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Togati, terzietà e politica: un caso dell'età moderna
di Rossana Sicilia
1. L’etica di un togato

Il privilegio indirizzato al togato Antonio de Montalto, con il quale Ferrante d’Aragona lo nomina reggente della Vicaria, il 4 settembre 1483, appare come il decalogo del buon amministratore. In esso il sovrano delinea le regole del comportamento, i compiti e le attenzioni che il togato deve portare durante lo svolgimento della sua funzione nel rispetto del diritto positivo del Regno e nell’interesse dei sudditi.
Come si desume da molti altri privilegi della Corona asburgico-aragonese, agli “uomini di legge” deve essere connaturato un comportamento superpartes da tenere ed esercitare nello svolgere la loro funzione nell’ambito delle istituzioni dello Stato. Il loro impegno consiste nel riuscire a far percepire la correttezza da esplicare nell’applicazione dello ius iudicandi, così da garantire una condizione di tranquillità e di serenità ai sudditi. Ciò è possibile solo grazie all’obbligo da essi assunto verso lo Stato «di condurre la loro attività con grande diligenza e senso del dovere. Tale obbligo consiste nell’amministrare la giustizia senza eccezione alcuna e senza gravare, con decisioni mosse dal rancore o dall’odio personale, nei confronti degli inquisiti. Prerogativa dell’“uomo di legge” deve essere quella di considerare la dignitas dei “fidelium dicti regni”, siano essi miserabili o poveri, senza percepire compensi in denaro dopo aver espresso un giudizio. È loro dovere proteggere coloro i quali hanno avuto un comportamento dignitoso, all’insegna del rispetto della giustizia e quindi, dopo aver giudicato stimabile la loro condotta, dispensare favori e incoraggiare quei sudditi fedeli alla causa del sovrano. È loro dovere punire, invece, con forza coloro i quali, mostrando audacia, agiscono con ostilità e avversità nei confronti del sovrano stesso. Questi ultimi devono essere giudicati e amministrati attraverso l’applicazione delle prammatiche e dei capitoli emanati per la buona conduzione del Regno»1.
È esemplare, per rimarcare le prerogative del comportamento dei letrados e le caratteristiche del rapporto di fiducia nutrito dai sovrani nei loro confronti, la descrizione di un cronista cinquecentesco come Diego Hurtado de Mendoza, probabilmente autore della Guerra de Granata:
I re cattolici posero l’amministrazione della giustizia e gli affari pubblici nelle mani dei letrados, gente a metà strada fra i grandi e i piccoli, senza offendere né gli uni né gli altri; e il loro compito era con carte legali, moderazione, segretezza, verità, di riunirsi, ad ore stabilite per ascoltare cause o risolverle e sovrintendere al bene pubblico. Il loro capo è detto presidente, più perché presiede a ciò di cui ci si occupa e decide ciò di cui ci si deve occupare e vieta ogni tipo di disordine, che perché effettivamente comanda sugli altri. Questo modo di governare, sebbene istituito con meno diligenza, si è andato diffondendo per la cristianità2.

In definitiva, la «buona conduzione del Regno» presuppone da parte di tali personalità – con la delega sovrana ad amministrare la giustizia, a far applicare il diritto, a espletare il rispetto dei capitoli e delle prammatiche vigenti, oltre a fornire pareri e consigli nella formulazione di nuovi atti legislativi conformi alle statuizioni correnti e innovative rispetto alle esigenze contingenti e nuove che si prospettano al sovrano – il dovere di osservare una serie di regole morali e giuridiche. Tali regole permettono di realizzare la condizione di terzietà che solo gli “uomini di legge” possono esercitare, senza coinvolgimenti personali e con l’obbligo di salvaguardare la diversa provenienza sociale degli inquisiti. Essi devono testimoniare, attraverso il loro stile di vita: probità di costumi, virtù e pratica della scienza del diritto, doti morali e professionali, qualità alle quali mirabilmente durante il corso della loro vita hanno dato e devono dare decoro.
Tali regole riconosciute dal consenso comune e implicite nell’espletamento della loro attività, sono ispirate dal credo personale. Questo motu proprio li porta a una tensione ideale espressa nella
volontà di legittimare tutta la storia recente del loro paese anche per esaltarne l’individualità attraverso la tradizione. Nell’uso delle forme avite, e nella continuità monolitica della tradizione, come fonte dell’autorità presente e della sovranità in atto, essi vedevano realizzarsi e tradursi in pratica le loro più riposte e profonde convinzioni teoriche [...]. Il giurista celebrava la propria altissima opera nella stesura del testo, dove egli interpretava la funzione di chi più ancora che mediare, lo legittimava e consacrava. Tale presenza costitutiva e qualificante del doctor iuris si protraeva in tutte le fasi successive di applicazione dell’atto, quando la sua opera di interprete era diretta a realizzare un’ulteriore conferma della continuità3.

Nell’esercizio del loro incarico, portato avanti al’insegna di un comportamento implicito nella condizione di terzietà, alcune di queste figure hanno svolto compiti funzionali alla prassi politica attuata dai sovrani e dall’imperatore. Essi sono giunti a far coincidere la qualità loro connaturata di garanti super partes del diritto positivo del Regno con quella di interlocutori attivi e propositivi nell’ambito del governo napoletano, a fianco dei “Grandi del Regno”, feudatari o aristocratici che fossero. Hanno costituito e caratterizzato, anche attraverso il loro apporto, la classe dirigente del Regno, così da convergere verso un obbiettivo comune, da identificarsi nella difesa e tutela della ragion di Stato.
In particolare, nell’élite dirigente del Consiglio Collaterale confluiscono, ad esempio negli anni Venti del XVI secolo, sia personalità di “Grandi del Regno” sia figure di “Grandi togati”: Andrea Carafa, Conte di Santa Severina; il reggente Montalto, per un breve periodo decano del Collaterale; il reggente de Colle, il presidente e vice-protonotario Cicco de Loffredo, Geronimo de Francesco, luogotenente e magno camerario; Simone Rumpi, reggente generale della tesoreria. I togati che costituiscono il Consiglio, insieme ai “Grandi del Regno”, svolgono funzioni di dirigenza politica, amministrativa e finanziaria. Inoltre, vigilano ed esercitano un controllo sul corretto funzionamento e sull’efficienza degli uffici statali, dal centro alla periferia. Il controllo si estende alla gestione delle risorse fiscali sul piano locale, tanto che, in un caso specifico, il reggente della Cancelleria Montalto interviene a Manfredonia, per vietare che gli introiti delle gabelle vengano utilizzati in modo improprio. Il loro compito di supervisione si allarga anche alla salvaguardia delle condizioni della salute pubblica del Regno, così da riscontrare eventuali pericoli di epidemia e prendere precauzioni, custodendo i confini marittimi e terrestri4.
In alcune occasioni i togati svolgono un ruolo attivo, elaborando proposte politiche ed è lo stesso sovrano a recepire tali suggerimenti. Tra il 1524 e il 1525, Carlo V si rivolge a uno dei reggenti della Cancelleria napoletana, col quale il sovrano intrattiene una serie di contatti epistolari e personali per trattare una importante questione politica. In un memoriale inviato al Collaterale fa riferimento proprio a tali contatti e, riprendendoli, afferma: «se referia a lo que mas cerca dello nos dixiesse lo magnifico miçer Sigismundo de Loffredo rigente nuestra cancellaria y del nuestro consejo». Addirittura in un frangente tale confronto sfocia in un incontro tra il sovrano, il Loffredo e il vicerè, in cui si concordano le direttive essenziali da collocare alla base di un provvedimento da assumere per il governo del Regno, che prevede l’esclusione dal Collaterale di giustizia dei «membri laici, grandi feudatari»5.


2. Togati e beneficio feudale

Tale rapporto di fiducia tra il sovrano e i togati trova la sua consacrazione nel beneficio attribuito a queste personalità, offrendo loro un feudo. Dopo la guerra con i francesi del Lautrec e con Clemente VII, si determinano nuove emergenze sociali realizzate attraverso un interscambio fra i disertori, depauperati dello status simbol rappresentato dal feudo, e i fedeli della monarchia. Questi ultimi acquistano un feudo o lo ricevono in omaggio. È il caso del reggente de Colle, al quale viene donata la baronia di Montaperto in Principato Ultra; del reggente Morone, con il ducato di Boiano e la Terra di Caivano; del reggente della Vicaria Federico Urries divenuto titolare di varie baronie in Terra d’Otranto; del luogotenente della Sommaria de Francesco, acquirente del feudo di Campochiaro, nel Molise, e di quello di Rocca Romana6. Altri esempi di “Grandi togati”, destinatari di un feudo in funzione del loro cursus honorum, ma anche di concreti interessi economici e finanziari, manifestati nell’area pugliese, sono quelli dei Muscettula. Inoltre, il catalano Francisco Reverter, figura di rilievo della Cancelleria napoletana, acquista feudi confiscati al principe Sanseverino di Salerno7.
L’omaggio feudale simboleggia al meglio il rapporto diretto di fiducia stabilito da alcune di queste figure di “Grandi togati” con il sovrano, quasi a sanzionare un legame con peculiarità intrinseche nuove. Tale rapporto, per germogliare, testimonia l’auxilium e il consilium, emergente come di natura diversa, per alcuni aspetti, da quello offerto dai “Grandi del Regno” e che, in qualche misura, può apparire alternativo. È il caso del reggente Morone, nel delicato finale del conflitto con i francesi, protagonista di una corrispondenza diretta con il sovrano, fino a proporre soluzioni, di notevole utilità per il Regno, per affrontare il grave problema costituito dalla pericolosità della permanenza delle truppe imperiali e spagnole sul territorio napoletano. Del resto, il disegno spagnolo volto al ridimensionamento delle più importanti aggregazioni feudali, perseguito nel triennio 1528/30 colpendo i rei di Stato, non impedisce l’emergere di nuove compagini feudali gravitanti attorno ad ufficiali regi come appunto il Morone, a piccoli feudatari o anche ad uomini d’affari dei quali è provata la fedeltà alla Corona e le loro capacità come nuove élites dirigenti.
Un quadro dettagliato delle competenze e del ruolo svolti nell’ambito di una istituzione politico-amministrativa come è il Collaterale dai “Grandi del Regno” e dai “Grandi togati” viene offerto in una missiva a Carlo V del Luogotenente del Regno, il Cardinale Colonna. Per quest’ultimo nel Consiglio operano i cavalieri che sono a conoscenza di «cosa è governare» e «cosa è fare guerra». Essi quando si presenta l’eventualità di un disordine in una provincia del Regno sono in grado di agire e reagire, mentre i dottori non hanno simili capacità. I reggenti, invece, «omni exceptione maiores» sono gli unici in grado di amministrare giustizia, poiché il più delle volte i vicerè non hanno competenza in tale materia. Ma, nell’eventualità di cause di una certa importanza e da giudicare in Consiglio, la loro determinazione non può dipendere dal contributo di soli esponenti togati. Secondo il parere del Colonna, oltre ai due cavalieri si devono inserire nel Collaterale due validi dottori, i quali insieme ai Reggenti abbiano cognizione delle cause e capacità di determinazione.
Per il Cardinale le direttive da prospettare per il buon funzionamento e per assicurare l’efficienza della classe dirigente operante nel Consiglio richiedono la presenza di requisiti fondamentali. Tali presupposti sono garantiti esclusivamente dalla specificità dei ruoli e delle competenze che ogni membro del Collaterale deve mettere in campo, in ogni aspetto decisionale riguardante il governo dello Stato. Il Colonna evidenzia, perciò, come debbano essere sfruttati e messi al servizio dell’organismo l’esperienza e la professionalità dei due «cavalieri». Costoro dovrebbero possedere l’ulteriore requisito di «onorati» per l’attività svolta sul campo di battaglia e grazie all’impegno nella politica. Tale onorificenza è riconosciuta dal sovrano, che concede la dignità di “Grandi del Regno”. Per quanto concerne l’amministrazione della giustizia, solo coloro i quali, attraverso la prassi professionaIe, hanno avuto modo di testimoniare qualità e capacità nell’espletare competenze di alto valore giuridico e sono emersi raggiungendo il vertice del governo, sono definiti «maiores» una qualità in grado di collocarli, anche al cospetto del sovrano, a fianco dei “Grandi”. Accanto ai militi e ai togati, per il Colonna, dovrebbero essere collocati in Consiglio anche due dottori, perché insieme ai primi due gruppi, abbiano «cause cognitionem et determinationem», in quanto sono radicati nella vita sociale e istituzionale del Regno e sono l’espressione delle esigenze e delle aspettative popolari8.


3. Sigismondo de Loffredo

Sigismondo de Loffredo è un esempio esplicativo e di alto valore delle potenzialità messe in campo dai togati come élite di governo – in grado di elaborare idee politiche, così da far convergere nella stessa persona il ruolo di garante del diritto del Regno e quello attivo e propositivo implicito nella classe dirigente9. Egli sanziona e accentua proprio il ruolo assunto da tali figure, a partire da Alfonso il Magnanimo utilizzate a fianco del sovrano. Tale ruolo il Loffredo riassume e suggerisce, con razionalità e perspicacia, nella sua qualità di reggente del più alto organismo di governo napoletano.
I suoi interventi si inseriscono con un contributo originale nel dibattito preliminare allo svolgimento del Parlamento, nel 1531. Egli parte dalla convinzione che «in lo Parlamento si tractarra principalmente la nova numerazione deli fochi del Regno» e che la convinzione del sovrano di compiere una «cosa pia» non ha possibilità di trovare riscontro nella realtà, in quanto «tucti li pagamenti fiscali [...] sono alienati piu de ducento trentamilia docati». Inoltre, secondo la previsione del reggente, la nuova numerazione constaterà una diminuzione dei fuochi e non ritiene «entrarranno in thesoreria tanti denari che vostra maesta con epsi possa pagare lo ordinario del Regno». A questo punto, considerata la volontà del sovrano di effettuare la numerazione, il togato ritiene necessario che se «imponesse tre carlini per cada foco, perche con quisto additamiento se compensarria lo danno de la dicta diminuzione de fochi». Ma il Loffredo non è favorevole a tale soluzione e irrompe con un’affermazione dalle forti implicazioni etiche e politiche: «non lasserro de avisare ad vostra maesta come al volte le ho dicto che serria multo gran servitio suo et descargo de conscientia recuperare li pagamenti fiscali alienati [...] perche questa e renta che el Regno la ha deputata a la Corona Regale per la substentatione del Regno». Il credo politico del Loffredo è noto al sovrano. Evidentemente, è una coscienza politica matura e radicata che gli consente di rivolgersi con toni abbastanza duri all’imperatore, suggerendogli «ciò che è bene fare per lo Stato o per la Corona Regale». L’appassionata e propositiva lettera del Reggente si conclude sostenendo: «per quanto [...] al presenti si e parlato non si pensa in el parlamento tractare altro che lo servitio che li populi haveno da fare dove multa poverta. Et de li ricchi non si fa mentione»10.
L’anno successivo, nel 1532, in ogni passo di un’altra missiva inviata all’imperatore, sono tangibili le capacità politiche maturate da questi funzionari nel tempo e attraverso tale attività amministrativa e politico-istituzionale. Queste esperienze sono sfociate in un’abilità politica di notevole rilevanza, fino a confluire e identificarsi con il partito che difende il diritto alla sopravvivenza dello Stato. È quanto riassume e suggerisce, con razionalità e perspicacia, il reggente Loffredo, in seguito a una discussione tenutasi nel Collaterale. Egli indirizza una missiva in cui informa il sovrano sui temi affrontati in Consiglio e testimonia una notevole conoscenza della situazione del Regno, sottoposto al pericolo turco. Il reggente sottolinea come «la provisione contro le cose del turco e piu pericolosa de quella ha da fare contra altri potentati per che quella e maior potentia et per questo bisogna fare piu gagliardi rimedi». Ricorda, inoltre, di avere proposto in seno al Consiglio la necessità per il marchese d’Alarcón – da lui considerato come l’unico grande condottiero, al momento, presente nel Regno, per l’assenza del marchese del Vasto e del de Leyva – di recarsi a fortificare i castelli di Terra d’Otranto, in prima linea per un eventuale attacco turco. Per il reggente è, inoltre, consigliabile una mobilitazione generale dei baroni. Costoro devono provvedere al reclutamento di un uomo per ogni dieci o dodici fuochi tra i loro vassalli, consentendo così di poter armare un esercito di almeno 30mila uomini. Egli rimarca al sovrano come in questa fase sia questo il sacrificio possibile da chiedere al Regno, dopo aver ottenuto di recente il donativo di 600mila ducati11.
Una personalità meglio in grado di incarnare il ruolo di alter ego del sovrano nel Regno di Napoli è Don Pedro de Toledo. Egli, all’indomani della
sua nomina, in una serie di memoriali inviati all’imperatore sulle condizioni generali del governo del Regno, dedica una particolare attenzione al Consiglio Collaterale, descrivendone la composizione. Dalle note del Toledo emerge un organismo capace di svolgere un’attività con ruoli lineari e i cui componenti si muovono organicamente, presentando competenze poliedriche e caratteristiche molteplici. AIla data della redazione del documento il Consiglio è composto da sette elementi e il vicerè, nell’elencazione, fissa un ordine di presentazione non casuale. I primi due sono “Grandi del Regno”: il duca di Montalto, Fernando de Aragon, che «es onrrada persona y de buen consiglio», ma «viene muy pocas vegez al consegiio o casy ninguna»; il marchese di Alarcón che «es onrrada persona pero mas combiene para dalles hautoridades y hazerles merced que para tomare su consejo [...]». Successivamente, indica e valuta i reggenti di Cancelleria. Particolarmente positivo è il giudizio sul de Colle che «es buon letrado y muy onrrado y provechoso por que tiene mucha espyrencia y en el tiempo que yo he estado aqui ha vivido y servido V.M. como conviene al cargo que tiene». Del reggente Loffredo mette in evidenza la grande competenza in materia feudale, importante poiché costituisce uno dei temi di maggiore attenzione per l’attività del Collaterale in quanto organismo di alto profilo politico e giuridico, ma «es muy apasionado tanto que servia mejor abogado que para juez». Infine, sul reggente Figueroa emette un giudizio positivo, ma sottolinea anche le sue difficoltà economiche «porque vive limpiamente». Sul tesoriere del Regno, Sanchez, e sul segretario Martirano offre giudizi nel complesso positivi. L’attenzione del vicerè si rivolge anche alle altre istituzioni centrali del Regno dove il ruolo svolto dai letrados risulta fondamentale. Ritiene necessario, ad esempio, un prolungamento triennale dell’attività dei giudici della Vicaria, i cui mandati di durata annuale richiedono, invece, maggior tempo a disposizione per emettere sentenze equilibrate e per lasciare lievitare nel tempo la dignitas del “buon amministratore”. Interviene sull’andamento della Sommaria sottolineando come il de Francesco sia ormai troppo anziano per il ruolo che svolge. Egli giudica riprovevole la confusione instaurata dal luogotenente tra vita privata e lo svolgimento della sua attività d’ufficio, nella quale ha coinvolto il figlio in quanto «es inabyl». È del tutto positivo, infine, il giudizio sul Sacro Regio Consiglio e sui «letrados» che vi operano in quanto personalità che hanno testimoniato un alto profilo giuridico e professionale12.
A questo proposito Carlo V in una prammatica del 1536 elenca disposizioni per razionalizzare l’organizzazione, delineare e meglio stabilire l’attività istituzionale riguardante la Sommaria, la Vicaria e le Udienze provinciali. Fissa i compiri e individua il ruolo dei togati e dei giudici operanti in tali istituzioni. Costoro devono essere prescelti in funzione dei loro meriti e delle loro capacità professionali e vieta che a condurli verso l’incarico siano raccomandazioni o peggio ancora forme di corruzione in denaro o in beni13.


4. Bartolomeo Camerario

Il sovrano, già nel maggio 1531, anticipa le linee programmatiche avanzate
nella prammatica del 1536 e nelle motivazioni di nomina del magnifico Bartolomeo Camerario, dottore in utroque iure, all’incarico di presidente della Sommaria, elenca le specificità e le qualità del togato. Il sovrano è a conoscenza della profonda dottrina, della correttezza nello svolgimento degli uffici e di tutti i servizi resi al sovrano e allo Stato in tempi diversi e, in particolare, dell’aiuto fornito alla monarchia nelle ultime turbinose vicende del conflitto con i francesi14. A distanza di qualche mese, nell’ottobre, rinnova e riprende le stesse motivazioni quando lo incarica di svolgere il compito di segretario delle province di Terra d’Otranto e Bari. Profonda è l’attenzione rivolta dall’imperatore agli uffici periferici anche quando si tratta dell’esercizio di uffici minori. Egli prevede come tali incarichi debbano essere esercitati con il maggiore impegno e diligenza possibile. È proprio il Camerario per la sua notorietà nella dottrina e nella correttezza negli affari pubblici che Carlo predilige per perseguire tale fine15. Un anno dopo il togato rivendica trecento ducati vitalizi per gli uffici di maestro portulano e mastro di camera della provincia di Principato Ultra, affidatigli come riconoscimento dei suoi meriti. Tali incarichi, vacanti per la morte di Antonio Fontanella, gli erano stati concessi al tempo del vicerè Filiberto de Chalon, principe di Orange. Nel nuovo frangente il Camerario chiede la conferma della carica di mastro portulano della provincia di Principato Ultra. La richiesta e quindi la nuova concessione gli viene accordata per «probitatem doctrinam sufficientiam integritatem legalitatem ceterasque virtutes» e per i suoi trascorsi militari e di presidente della Sommaria16. Con il privilegio del 1536 egli assume una carica che sembra segnare la conclusione felice di una carriera di magistrato. In qualità di Conservatore generale del Regio patrimonio, ha compito di trattarne tutti gli affari sia come membro del Collaterale, sia nella Sommaria e in ogni altro organismo statale17. L’eccezionalità di un simile riconoscimento di cui è stato destinatario il Camerario presenta particolarità, mai verificatesi prima, nella prassi istituzionale adottata in riferimento all’assegnazione delle funzioni burocratiche. Tale condizione esclusiva e specifica del togato Camerario viene interrotta e, infatti, un privilegio dell’11 novembre 1539 concede al letrado la carica di primo presidente della Sommaria. Egli nella gerarchia dell’istituzione viene situato subito dopo il luogotenente, uno dei Sette grandi ufficiali del Regno. Un simile riconoscimento colloca il Camerario al vertice effettivo dell’istituzione, ma come conseguenza gli viene sottratta la carica di Conservatore generale del Regio patrimonio con un forte depotenziamento, quindi, del suo ruolo politico-amministrativo e della sua capacità decisionale nel Collaterale e nella Sommaria18.
