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Il Papa Woitila di Riccardi
di Giuseppe Galasso
La biografia che Andrea Riccardi, il benemerito fondatore della Comunità di Sant’Egidio ha dedicato a papa Woitiła (A.R., Giovanni Paolo II. La biografia, Cinisello Balsamo, ed. San Paolo, 2011) non è importante solo per il “mestiere” dell’autore, e per l’utilizzazione che egli ha fatto della documentazione disponibile. Non meno importante è anche per la ricca serie di diretti colloqui e interviste o altri contatti che l’Autore ha avuto con personaggi eminenti del mondo ecclesiastico e del mondo laico dalla metà del secolo XX in poi.
Storia orale? Fino a un certo punto. In realtà, per questo aspetto il testo di Riccardi assume un valore documentario non trascurabile, data la perizia del metodo e la conoscenza dei problemi con cui gli incontri in questione sono stati tenuti e sono qui riferiti. Il libro diventa esso stesso, per questo verso, una fonte documentaria primaria, alla quale sul tema in esso trattato non si potrà fare a meno di ricorrere.
Superfluo è, poi, ovviamente notare l’importanza della biografia per il suo oggetto. Che cosa c’è da dire per questo verso? Tutto quanto si dicesse sarebbe pleonastico o retorico. Il papato di Giovanni Paolo II è di un rilievo talmente risaputo ed evidente che non c’è da spendere al riguardo neppure una parola, sia per la storia della Chiesa, sia, e forse addirittura ancora di più, per la storia del mondo contemporaneo. La novità dell’elezione di un papa non italiano esattamente dopo quattro secoli e mezzo (quanti ne passano dalla morte dell’olandese papa Adriano VI nel 1523 al 1978, anno dell’elezione del papa polacco) annunciava già questo rilievo. Altrettanto lo annunciava la nazionalità di papa Woitiła in una fase in cui l’Est europeo era ancora sotto un regime di cui nessuno prevedeva allora prossima una fine, o anche solo un deciso indebolimento. Le lamentele che si fecero allora in Italia perché si riteneva che le divisioni dei cardinali italiani avessero impedito che si continuasse la tradizione del papa italiano appaiono, a questo proposito, molto provinciali e di ristretta prospettiva. La realtà ha, d’altronde, davvero superato ogni previsione, speranza o immaginazione che fosse sulla possibilità degli sviluppi che si sono avuti, nel corso di un pontificato fra i più lunghi della storia bimillenaria della Chiesa romana (il secondo, anzi, come è noto, per la precisione, e di poco, dopo quello di Pio IX), ma che è stato, appunto, di tanto rilievo che perfino la sua durata temporale è superata dal suo intrinseco e storico significato.
Quando si dice questo, si pensa, innanzitutto, alla parte del papa nel crollo del comunismo nell’Est europeo e, in particolare, alla sua parte nella storia, sempre travagliata, ma fedele a se stessa, della Polonia appena uscita dal tormento nazi-germanico e subito entrata nell’incubo del totalitarismo comunista e sovietico. È giusto, peraltro, che sia così, e le numerose e scrupolose pagine che Riccardi dedica a questo tema costituiscono uno dei pilastri del suo libro, una delle sue parti più apprezzabili. A questo punto si ricollega anche la questione dell’attentato al papa, che Riccardi ha cercato di sviscerare a fondo con molti particolari interessanti e poco o nulla conosciuti (e, detto per inciso, mi sia lecito esprimere l’impressione che dalle sue pagine possa riuscire convalidato il sospetto che la vera fucina esecutiva di quell’attentato, più che probabilmente connesso sul piano ideativo a Mosca, possa essere stata, più che la Bulgaria, la Repubblica Democratica tedesca, la D.D.R., con i suoi servizi segreti, la Stasi, Staat Sichereit).
Si apre qui una delle questioni di maggiore importanza che Riccardi fa nascere per chi legge il suo libro. In breve: nella sua opposizione al comunismo, e a ogni totalitarismo in genere, qual’era l’alternativa politico-istituzionale che il papa aveva presente o in cuore? Sostenere che era un regime liberale o democratico risponde a verità nel senso che, di fatto, nel mondo contemporaneo le alternative ai totalitarismi portano a questo. Non si risolve, però, a nostro avviso, così, il problema. Su questo Riccardi offre nel suo libro molti sparsi elementi, che però mi sembrano lasciare aperta la questione dell’orientamento politico di fondo del papa. Difficile mi pare, comunque, una riduzione delle tendenze di fondo di Giovanni Paolo II in questo campo a una pura e semplice adesione alle dottrine liberal-democratiche del mondo occidentale. È probabile che ci troviamo qui di fronte a nodi e problemi di vario ordine che non erano chiari neppure nello spirito del papa, molto concentrato nelle questioni del suo tempo che di volta in volta gli si ponevano, e in rapporto alle quali l’inclinazione alla liberal-democrazia era più che sufficiente come criterio operativo discriminante e determinante.
Un altro polo forte della ricostruzione di Riccardi è indubbiamente quello relativo all’Italia e alla Chiesa italiana nell’azione e nelle idee del papa. È un argomento complesso. Dalle pagine di Riccardi mi sembra doversi dedurre che una reciproca, profonda ed effettiva intesa fra il papa e la sua nuova patria pontificia non sia mancata, ma sia stata parziale, oltre che travagliata. Giovanni Paolo II è certamente all’origine di una consapevole e meditata rottura del precedente filo diretto e permanente fra Curia romana e il cattolicesimo politico italiano, che già con Paolo VI aveva fatto registrare qualche sviluppo significativo. Gli orientamenti del papa polacco non nascono, peraltro, solo dal fatto che la sua nazionalità lo poneva fuori dalla precedente consuetudine curiale. Nascono per la via diversa della riflessione curiale, anche da parte di prelati italiani, circa l’opportunità, se non la necessità, di rompere il vecchio asse fra la Curia e il cattolicesimo politico d’Italia. E ciò, sia per la Curia che per il papa, anche sotto il segno degli effetti devastanti della crisi della cosiddetta prima Repubblica.
Che cosa è, però, subentrato alla vecchia prassi politico-ecclesiastica italiana? La domanda non può essere evitata. Ne è nato, intanto, un molto più diretto e frequente interloquire della Chiesa italiana (i vescovi in primissima linea) nelle questioni politiche e sociali del paese. È un bene? Risponde alla concezione che in generale papa Woitiła aveva della presenza politica della Chiesa nella società moderna? E, se si, questa concezione rispondeva alle esigenze e alle tendenze specifiche dell’Italia contemporanea? Non ne è nata una esposizione dell’episcopato che ha il duplice rischio della petulanza e della inefficacia, dell’eccesso di esposizione e della scarsa capacità di conseguente incidenza? Le domande che ci si può porre sono molte, e torna a merito di Riccardi di sollecitarle, ma l’incertezza che si può fondatamente avere nel rispondervi dimostra, crediamo, che il lungo papato di Giovanni Paolo II non solo non ha sciolto il nodo problematico di cui parliamo, ma possa addirittura aver contribuito ad aggrovigliarlo di più.
Un aspetto ulteriore che risalta nel libro di Riccardi è poi la parte del papa nella politica internazionale del suo tempo. Una parte che già si sapeva importante, ma che qui lo appare ancora di più. In particolare, la considerazione che della figura e dell’azione del papa viene maturata nella politica americana già con Reagan è illustrata efficacemente da Riccardi, e a mio parere risulta anche persuasiva, oltre che chiara. Meno chiara mi pare la posizione di fondo su problemi più circoscritti, a cominciare da tre punti: il problema israelo-palestinese; i problemi del mondo arabo-musulmano e la proiezione politica dell’Islam, che è una dimensione tanto importante del mondo politico contemporaneo; e, infine, varii ambiti del cosiddetto Terzo Mondo, a cominciare da quello latino-americano e da quello africano.
La parola d’ordine del papa, nella più ortodossa tradizione cattolica del XX secolo, era, come si sa, la pace. Ma anche qui sono molte le domande che si affollano a chi riflette sul tema. La politica della pace è una risposta sufficiente a tutti i problemi di fronte ai quali ci si trova? Il dialogo e l’ecumenismo sono risposte non diciamo valide (che è un altro discorso), ma sufficienti? I viaggi e le visite così frequenti in tanti e così diversi paesi del mondo (ma l’Italia resta nettamente il paese più visitato dal papa, e anche questo è importante) sono su questo piano una strategia soddisfacente? C’è una considerazione sufficientemente ampia e specifica dei problemi dell’unità europea e dell’Unione Europea in questo quadro globale? La crisi politica del cattolicesimo in Europa non dovrebbe essere posta su un piano di maggiore considerazione, anche a evitare comportamenti e sviluppi che possono apparire sorprendenti, come quelli della “cattolicissima” Spagna nell’ultimo ventennio? E, nonostante tutto, il mondo europeo non costituisce ancora un cuore decisivo non solo della tradizione, bensì anche della vita del Cattolicesimo?
