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Introduzione a un catalogo
di Giuseppe Galasso
L’iniziativa del Comune di Napoli per il cinquantenario dell’unificazione italiana fu nel 1911 uno dei molti segni del successo che si riconosceva nel Risorgimento e nell’unità nazionale.
Se ne ebbero manifestazioni di grande rilievo in tutta Italia. A cominciare, intanto, dalla inaugurazione, a Roma, del Vittoriano, il grande monumento che il re Vittorio Emanuele III volle dedicare alla memoria di suo nonno Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia. Un monumento discusso sul piano estetico (lo si paragonò a una macchina da scrivere della Olivetti, che allora cominciò a circolare, con i tasti disposti a gradinata in un’alzata a semicerchio, equivalente al colonnato di quel monumento) e per quel bagliore accecante del bianco delle sue pietre che appariva stonato nella scena romana (non vi era ancora, allora, la Via dei Fori Imperiali, che ha aperto la larga prospettiva attuale da piazza Venezia al Quirinale). Eppure, mentre i modelli delle macchine Olivetti cambiavano rapidamente, la linea e il bianco delle pietre un po’ si attenuava, un po’ diventava familiare ai romani e ai visitatori di Roma: quel monumento discusso ebbe allora, e ha finito col consolidare nel tempo, un grande valore di simbolo. Sul frontone delle sue due torri laterali era scritto, a destra, patriae unitati, a sinistra, civium libertati: unità e libertà, i due grandi valori che avevano guidato il prodigioso movimento risorgimentale, per cui l’unificazione italiana fu definita da qualcuno come «il capolavoro politico dell’Ottocento».
A Roma stessa, come in tutta Italia, le celebrazioni dei cinquant’anni dell’Italia unita ebbero, peraltro, una estrema varietà di forme e di tipi di iniziativa. Era un segno di quel pluralismo e policentrismo che sono un «carattere originale» (per usare l’espressione di un grande storico francese, Marc Bloch) di tutta la storia italiana, ossia una struttura originaria e sempre ribadita della storia e della vita nazionale degli Italiani. E lo ricordiamo qui perché uno dei luoghi comuni più infondati e più deformanti della realtà storica del Risorgimento e della successiva storia unitaria alla quale esso ha messo capo sta nel ritenere e affermare che l’unità avrebbe spento le molte radici regionali e particolari della civiltà e della storia italiana. È vero, semmai, il contrario. L’unità diede alla coscienza regionale e particolare di ciascuna parte del paese un impulso che non era più quello localistico (e campanilistico) delle vecchie tradizioni pre-unitarie, bensì quello di un più moderno e robusto senso della diversità nella molteplicità e unità della storia e della civiltà italiana.
Se ne ha, ad esempio, una dimostrazione eloquentissima in un campo di particolare importanza da questo punto di vista, ossia quello della storia letteraria. I primi decennii dell’unità furono contrassegnati, al riguardo, da una fioritura di scrittori e da una vera e molteplice esplosione di originalissima e forte ispirazione locale e regionale. Basti pensare alla Sicilia di Verga o alla Napoli di Di Giacomo, tanto per fare appena qualche caso e qualche nome. E di ciò, se, inoltre, si pensa che proprio il periodo degli inizi dell’unità fu ovunque in Italia il tempo della costituzione o di un riavvio delle società storiche regionali, si ha un quadro ancor più evidente. Non per nulla, del resto, nelle celebrazioni del 1911 fu organizzata anche una mostra delle Regioni, che riflesse appieno il senso vivo e forte che nell’unità nazionale si conservava, e, anzi, si sviluppava, delle tradizioni e delle identità locali.
L’iniziativa comunale napoletana del 1911 fu di quelle che onorano ed esaltano una comunità e una cultura. Essa merita, peraltro, un’attenzione particolare. La mostra e il catalogo, cui Salvatore Di Giacomo e Benedetto Croce dedicarono cure premurose, sono, infatti, la dimostrazione di una diretta prosecuzione dello spirito risorgimentale che aveva trovato a Napoli espressioni eminenti e decisive nella storia del movimento nazionale italiana. La deformazione del Risorgimento, che lo fa concludere con la “conquista piemontese”, in particolare, del Mezzogiorno d’Italia, porta a non rendersi affatto conto del dramma morale, culturale e civile che per i patrioti italiani di allora fu lo scioglimento delle antiche tradizioni statali italiane pre-unitarie nel nuovo vincolo dell’unità nazionale italiana. Quel dramma fu, invece, non solo reale, ma anche profondo e dilacerante. Specialmente la classe intellettuale partecipe e promotrice della causa italiana nel Mezzogiorno sentì e visse con intimo travaglio la cessazione dell’esistenza indipendente dell’antica monarchia meridionale, che segnava in effetti una profonda trasformazione degli spiriti, delle menti, del modo di essere e di vivere nel mondo morale e sociale. Soltanto la convinzione profonda della superiore legittimità storica ed etico-politica degli ideali nazionali e la loro intima connessione, tanto presupposta quanto voluta, con la causa della libertà e con gli ideali della modernità più consapevole e avanzata poté far superare quel travaglio.