In modo più organico, per Muto, come conseguenza della nomina del Camerario a Conservatore generale del Regio Patrimonio, la politica vicereale si orienta verso una forte centralizzazione dell’attività della Sommaria. A livello centrale, al suo interno trovano posto, ora, la Scrivania di Ratione e la Tesoreria Generale, mentre nelle province sono alle dipendenze dell’istituzione i percettori, i doganieri, i commissari e gli arredatori. Nella Sommaria vengono modificati i criteri per la redazione dei catasti da parte delle università e per la conservazione delle scritture camerarie. Muto ricostruisce l’azione politico-istituzionale del Camerario, offrendo notizie dettagliate sullo scontro con il vicerè e, alla fine, il reggente viene sostituito. I termini dello scontro, vedono l’azione del magistrato «tesa a ristrutturare le istituzioni in un quadro efficientista ma tale da ricomporre le eventuali tensioni senza alterare i fragili equilibri sociali». L’atteggiamento del vicerè è ispirato da motivi esclusivamente politici, «rivolta a fondare un equilibrio strategico nuovo basato sull’alleanza tra corona e ceto togato». Nel corso del 1543, il vicerè Toledo avoca a sé la “commessa generale”, cioè la distribuzione delle cause tra i vari presidenti della Sommaria. Si tratta di un provvedimento teso a ledere l’autonomia del luogotenente, sottoponendo una scelta così delicata a decisioni esclusivamente politiche. La decisione del vicerè viene accettata dal vertice della Sommaria (luogotenente e presidenti), ad eccezione del Camerario. Questi per la sua contestazione viene sospeso dalla carica e sottoposto a un’inchiesta, in un processo conclusosi con la sua condanna e l’estromissione dall’ufficio19.


5. Galeotto Fonseca

Opera nel Sacro Regio Consiglio Galeotto Fonseca una personalità presente, anche se con interruzioni, nell’istituzione sin dai tempi del Cattolico. Egli rappresenta una di quelle figure destinatarie di una fiducia rinnovata, impersona e svolge nell’apparato istituzionale napoletano il ruolo del “traghettatore, garantendo la continuità del diritto positivo e costituzionale del Regno, nonostante l’avvicendarsi dei sovrani. Nei suoi confronti, il 2 luglio 1532, Carlo V si rivolge per sciogliere un debito di gratitudine. Fonseca si è distinto in occasione dell’invasione francese, testimoniando sentimenti di fedeltà e grande valore militare, così da combattere strenuamente fino al punto di essere fatto prigioniero da nemici ed essersi dovuto riscattare con risorse proprie. Per queste benemerenze, l’imperatore gli attribuisce una pensione annua di 200 ducati sulla rendita dei fuochi fiscali della terra di Cisternino20. L’anno successivo il sovrano promuove il suo disegno politico perché venga garantita l’amministrazione della giustizia nel suo impero e sia reso e riconosciuto a ciascuna collettività il rispetto del diritto. Tenendo conto di tali premesse, Carlo V decreta nel Regno l’aumento del numero dei dottori e dei giudici del Regio Consiglio di Santa Chiara, in relazione alla crescita del numero delle cause celebrate nella città di Napoli. Per l’imperatore il Fonseca può esercitare il compito di giudice in maniera degna, in quanto sono in suo possesso doti precipue e peculiari, perciò gli concede, nell’aprile del 1533, di rientrare a far parte del ceto e del consorzio dei giudici e dottori e lo nomina, ancora una volta, nel tribunale di Santa Chiara21.
Sempre al de Fonseca, dottore in utroque iure e fedele consigliere, si rivolge Carlo V, nel 1536, sottolineando come sia peculiare ai grandi principi e sovrani mostrare e testimoniare gratitudine, liberalità e beneficio, a personalità ritenute meritevoli e benemerite, e questa attitudine del principe è considerata in modo positivo e favorevole dai sudditi, poiché incita altri regnicoli a seguire l’esempio di queste figure di eccezionale prestigio e valore in termini di fedeltà e di servizio regio. In base a tali premesse, l’imperatore si rivolge al de Fonseca, ricordando i debiti di gratitudine e di ossequio nutriti già da parte dell’imperatore Massimiliano nei suoi confronti per tutto quanto aveva compiuto durante le guerre combattute in Italia e, in particolare, nella battaglia di Vicenza. Carlo V ricorda, inoltre, il suo attivismo volto alla difesa del Regno, in pace e in guerra, durante il viceregno di Raimondo de Cardona, e sottolinea soprattutto il ruolo svolto dal de Fonseca durante l’ultima invasione da parte dei francesi. Si è distinto nella provincia di Terra d’Otranto e Bari, dove ha svolto i compiti di uditore e avvocato fiscale. Nel corso delle vicende belliche, egli non solo ha messo in luce la sua prudente e sagace attività di consigliere e governatore, ma ha testimoniato anche capacità di strenuo combattente in episodi militari, in particolare, nella conquista della città di Monopoli, occupata dai francesi e presa d’assedio dai soldati spagnoli. Nel corso della guerra ha offerto al sovrano anche il proprio sostegno finanziario e in vettovaglie, per sconfiggere i nemici, e proprio durante le operazioni belliche, dopo essere stato catturato dai veneziani, è stato incatenato alle loro galere. Successivamente, è stato liberato dietro pagamento di mille ducati. La sua condotta militare e la testimonianza del suo impegno al servizio dello Stato hanno determinato nel sovrano la scelta di inserirlo nel Sacro Regio Consiglio, nel quale ha operato in passato ed opera, e in questo ruolo il sovrano intende mantenerlo. Da parte sua, il vicerè principe d’Orange, ha proposto la concessione in feudo della città e terra di Cisternino, compresa la giurisdizione criminale e il banco di giustizia, con tutti i privilegi connessi, il mero e misto imperio e il gladii potestate. L’imperatore, in conclusione del privilegio, si rivolge al figlio ed erede Filippo, nonché ai titolari delle magistrature del Regno, affinché facciano osservare quanto concesso alla persona di Galeotto Fonseca a titolo vitalizio22.
Nello svolgimento dell’attività politico-istituzionale del Fonseca si individua il concetto di utilità manifestatosi attraverso l’auxilium e il consilium offerto in molte occasioni al sovrano. L’aver garantito utilità ha generato e conferito nei suoi confronti onore e dignità, così da perseguire quello stile di vita proporzionato allo status riconosciutogli dal comune sentire e dal sovrano, ed è questo che costituisce il fondamento della virtù pubblica. Per il Fonseca – Grande del Regno e Grande togato – l’onore, e quindi la virtù, è quanto lo distanzia e lo separa da tutti gli altri uomini, l’onore e la virtù vengono attuate «per il bene dello Stato, per l’interesse pubblico»23. Nella sua figura convergono le qualità implicite nella nobiltà dei “Grandi del Regno”, espresse attraverso l’ausilio militare, nonché nella nobiltà della dignitas, riscontrabile nei “Grandi togati”, manifestata nell’esercizio di funzioni svolte nell’ambito dell’apparato dello Stato. Il suo protagonismo si dirige verso due dimensioni: nell’esplicarsi della virtù dei togati e nella fedeltà, fino al sacrificio della vita, per la ragion di Stato, che è la caratteristica dei Grandi del Regno. Un protagonismo generato quindi da condizioni politico-istituzionali e da tensioni congiunturali, un’alternativa fluida che si risolve e sfocia in un cursus honorum con le caratteristiche della complementarietà24.




NOTE


1Archivio di Stato di Napoli (da ora ASN), Museo, Miscellanea di scritture, 99 A/7, cc. 8r-9v.^
2Citato in J.A. Maravall, Le origini dello Stato moderno, in Lo Stato moderno, vol. I: Dal Medioevo all’età moderna, a cura di E. Rotelli e P. Schiera, Bologna, il Mulino, 1971, p. 89.^
3A. Cernigliaro, Sovranità e feudo nel Regno di Napoli (1505-1557), Napoli, Jovene, 1983, pp. 187-188.^
4ASN, Collaterale, Curie, b. 8, cc. lr, 4v.^
5AGS, Visitas de Italia, Nápoles, legajo 24, cc. 38r-39r.^
6Cfr. G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno spagnolo (1494-1622), Torino, Utet, 2005, pp. 379-380.^
7Cfr. M.A. Visceglia, Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici Napoli in età moderna, Napoli, Guida, 1988, pp. 179 sgg.; A Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, Bologna, il Mulino, 2007, p. 190.^
8R. Sicilia, Un Consiglio di spada e di toga. Il Collaterale di Napoli (1443-1542), Napoli, Guida, pp. 200-203.^
9J.A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, 2 voll., Bologna, il Mulino, 2001, II, p. 593. Sul rapporto di dedizione e sulla fedeltà alla “ragione di Stato” del togato, Maravall afferma che il “funzionario” rivela «un ethos da servitore dello Stato, che opera secondo alcune forme moderne di burocrate, accettando di comportarsi come un elemento di un insieme [...]. Ruota dell’ingranaggio dello Stato, per elevarsi socialmente, deve esaltare lo Stato, che serve con un senso di responsabilità pubblica e di conseguenza [...] deve esaltare il principe in cui soltanto può vedere e sperare che si accentri l’idea dello Stato».^
10R. Sicilia, Un Consiglio di spada e di toga…, cit., pp. 204-206, il documento è in Archivo General de Simancas, (da ora AGS), Estado, Nápoles, legajo 1010, doc. 67.^
11Ivi, pp. 225-226.^
12Cit. in R. Pilati, Officia principis. Politica e amministrazione a Napoli nel Cinquecento, Napoli, Jovene, 1994, pp. 373-376.^
13Cfr. A. Marongiu, La legislazione di Carlo per il Regno di Napoli, in Atti del Congresso internazionale di Studi sull’Età del Viceregno, vol. I, Bari, Bigiemme, 1977, p. 58.^
14Archivo de la Corona de Aragón da ora ACA), Cancílleria, Privilegiorum, Reg. 3939, cc. 179v-181r.^
15Ivi, Reg. 3929, cc. 200v-202r.^
16Ivi, Reg. 3940, cc. 86r-88v.^
17Ivi, Reg. 3944, cc. 210r-212r.^
18Ivi, Reg. 3945, cc. 263-264r.^
19G. Muto, Magistrature e potere ministeriale a Napoli alla metà del Cinquecento, in Diritto e potere nella storia europea, IV Congresso internazionale della Società Italiana di Storia del Diritto. Atti in onore di Bruno Paradisi, Firenze, Olschky, 1982, p. 496.^
20ACA, Cancílleria, Privilegiorum, Reg. 3942, cc. 355r-357v.^
21Ivi, Reg. 3942, cc. 63v-64r.^
22Ivi, Reg. 3944, cc. 184v- 187r.^
23Cfr. R. Mousnier, La costituzione nello Stato assoluto. Diritto, società, istituzioni in Francia dal Cinquecento al Settecento, saggio introduttivo e cura di F. Di Donato, Napoli, ESI, 2002, pp. 50-55. Sugli stessi temi, in relazione a quanto riguarda l’argomento affrontato in questo volume, cfr. M. Weber, Economia e società. IV. Sociologia politica, trad. it., Milano, Edizioni di Comunità, 1995, pp. 34-42; A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, cit., pp. 183-230. Sui temi della nobiltà di toga cfr. R. Descimon, The Birth of the Nobility of the Robe: Dignity versus Privilege in the Parlement of Paris, 1500-1700, in M. Wolfe (a cura di), Changing Indentities in Early Modern France, with a foreword by Natalie Zemondavis, DurhamLondon, Duke University Press, 1997, pp. 95-123; M. Sbriccoli-A. Bettoni (a cura di), Grandi tribunali e rote nell’Italia di Antico regime, Milano, Giuffrè, 1993; E. Brambilla, Genealogie del sapere. Università, professioni giuridiche e nobiltà togata in Italia (XIII-XVII secolo, Con un saggio sull’arte della memoria, Milano, Unicopli, 2005; G. Vitale. Elite burocratica e famiglia. Dinamiche nobiliari e processi di costruzione statale nella Napoli angioino-aragonese, Napoli, Liguori, 2003; P. Gilli, La noblesse du droit. Débats et controverses sur la culture juridique et le róle des juristes dans l’Italie medievale (XII-XV siècles), Paris, Champion, 2003.^
24C.J. Hernando Sánchez, Prefazione, in R. Sicilia, Un Consiglio di spada e di toga, cit., p. 10.^
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