Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XII - n. 3 > Interventi > Pag. 267
 
 
Asterischi
di Giuseppe Galasso
PERCHÉ L’UNITÀ ITALIANA NON DAL SUD? – Perché, mi chiede un amico colto e appassionato di tali problemi, l’unità d’Italia non la fecero i Borboni? Non sarebbe stato meglio per il Sud, e in specie per Napoli?
La risposta è, in sé e per sé, facile. Nella storia, tutto ciò che accade o non accade ha sempre una ragione profonda. Ragionare su quel che sarebbe potuto accadere e non è accaduto, non serve a nulla. Solo l’immaginazione può giovarsene. Ma poi, oltre il piacere che se ne può trarre, a che vale fingersi un passato che non ci fu? Talora, è vero, a far meglio intendere ciò che è accaduto.
Ciò premesso, indulgo anch’io al piacere di immaginare un’unità italiana che avesse trovato al Sud e nell’antica monarchia meridionale il centro direttivo e realizzatore, che fu trovato, invece, in Piemonte e nella monarchia sabauda; e, nel rispondere alla domanda del mio amico, ricado ovviamente nel mio mestiere di storico.
Già – quindi, penso – nel corso di una così lunga storia, dai sovrani del Sud non partirono grandi iniziative espansive in Italia.
Sotto Alfonso I, nel ’400, e in qualche altro momento si mirò alla costa toscana e ligure. Gli Angiò ebbero, fra il ’200 e il ’300, molte influenze nell’Italia del Nord e del Centro, ma non tanto come sovrani di Napoli quanto come capi del “partito guelfo” nella penisola, e comunque le loro influenze non ebbero poi seguito. Il Regno risentiva del fatto che la sua frontiera a Nord era con lo Stato della Chiesa, dove era impossibile espandersi, dato il posto e il ruolo del Papato in Europa. Per giunta, il Regno si trovò nel ’500 e nel ’600 sotto gli spagnoli, che dominavano gran parte della penisola, sicché il problema di un’espansione meridionale non si poneva, e così accadde anche sotto Napoleone e, in parte, con l’Austria.
Sul mare, che segnava la restante frontiera del Regno, la formazione dell’impero turco e dell’impero spagnolo fra ’400 e ’500 tolse ogni possibilità di espansione. Poi, caduti quei due imperi, il Mediterraneo fu dominato dalla flotta inglese, nel cui timore Napoli visse fino all’ultimo. E, peraltro, la potenza navale meridionale, tranne brevi periodi, fu sempre di seconda fila.
In effetti, solo due volte si ebbe l’impressione di un’iniziativa meridionale che potesse portare, se non all’unità, almeno a un grande Stato in Italia. La prima volta fu con Federico II di Svevia nel ’200; la seconda volta con Gioacchino Murat nel 1814-15. Entrambe le volte funzionari, militari, amministratori del Sud si trovarono ad agire da protagonisti nella restante Italia, ma l’eventuale unità dal Sud fallì, per non riaffacciarsi più.
Con il Regno delle Due Sicilie dal 1816 in poi la questione neppure si pose. Per Ferdinando II il principio dominante quello di mantenere tranquillo e sicuro fra l’acqua santa (lo Stato della Chiesa) e l’acqua salata (il mare dagli altri tre lati). Inoltre, i Savoia, per avere la corona d’Italia, dovettero accettare il principio della monarchia non solo costituzionale, ma parlamentare, e correre tutti i rischi di una politica di espansione. Nel 1849 Carlo Alberto dovette perciò abdicare, mentre dal 1848 in poi, a Torino, come poi a Firenze e a Roma, la personalità politica più importante divenne il presidente del Consiglio dei Ministri. La monarchia si dovette, cioè, spogliare di gran parte dei suoi poteri; e quando, col fascismo, il re non osservò più il giuramento di fedeltà alla costituzione, la sorte di Casa Savoia cominciò a essere segnata.