Quei patrioti erano, infatti, straordinari conoscitori della storia e della realtà del Mezzogiorno. Nel caso di un De Sanctis o di un Bertrando Spaventa (o dei siciliani Michele Amari e Francesco Ferrara) erano tra i maggiori intelletti del tempo e lasciarono orme profonde nella cultura europea. Non a cuor leggero, perciò, dismisero i panni millenari dell’identità monarchica del Mezzogiorno per indossare quelli della nuova grande realtà civile e morale che in Europa si costituiva con l’unità italiana. Non, però, soltanto la vissuta ed entusiasmante passione per questa nuova realtà italiana ed europea aiutò quella generazione a superare un passaggio e una metamorfosi che dovrebbe essere appieno e facilmente capita e partecipata da chi tra il secolo XX e il XXI si è trovato e si trova a vivere il molto più difficile, ma non meno storicamente legittimo e maturo passaggio dalle identità nazionali a quella della nuova Europa unita in formazione. Agì anche – e con forza addirittura maggiore, e non poteva essere diversamente – il fatto che la nazione italiana non fu una invenzione del Risorgimento, e meno che mai una violenza fatta all’identità e alla realtà delle popolazioni italiane. Al contrario, il Risorgimento nacque, esso, dalla consapevolezza di una storia nazionale millenaria, la storia della nazione italiana, nata e sviluppatasi, sulle rovine dell’impero romano in Occidente, e fra le nuove popolazioni germaniche e slave affacciatesi intanto alla ribalta della grande storia, negli stessi tempi e negli stessi modi in cui già intorno al Mille si parlava in Europa, con sempre crescenti pertinenza e chiarezza di idee, di francesi e tedeschi, inglesi e spagnoli, portoghesi e polacchi, danesi e ungheresi.
Di questa storia nazionale italiana di lunga durata furono proprio dei meridionali a dare, a unità raggiunta, ricostruzioni e proiezioni che ne ampliarono di molto la coscienza storica e civica. Basti pensare a un capolavoro, da molti punti di vista straordinario, quale la Storia della letteratura italiana del De Sanctis, o a un lavoro di audace, ma serrata speculazione storica e teoretica qual è quello noto come La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea di Bertrando Spaventa. E peraltro quel pensiero italiano dei meridionali non era affatto sorto dopo l’unità o per effetto del Risorgimento.
Fu uno degli esuli napoletani a Milano, il salernitano Matteo Galdi, fuggito da Napoli dopo la repressione della congiura antiborbonica del 1794 per cui fu giustiziato l’appena diciottenne Emanuele De Deo, partecipando a Milano al celebre concorso del 1797 su quale dei governi liberi meglio convenisse all’Italia, ad affacciare per primo, nel triennio rivoluzionario del 1796-1799, l’idea di una unificazione italiana. A sua volta – come ricorda il Croce in una delle magistrali biografie delle sue Vite di avventure, di fede e di passione – sul «Monitore Italiano» del gennaio 1798, Carlo Lauberg aveva rapidamente rievocato la «vita intellettuale italiana degli ultimi secoli», riconoscendo ai filosofi, storici, poeti e artisti il merito di aver «mantenuta viva l’Italia “anche senza libertà, e anzi sotto il giogo della superstizione e del dispotismo”».
Lauberg si muoveva così su una linea di pensiero che da tempo, ossia almeno dal Rinascimento, aveva considerato unitariamente, come manifestazioni nazionali, il pensiero, le lettere e le arti italiane, senza nessuna indulgenza alla divisione politica della penisola in molti Stati, e considerando «l’Italia come un solo paese», così come, parlando di economia, diceva e faceva Cavour già nel 1847, quando l’unificazione era ancora ben lontana dal concreto orizzonte politico del paese. Allo stesso modo era partita da Napoli l’idea e l’azione di Gioacchino Murat che nel 1815, affrontando le armi austriache aveva tentato di dare a quell’idea una immediata traduzione della realtà.
Insomma, lo spirito unitario fu nel Mezzogiorno molto più precoce di quanto si crede o si ama pensare. Addirittura esso era stato fra le premesse del Risorgimento, e del Risorgimento, quando più quando meno esplicitamente, aveva accompagnato le vicende con un tributo di fede, di pensiero e di sangue che resta fra le grandi memorie italiane e meridionali. E anche per questo, a centocinquant’anni dall’unificazione, nel momento in cui tante mal fondate polemiche si sono accese sul valore e le modalità di quella unificazione, e in particolare per il Mezzogiorno, rileggere le pagine napoletane del 1911, riprodotte, cento anni dopo, con iniziativa altrettanto lodevole di quella di allora, rappresenta una delle migliori dimostrazioni che l’unità italiana non fu affatto sentita, nella parte più eminente della cultura napoletana, come una violenza fatta alla tradizione autentica e più radicata dell’identità meridionale o come un suo soffocamento. Al contrario, l’italianità fu sentita come essenza antica e indiscutibile della tradizione e dell’identità napoletana; e «l’approdo italiano dell’identità meridionale», come a chi scrive qui è accaduto di definirlo, fu l’esito di un processo, di una maturazione, di una vicenda sentita e vissuta con estrema naturalezza.
In altri termini, non solo la parte eminente della cultura e dell’intelligencija del Mezzogiorno, bensì anche le sezioni più vive dell’intera società meridionale non solo non videro e non sentirono in quell’«approdo italiano» alcuna violenza o costrizione, ma neppure una cieca fatalità. Videro, come fu, una scelta e una iniziativa loro, sostenuta da una forte consapevolezza storica e civile della loro napoletanità.
Non è un caso, del resto, che proprio con l’unificazione italiana si sia aperto nel 1860 uno dei periodi più operosi e creativi della storia di Napoli, e ciò perfino a dispetto di una vita amministrativa e di vicende municipali di segno del tutto opposto. Anche su questo punto bisogna disdire e dissolvere il mito della fatale “decadenza” della città, e della fine pressoché automatica della possibilità di sviluppare le sue potenzialità, proprio e solo a causa della perdita dell’indipendenza napoletana e dell’ingresso del Mezzogiorno nel Regno d’Italia. Per più di sessant’anni la città fu, invece, davvero, come pochissime altre volte lo era stata, una delle maggiori capitali della cultura e della civiltà italiana, e si ampliò e si rinnovò nella sua stessa struttura materiale, acquisendo, fra l’altro, quel lungomare da Mergellina a Santa Lucia, che rappresenta tuttora una delle maggiori attrattive del paesaggio napoletano e del suo straordinario incanto.
Per quanto riguarda Napoli, fu l’epoca d’oro della canzone napoletana e la consacrazione delle sue fortune mondiali. Fu l’epoca di una vicenda letteraria non illustrata soltanto dal nome eccellente del Di Giacomo, ma anche di una stagione delle arti che vide fiorire artisti del rilievo (a tacere di altri) di Antonio Mancini e di Vincenzo Gemito, e di una stagione architettonica che nel liberty, nel floreale, nelle Gallerie (quella Principe di Napoli e, soprattutto, quella assai bella Umberto I) e in altri episodi pubblici e privati, ebbe realizzazioni di duraturo valore. Fu l’epoca di varie vette del pensiero giuridico, storico, filosofico (culminato poi, ai primi del ’900 nel pensiero e nell’attività di Benedetto Croce), scientifico (specialmente nella medicina), e non solo rispetto all’ambito napoletano e italiano. Fu l’epoca di un totale rinnovamento dell’Università napoletana, che rimase ancora per oltre una sessantina di anni dopo l’unità l’unica del Mezzogiorno e continuò, perciò, a mantenere alla città il suo forte richiamo su tutta l’Italia meridionale, collocandosi infine nelle sue nuove sedi di Via Mezzocannone e del Corso Umberto I. Fu l’epoca della fondazione e delle prime fortune dei giornali che in seguito sono rimasti fra le testate storiche della città: il «Roma», «Il Mattino», il «Corriere di Napoli». Fu l’epoca di una prima, vera, ancorché pur sempre parziale, modernizzazione dell’economia cittadina, nonché l’epoca della prima delle “leggi speciali” per Napoli, che in seguito furono molte, ma non raggiunsero più il nitido dettato di quella prima, né il suo almeno relativo successo. Fu l’epoca della fondazione di istituzioni cittadine spontanee e di grande rilievo e significato: dalla Società Napoletana di Storia Patria al Circolo Filologico, dal Circolo dell’Unione al Circolo Artistico Politecnico. Fu l’epoca del fiorire di nuovi teatri (il Bellini, il Sannazzaro, il Politeama), mentre alcuni dei vecchi sparivano (il San Bartolomeo, il San Carlino) o si rinnovavano.
Lungo e vario sarebbe, peraltro, continuare in questa serie di indicazioni, come sarebbe opportuno. Qui notiamo soltanto che non meno rilevanti furono gli avvii e gli sviluppi della vita mondana e il tono della vita sociale napoletana di quel tempo. Si può dire, in sintesi, che da questo punto di vista fu quella non solo l’ultima, ma anche, con tutta probabilità, la più brillante stagione della città in età moderna. L’aristocrazia napoletana, in particolare, ebbe allora un ruolo di primo piano, ancorché non più esclusivo come in passato, e molte famiglie di essa consumarono nei fasti mondani di quel periodo le loro più o meno antiche fortune, ma nello stesso tempo svolsero non meno spesso un ruolo rilevante nelle iniziative e nelle attività più meritorie della vita cittadina.
Fu, insomma, l’epoca di un autentico, ampio e lungo rinascimento napoletano, nato spontaneamente dalle viscere della città, dall’intimo e dalla vita spirituale e morale dei napoletani, e, ciò, malgrado il cessare, che pure vi fu, di attività, consuetudini, tradizioni della Napoli pre-unitaria (a cominciare, ad esempio, dal venir meno della funzione diplomatica della città quale capitale di uno Stato indipendente, e sede perciò di numerose e prestigiose rappresentanze diplomatiche, che concorrevano non poco a varii profili della vita cittadina). Ne diedero testimonianza anche alcuni episodi di mecenatismo, che vale la pena di ricordare perché nella tradizione cittadina questo genere di civismo non ha avuto un grande risalto. Ricordiamo perciò, per il suo particolare oggetto, la donazione al Municipio di Napoli, che nel 1876 l’abate Vincenzo Cuomo fece della sua collezione di libri e manoscritti di storia napoletana, alla quale si aggiunsero quelli donati dal banchiere Rothschild, da Guglielmo Capitelli (sindaco di Napoli dal 1868 al 1870 e capo della Destra napoletana, figlio di Domenico, il giurista che fu presidente del Parlamento napoletano nel 1848), e dal grande botanico Michele Tenore, e che nel 1895 furono collocati in deposito permanente presso la Società Napoletana di Storia Patria. E anche quasi a suggello di tutto ciò vanno vista le pagine e la mostra del 1911 sull’unità italiana.
Quell’onda creativa si affievolì in seguito, salvo che per brevi stagioni, non solo meno lunghe, ma anche meno intense e meno generali di quella apertasi nel 1860. Lo spirito unitario, però, non si affievolì affatto. Addirittura Napoli fu la capitale del movimento monarchico italiano, dopo l’avvento della Repubblica nel 1946, dimostrando un attaccamento al nome e alle insegne della Casa di Savoia ben lontano, nella sua intima e significativa spontaneità, dagli artefatti e avventizi, oltre che mal fondati, furori borbonizzanti di mezzo secolo dopo, quando a esprimerli non sia, come solitamente accade, l’ingenuo e comprensibile sentimento di una, sia pure malintesa, ma talora anche fine e colta, nostalgia di un fin troppo mitizzato passato. Possa la ripubblicazione delle pagine napoletane del 1911 dare un migliore avvio anche a questa nostalgia, e corroborare, nello stesso tempo, l’autentico spirito nazionale e italiano che è nato e vive nel profondo dello spirito e dell’ethos napoletano, e farne un fattore primario, come altre volte è accaduto, di una ripresa della città dalle difficoltà, ancora una volta gravissime, nelle quali essa, all’aprirsi del secolo XXI (che è il XXVI della sua storia), si ritrova e dalle quali, come nessun napoletano può pensare, e tanto meno credere, sembra talora non potere e non sapere riprendersi.
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