Tutti interrogativi che possono avere, o anche non avere, risposte, ma che sono interrogativi effettivi, a nostro avviso, e che, ancora una volta, è merito di Riccardi di far nascere nel lettore. Resta fermo, comunque, che poi il filo rosso che egli intende spiegabilmente sviluppare è pur sempre quella dell’azione religiosa del papa, del suo significato nella vicenda religiosa sia del Cattolicesimo come religione rivelata e Chiesa militante nel mondo sub specie della sua perennità, sia come grande presenza religiosa, morale e civile nel mondo attuale. E indubbiamente era questa la prova più rilevante alla quale lo storico del papa polacco era chiamato.
La delineazione di Riccardi dà conto, intanto, in maniera adeguata alla portata della questione, della singolare posizione del papa al suo avvento, stretto fra la lunga scia del Vaticano II, ancora attiva e problematica, le molte istanze e spinte delle Chiese e degli episcopati nazionali, le discussioni dottrinarie che il Concilio aveva rivitalizzato e rese più cogenti, il confronto concorrenziale con altre confessioni cristiane e con altre religioni (in primo luogo, anche qui, l’Islam), la tradizione della Curia romana che ancora sotto Paolo VI aveva mostrato segni di grande forza e vitalità, i problemi particolari del clero (a cominciare dalla crisi delle vocazioni in una gran parte dell’orbe cattolico), la grande sfida non tanto della politica contemporanea quanto, in modo e in senso ben più generale e profondo, anzi radicale, della secolarizzazione e della laicità del mondo e della civiltà industriale matura, o, come molti inclinano (inesattamente) a dire, postindustriale o, addirittura, post-moderna.
Riccardi procede qui per ignes, ma con chiarezza e, mi sembra, con decisione. In gioco è, innanzitutto, la grande questione dell’ecumenismo. Risposta valida? Non saprei io, laico integrale, interloquire in una tale questione, che richiede qualità che non sono mie. Posso solo affacciare l’impressione che l’ecumenismo faccia sorgere almeno altrettanti, e non meno gravi, problemi di quanto possa presumere o sperare di risolvere o di cambiare nei loro termini. È come per la risposta della pace ai problemi internazionali: una risposta che non si può in nessun modo respingere, ma che è ben lontana dal risolvere i problemi e dall’assicurare, appunto, la pace.
Riccardi mi sembra, inoltre, dimostrare in modo acuto e interessante che, se ho ben capito, è stato Giovanni Paolo II a chiudere effettivamente il Vaticano II. Ma con quali ultimi esiti – volendo fare il bilancio di ciò che è rimasto vivo e di ciò che è finito del Concilio – a me non è parso di capire per bene. Anche qui non posso che affacciare una impressione: il papa ha posto la parola fine a tutte le strumentalizzazioni contemporanee del Concilio all’interno e all’esterno della Chiesa. L’atteggiamento verso la “teologia della liberazione”, molto bene illustrato da Riccardi, è, al riguardo, esemplare. Con ciò il papa si è, per caso, riavvicinato a quell’ampia sezione della Curia romana e dell’episcopato che nei riguardi del Concilio avevano sempre mantenuto una riserva di fondo, spesso neppure tanto implicita?
Riccardi mi sembra negarlo, ed è qui che egli introduce la nota per me più originale della sua definizione del cattolicesimo giampaolino: «Cattolicesimo di popolo». Profondo è ai miei occhi il significato francescano di questa definizione, nel senso della caritas, che nella predicazione del grande Santo di Assisi è un motivo così fondante e universaleggiante, come appare nel suo splendido Cantico delle creature (e qui mi chiedo se, forse, una maggiore attenzione non si doveva dare all’atteggiamento di Giovanni Paolo II verso figure come padre Pio da Pietralcina e come madre Teresa da Calcutta).
Profetismo e taumaturgia sono, peraltro, punti che diventano qui essenziali, e che determinano un devozionismo molto innovatore da parte del papa: innovatore nel senso che, senza nulla togliere, anzi aggiungendo, alla tradizione devozionale del Cattolicesimo contemporaneo, il papa ne vuole una intensificazione quotidiana e simbolica. Di questo simbolismo la moltiplicazione dei santi (si afferma che in questo pontificato si sono proclamati altrettanti santi che in tutta la precedente storia cattolica) è forse l’indizio maggiore, qui ben sottolineato. Nella quotidianità l’indizio maggiore è, forse, nelle ripetute insistenze del papa sui rapporti coniugali, anche nei loro aspetti materiali e concreti, che appaiono per qualche verso più che coraggiosi.
Su questa linea prendono pienamente corpo, per come a me è riuscito di capire, i due tratti fondamentali che Riccardi sembra sottolineare e anche accentuare nella predicazione e nelle decisioni pastorali e di governo ecclesiastico del papa: la famiglia e la vita. Due punti cristianissimi, ma che nel mondo secolarizzato e individualistico della globalizzazione espongono a problematiche estremamente ardue non solo il mondo religioso, e quello cristiano in particolare, bensì anche lo stesso mondo della cultura, dello spirito e della morale laica.
Nel capitolo «governo carismatico», uno dei più attraenti del libro, questi problemi trovano una sorta di sintesi problematica che è molto istruttiva, anche se su varii punti si desidererebbe qualche maggiore indugio (come quello del rapporto fra «governo carismatico» e «governo curiale», e quello del quesito se tra la voce del carisma e i modi e i mezzi largamente mediatici e spettacolari dell’azione del papa vi sia stato o non vi sia stato un incontro effettivo, un’autentica sintesi unificante).
Con tutto ciò, il Woitiła disegnato da Riccardi appare anche come un papa dalle non esigue preoccupazioni dottrinarie e filosofiche, e ciò in misura alquanto superiore a quanto si sarebbe di primo acchito portati a credere. Fenomenologo, lo si definisce qui, con un esplicito richiamo a Husserl, fino a qual punto valido non è facile dire, pur trattandosi di una questione chiaramente non infondata. Importante sullo stesso piano dottrinario è la vicinanza con Ratzinger, allora cardinale e poi suo successore (e qui occorre notare che nell’azione del papa risalta la sua tendenza a puntare in posti e ruoli eminenti su personalità non troppo vicine o addirittura notoriamente lontane, se non opposte alle sue linee direttive, come monsignor Casaroli, tenuto nella eminente posizione di Segretario di Stato, e come, per la sua parte, anche il cardinale Ratzinger).
Non per tanto, quel che pare qui da cogliere è un certo tratto del pontefice, per cui egli appare restio a modificare la dottrina. Giovanni Paolo II non sarebbe stato, in effetti, tanto un legislatore della dottrina quanto, invece, avrebbe inclinato a riconfigurarla, soprattutto con la preoccupazione sia di una piena ortodossia, e quindi con spirito meditatamente tradizionalista, sia di una riconfigurazione della dottrina consona all’attualità del «Cattolicesimo di popolo» cui il papa mirava. Troppe o eccessive pretese? Che cosa ne pensi Riccardi non è riuscito a me del tutto chiaro. La finale qualificazione di «mistico» ha limiti o sensi particolari? E tra carisma e misticismo quale rapporto propriamente sussiste nell’analisi non tanto della personalità quanto dell’azione del papa?
Insomma, un libro assai denso. L’ultimo capitolo, dedicato alla fine del papa, è animato da un pathos che ne consacra la figura come una possente espressione dei problemi del suo e nostro tempo, spesso rappresentato come dominatore e vincitore su questo fronte. Il libro di Riccardi, almeno in noi, ha destato l’impressione di ricondurre la figura di Giovanni Paolo II a una dimensione un po’ più problematica, ma proprio per questo motivo più vicina agli uomini del suo tempo. L’ultimo capitolo vi contribuisce in modo simbolicamente evocativo di questa umanità del papa, che forse la pur bella poesia finale di Turoldo fa un po’ perdere, mentre essa risalta appieno nelle parole stesse del papa, a cominciare dalla decisione circa la sua sepoltura.
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