A Napoli Ferdinando I tradì la costituzione del 1820; Ferdinando II concesse la costituzione nel 1848 per un calcolo di furbizia politica, ma appena poté la sospese e non la riattivò più. Si formò così l’idea di una totale inaffidabilità dei Borboni su questo piano e della impossibilità di una loro trasformazione in sovrani costituzionali. E per unificare l’Italia erano necessarie e indissolubili sia l’idea di nazione che l’idea di libertà. A Napoli la dinastia aveva divorziato dalle nuove idee fin dal 1799, né rese mai possibile una sua riconciliazione con esse. L’idea italiana doveva, perciò, inevitabilmente percorrere altre vie, e fu quel che accadde.

REVISIONISMO AUTODENIGRATORIO – L’avvicinarsi del 17 marzo ha accentuato discussioni e polemiche sulla celebrazione del 150° anniversario dell’unificazione italiana. Nel Nord gli altoatesini hanno dichiarato che per essi quella giornata non significa nulla, o significa, semmai, la nascita della potenza che li avrebbe poi staccati dall’Austria. A sua volta, la Lega Nord ha deprecato che si perdano tempo e soldi per un anniversario poco amato, e dice di mirare, se mai fosse possibile, staccando il Nord dall’Italia, a vanificare l’opera unificatrice del 1861. Nel Mezzogiorno, dove le velleità antitaliane sono molto più deboli, la fascia dei cosiddetti neo-borbonici fa sempre rumore, non solo deprecando l’operato di quell’anno, ma anche ribadendo le sue tesi, per cui a questo operato il Mezzogiorno è debitore della sua sorte posteriore poco felice, e la storia del Mezzogiorno dal 1861 a oggi non è che una storia di lutti, rapine, distruzioni, oppressioni a opera degli scriteriati garibaldini, prima, e dei “conquistatori” piemontesi e loro vicini del Nord, poi.
A tutto ciò sono in molti a far fronte, ripetendo cose appartenenti al comune buon senso prima ancora che a una qualsiasi informazione storica o culturale. Peraltro, l’insistere sulla debolezza delle ragioni per cui si presume di potere o dovere rifiutarsi a qualsiasi celebrazione del 1861 e addirittura di tutto il Risorgimento produce i suoi frutti. Contro le apparenze, le tirate antirisorgimentali e antiunitarie appaiono sempre più come un abbaiare di cani alla luna. È vero, però, che questo sembra essere più evidente al Nord che al Sud; e ciò è piuttosto paradossale, considerando che certo le posizioni e le tendenze contrarie al federalismo predicato soprattutto dalla Lega Nord sono assai più forti al Sud che al Nord.
Spiegare il paradosso non dovrebbe essere difficile. Abbiamo già altre volte notato che le critiche al Risorgimento e all’unità, a parte la loro discutibilità e irricevibilità, debbono essere, tuttavia, considerate come un sintomo da non sottovalutare delle nostre difficoltà presenti. È ben noto il caso dei fenomeni per cui si rovescia sul passato tutto il peso dei problemi di oggi, onde questo rovesciamento assume le vesti di un drastico revisionismo storico e porti a costruire una “vera” storia contrapposta alla “falsa” storia “ufficiale”. Il succo è che, se oggi, siano all’inferno, lo dobbiamo ai peccati del passato, per di più non commessi dai nostri avi, ma di chi li oppresse e li ridusse a mal partito.
Senonché, occorrerebbe anche chiedersi che cosa, attraverso un tale procedere, si costruisce di valido e di fecondo, di effettiva chiusura del deprecato passato e di effettiva apertura del presente al futuro. Anche qui la risposta è facile. Non si costruisce nulla né di valido, né di fecondo, né rispetto al passato, né rispetto al presente o al futuro. Si rimane ancorati a una geremiade che fa danno in quanto tale, prima ancora che per le fuorvianti mitizzazioni o falsificazioni o deformazioni del passato, sulle quali si fonda, e che, come spesso si vede nei discorsi odierni soprattutto dei ceti borghesi del Mezzogiorno, per cui anche chi non è per nulla borbonizzante o nostalgico del borbonismo ripete, tuttavia, quasi per una coazione ad hoc, le presunte “verità” e “scoperte” della cultura o, molto più spesso, sub-cultura antiunitaria.
Tutto ciò davvero non porta da nessuna parte. Oltre tutto, si rilascia con ciò ai meridionali dell’800, che vissero la vicenda del Risorgimento e dei primi decennii dell’unità nazionale, una patente di sciocca inettitudine, di miopia storica e politica, di ottusa inintelligenza di ciò che avveniva sotto i loro occhi e a loro danno, che quei meridionali certamente non meritano. Ma, se poi meritassero la patente di inetti e sciocchi, sarebbe ancora peggio. Ben poco ci sarebbe da sperare per il futuro di una gente che dichiarasse di aver visto passare, inerte, sotto i suoi occhi tanti suoi danni e rovine, e, considerata la parte per nulla trascurabile dei meridionali dell’Italia unita, di aver attivamente partecipato a tali danni e rovine.

L’IDEA DI LIBERTÀ – Pochi concetti sono così legati alla tradizione e al pensiero europeo come quello di “libertà”, e in particolare nel suo senso civile e politico. Altrettanto, e ancor più, europea è l’idea di un “regime di libertà”, di quella, cioè, che, con un termine improprio, si è poi finito col designare come “democrazia”. Non che in altre parti del mondo non si siano avuti regimi di questo tipo, mai però confrontabili con quanto si è sperimentato e fatto in Europa. Qui, inoltre, l’idea ha conosciuto un continuo sviluppo, ma senza venir meno al suo nucleo originario, neppure quando e dove le condizioni del contesto storico erano le più ostiche.
Nel mondo antico, ad esempio, le democrazie di Grecia e di Roma coltivarono la libertà in regimi in cui liberi era solo una parte dei cittadini, mentre un’altra parte non ne aveva i pieni diritti, e per i servi e per gli schiavi addirittura non c’era alcun diritto. La libertà consisteva allora essenzialmente, sul piano politico, nel poter prendere la parola e parlare liberamente nelle assemblee cittadine, per influenzarle e determinarne le decisioni. Il tirannicidio, da un lato, e le guerre contro i persiani, dall’altro, furono, a loro volta, simboli fondativi di questa prassi di libertà.
Quella del tiranno è una figura molteplice: dal detentore di un potere usurpato e illegittimo, rispetto a regimi precedenti, ritenuti regimi di libertà, si va fino a chi nel quadro del regime governa in modo arbitrario e personale, con una logica di potenza e di arroganza del potere, senza fare il debito luogo alla società civile. Uccidere il tiranno costituì, perciò, un’azione memorabile, e i tirannicidi furono sempre famosi, fino ai romani Bruto e Cassio, avversi a Cesare, così come Catone, suicida per non sottostare al tiranno, e glorificato da Dante in nome della «libertà ch’è sì cara – come sa chi per lei vita rifiuta». In Roma, poi, maturò pure l’idea della libertà come imperio della legge: è libero chi obbedisce solo alla legge, che diventa così la massima garanzia della libertà (sub lege libertas).
Le guerre coi Persiani portarono, a loro volta, a identificare la libertà con l’indipendenza: l’indipendenza delle città-stato greche, quadro basilare dell’identità e delle tradizioni elleniche. Nella Persia, però, i Greci vedevano anche l’onnipotenza del sovrano, al quale i cittadini, ridotti a sudditi, si inginocchiavano come dinanzi a un dio-padrone. La libertà-indipendenza si saldava, così, con l’idea della libertà-dignità, presupposto della libertà dei cittadini.
Questo patrimonio delle idee di libertà politica si eclissò nella tarda età antica e nel Medioevo. Si affermò l’idea stoica e poi cristiana per cui la vera libertà è quella dello spirito, la libertà interiore. Bisogna giungere ai tempi dei Comuni perché, specie in Italia, riappaiano tematiche analoghe a quelle del mondo greco e romano. Il tirannicidio classico ridiventa un mito umanistico. L’opposizione tra libertà (conflitto) e ordine (pace) è un tema ricorrente nell’Italia rinascimentale, in cui Firenze s’identificò con la libertà e Milano con l’ordine. Di fronte a Firenze, incapace di governare i suoi conflitti interni, si affermò, poi, il mito di Venezia, in cui indipendenza e libertà erano garantite dalla sapienza dell’oligarchia cittadina. Non era più, però, la contesa aperta, nella libertà fiorentina, tra le forze cittadine. Nascevano due diverse tendenze della libertà: l’una conservatrice per la sicurezza, l’altra democratica per il pluralismo.
Un errore molto diffuso porta a credere, a sua volta, che l’idea della libertà politica e civile non abbia tratto nulla dall’esperienza medievale. Ne derivò, invece, la prassi di immunità, privilegi, particolari diritti o competenze, riserve di servizi e attività e altri simili elementi, ben presto concepiti come libertates, che aiutarono il passaggio da una concezione generale e unitaria della libertà alla nozione di singole libertà concrete: il passaggio, per dirla all’inglese, dalla liberty (la libertà come concetto filosofico, morale, politico-istituzionale) alle freedoms (la libertà come condizioni e diritti specifici e concreti nella vita politica e sociale).
Non è molto persuasivo, perciò, vedere un’antitesi netta tra l’idea di libertà degli antichi e quella dei moderni, secondo il giudizio famoso di Benjamin Constant, se si prescinde dalle differenze generali nella condizione generale degli uomini come individui e in società, a cominciare da quella basilare della fine della schiavitù. Le novità dei moderni sono state cospicue, ma stanno, piuttosto, da un lato, nella crescente conversione dei principii generali della libertà in un quadro specifico e determinato di condizioni e di diritti: un quadro in progressivo e grandioso incremento. Dall’altro lato, le novità appaiono legate a una definizione istituzionale dei regimi liberi, congiunta a una progressiva specificazione, tutela e sviluppo degli elementi costitutivi della libertà dei cittadini, che è il principio e il fine di tali regimi.
Il risultato è la commistione della liberty e delle freedoms realizzata nell’idea moderna della costituzione, diventata dal tardo ’700 in poi la pietra angolare di un regime libero sia nell’Europa continentale, sia nei paesi anglo-sassoni, benché nell’Inghilterra, loro capostipite, una costituzione non esista, mentre il libero regime di quel paese, antesignano e prototipo di tutti gli altri, si è via via consolidato con una costante accumulazione di diritti e di prassi liberali. Il pensiero politico moderno ha, inoltre, elaborato varii concetti, che, individuando nella libertà il valore fondamentale della vita morale e civile dell’uomo sia come singolo che in società, hanno costituito una robusta teoria di questo valore e delle sue traduzioni istituzionali. Da John Locke e dai suoi Trattati sul governo fino ai pensatori del XX e XXI secolo si è stesa così una catena che ha ripensato e sviluppato tutti i temi della libertà, antichi e moderni: partecipazione al potere, indipendenza nazionale, la legge come garanzia di libertà, necessità che la libertà viva in istituzioni e prassi istituzionali e in diritti reali e diffusi, il sistema rappresentativo per un soddisfacente esercizio individuale e sociale della libertà, e così via.
L’affermazione della libertà come struttura della vita civile non è mai stata pacifica. Ovunque la si è imposta con assidue lotte contro poteri assolutistici per natura o tendenza, laici ed ecclesiastici.
Non per nulla, una incubatrice delle idee moderne di libertà è stata dal ’600 in poi l’idea di tolleranza: grande progresso rispetto al passato, ma non equivalente, né surrogabile all’idea di libertà. E da ciò è pure derivata l’idea liberale dello “Stato debole”: uno Stato, cioè, non invasivo, limitato nei suoi compiti, e così messo al riparo dalle tentazioni ricorrenti del potere a invadere la vita sociale e privata. Di contro, si è, invece, esaltata la parte dello Stato come fattore e agente di libertà. Se la libertà economica fa esaltare il mercato e la libera iniziativa, l’individuo e le sue capacità, la libertà civile fa richiedere la tutela dei deboli, la priorità della comunità rispetto all’individuo, pur garantito nei suoi diritti, e una congrua politica sociale. La libertà da si è affiancata così alla libertà di. Il liberalismo si è incontrato e scontrato con la democrazia, ma il loro urto è stato benefico per entrambi, radicando le idee dell’equità, se non della giustizia, sociale nel primo, e le idee dei diritti e delle libertà individuali e politiche nella seconda. Ne sono nate le liberaldemocrazie occidentali, che, sempre oscillanti tra lo Stato debole e lo Stato sociale, in questa oscillazione trovano una ragione di compatibilità e di armonizzazione storica più forte di ogni teoria, nonché la via di un progressivo incremento dell’idea di libertà e del regime di libertà.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft