini furono coniati e diffusi nella cultura politica e nella letteratura pubblicistica in stretta connessione con i termini di “bonapartismo” e “cesarismo”, ma questi ismi, conclude, «vannoaccettati nella loro polivalenza e persino nelle loro imprecisioni, perché soltanto in questo modo diventano funzionali alla comunicazione politica». L’altra faccia della medaglia è, però, che usati, appunto, in modo polivalente e persino impreciso, finiscano di fatto per impedire una precisa comprensione di talune forme di sovranità politica e dei loro specifici elementi portanti.






NOTE


1 Sarebbe, tuttavia, interessante fare una ricerca nella pubblicistica tedesca ottocentesca, nella quale, certamente, si troverebbe qualche breve nota sul tema del confronto tra i due statisti. Sono in grado di fornire a tale riguardo una sola indicazione: M. Meyer, Fürst Bismarck und Graf Cavour. Eine historisch-politische Parallele, in «Die Gegenwart. Wochenschrift für Literatur, Kunst und öffentliches Leben», Band VII, Nr. 2 (9. Januar 1875), pp. 17-19.^
2 Hassell ripubblicò, poi, questo testo in una versione leggermente ampliata nei «Berliner Monatshefte», 21. Januar 1943, pp. 14-24. Su questo testo mi soffermo nel mio saggio La Germania e Cavour, di prossima pubblicazione presso le Edizioni di Storia e Letteratura.^
3 Lo stesso Rusconi, in un breve saggio tedesco, che riassume i contenuti del libro italiano, parla di liberalismo e autoritarismo: Cavour und Bismarck. Analogien und Unterschiede zwischen einem liberalen und einem autoritären Staatsgründer, in «Zeitschrift für Geschichtswissenschaft», 59 (2011), pp. 301-311.^
4 K. Hillebrand, Bismarck, in «Journal des Débats», 26 luglio 1866; ripubbl. in traduz. tedesca in Idem, Unbekannte Essays, hrsg. von H. Uhde-Bernays, Bern, Francke, 1955, pp. 274-285: p. 275.^
5 E. Schulin, Tradition und Geschichtserfassung in Deutschland nach 1945, in Filosofia e storia della cultura. Studi in onore di Fulvio Tessitore, a cura di G. Cacciatore, M. Martirano, E. Massimilla, II, Napoli, Morano, 1997, pp. 643-649.^
6 E. Fehrenbach, Bonapartismus und Konservatismus in Bismarcks Politik, in Der Bonapartismus. Historisches Phänomen und politischer Mythos, hrsg. von K. Hammer und P.K. Hartmann, Zürich-München, Artemis, 1977, pp. 39-55; ripubbl. in Eadem, Politischer Umbruch und gesellschaftliche Bewegung. Frankreich und Deutschland im 19. Jahrhundert, München, Oldenbourg, 1997, pp. 367-380.^
7 L. Gall, Bismarck und der Bonapartismus, in «Historische Zeitschrift», 223 (1976), pp. 618-637; ripubbl. in Idem, Bürgertum, liberale Bewegung und Nation. Ausgewählte Aufsätze, hrsg. von D. Hein, München, Oldenbourg, 1996, pp. 256-271.^
8 Fehrenbach, Bonapartismus und Konservatismus, cit., pp. 45-46.^
9 Ripubbl. in L. Bamberger, Politische Schriften von 1848 bis 1868, Berlin, Rosenbaum & Hart, 1895, pp. 328-336.^
10 A. Heuss, Der Caesarismus und sein antikes Urbild, in Idem, Gesammelte Schriften, III, Stuttgart, Steiner, 1995, pp. 1803-1830: p. 1824, nt. 3a.^
11 Cfr. K. Dussel, Deutsche Tagespresse im 19. und 20. Jahrhundert, Münster, Lit, 2004, p. 56.^
12 Fehrenbach, Bonapartismus und Konservatismus, cit., e M. Wüstemeyer, Demokratische Diktatur. Zum politischen System des Bonapartismus im 2. Empire, Köln-Wien, Böhlau, 1986, pp. 251-264.^
13 Cit. da Wüstemeyer, Demokratische Diktatur, pp. 256-257.^
14 V. Stalmann, Die Partei Bismarcks. Die Deutsche Reichs- und Freikonservative Partei 1866-1890, Düsseldorf, Droste, 2000.^
15 Ciò è stato messo in evidenza da E. Huber, Die Bismarcksche Reichsverfassung im Zusammnehang der deutschen Verfassungsgeschichte, in Reichsgründung 1870/71. Tatsachen. Kontroversen, Interpretationen, hrsg. von T. Schieder und E. Deuerlein, Stuttgart, Seewald, 1970, pp. 164-196: p. 183.^
16 Così W.J. Mommsen, Die Verfassung des Deutschen Reiches von 1871 als dilatorischer Kompromiß, in Innenpolitische Probleme des Bismarck-Reiches, hrsg. von O. Pflanze, München, Oldenbourg, 1983, pp. 195-216: pp. 206 e 212.^
17 Das deutsche Kaiserreich als System umgangener Entscheidungen, in Vom Staat des Ancien Régime zum modernen Parteistaat, Festschrift für Theodor Schieder, hrsg. von H. Berding, München, Oldenbourg, 1978, ripubbl. in Idem, Der autoritäre Nationalstaat. Verfassung, Gesellschaft und Kultur des deutschen Kaiserreichs, Frankfurt am Main, Fischer, 1990, pp. 11-38.^
18 L. Bamberger, Monsieur de Bismarck, Paris, Lévy, 1868.^
19 T. Nipperdey, Deutsche Geschichte 1866-1918, II. Machtstaat vor der Demokratie, München, Beck, 1992, p. 109.^
20 Ivi, p. 408.^
21 Fehrenbach, Bonapartismus und Konservatismus, cit., p. 52.^
22 Gall, Bismarck und der Bonapartismus, cit., p. 636, nt. 44, che cita il noto passo dal saggio Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland, pubbl. in M. Weber, Gesammelte politische Schriften, hrsg. von J. Winckelmann, ³Tübingen, Mohr, 1971, p. 394.^
23 L. Bamberger, Ueber Kompromisse, in Die Nation, 4 ottobre 1890, ripubbl. in Idem, Politische Schriften von 1879 bis 1892, Berlin, Reimer, 1913, 301-316: pp. 304 e 306-307.^
24 L. Bamberger, Pessimistisches, Berlin, Walther & Apolant, 1988, pp. 7-8.^
25 Questo scriveva il 22 marzo 1882 Bamberger a Karl Hillebrand. La definizione di Bismarck come «barbare de génie» è in un’altra lettera di Bamberger a Hillebrand del 12 marzo 1879. Entrambi i pezzi sono conservati a Berlino, Bundesarchiv, Abteilung “Deutsches Reich” – Nachlaß 2008 – Ludwig Bamberger.^
26 In realtà, per quanto so, vi è una sola monografia, e alquanto datata, dedicata al tema di Bismarck e l’Italia, che, peraltro, si ferma agli anni ’60: F. Beiche, Bismarck und Italien. Ein Beitrag zur Vorgeschichte des Krieges von 1866, Berlin, Ebering, 1931.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft