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Unità e disunità d'Italia
di Aurelio Musi
1. Ci stiamo avvicinando alla fatidica data del centocinquantenario dell’unificazione italiana nel peggiore dei modi: lacerazioni e contrasti sul giorno di festa; rimozione, da parte soprattutto di esponenti politici del Nord, del sentimento “pubblico” di appartenenza nazionale e suo trasferimento alla dimensione “privata” che può anche legittimare l’indifferenza per un evento fondativo della nostra storia o addirittura il suo rifiuto; riaffermazione della visione del Mezzogiorno come “palla al piede” delle magnifiche sorti e progressive dello sviluppo economico, sociale e civile del Settentrione.
Sarebbe anche interessante analizzare in profondità i caratteri della congiuntura celebrativa. Qui mi limito ad indicarne alcuni.
Il primo potrebbe definirsi la “guerra dei simboli”. Il sole padano sostituisce, in alcune aree del Nord grazie all’intervento istituzionale e legittimante di responsabili di enti locali, il tricolore, rappresentando, per così dire, quel secessionismo strisciante, freddo, che, almeno finora, per nostra fortuna, non si è ancora trasformato in secessionismo realizzato. Vari gruppi neoborbonici del Sud, fra cui il laboratorio “Insurgencia”, che protesta contro la soggezione colonialista, chiedono a gran voce il mutamento della toponomastica: così a Napoli piazza Garibaldi dovrebbe diventare piazza Michela De Cesare, “partigiana del Sud”, la galleria Umberto I galleria del Mediterraneo, piazza Plebiscito piazza Magna Grecia.
Il secondo elemento è costituito da alcuni approcci revisionisti al Risorgimento e all’Unità. Uno per tutti: l’ultimo libro di Alberto Maria Banti, largamente anticipato da una parte della stampa italiana nelle sue premesse: gettando via l’acqua sporca, “la retorica che oggi non comunica”, secondo le parole dell’autore, la prospettiva di Banti rischia di gettar via anche il bambino, cioè il carattere fondativo del processo storico unitario.
Chiaramente vanno profilandosi oggi in Italia due disegni concorrenti: quello della ricomposizione dell’Unità nazionale, rappresentato dal presidente Napolitano, dalla magistratura, dalla Chiesa; quello della decomposizione dell’Unità nazionale, rappresentato soprattutto da alcuni partiti e dai poteri criminali concorrenti sul territorio.
Il disegno della decomposizione e della disunità d’Italia appare spesso prevalente sul primo e si alimenta di molteplici luoghi comuni.

2. Bisogna sottolineare il fatto che a questo disegno, diffuso purtroppo in un “idem sentire” di una parte del paese, alcuni intellettuali rispondono non in maniera efficace e costruttiva, ma riproponendo il florilegio di altri luoghi comuni, incapaci di creare un sentimento unitario di appartenenza nazionale, se non addirittura controproducenti.
Alcuni esempi sono stati proposti dalla redazione napoletana del giornale «la Repubblica» che ha dato spazio a due autorevoli voci: quelle di Antonio Gargano e di Jaen-Noel Schifano. Naturalmente «la Repubblica» fa bene ad ospitare libere posizioni di pensiero, che, tuttavia, devono essere dialetticamente confrontate e sottoposte a verifica critica.
Gargano (La sconfitta di Napoli è lunga più di due secoli, «la Repubblica» 9 febbraio 2011) come il suo maestro Gerardo Marotta fa risalire tutti i mali del Mezzogiorno alla sconfitta del 1799: l’assenza della rivoluzione democratico-borghese, che è a fondamento della moderna civiltà europea, avrebbe condizionato tutti gli sviluppi successivi della nostra storia. Si tratta di un tema classico, per così dire, della riflessione storico-politica italiana: che, tuttavia, posto nei termini radicali e monocausali di Gargano, impicca tutti noi meridionali, senza appello, al palo di una sorta di maledizione e malformazione genetica, di cui difficilmente riusciremo a liberarci. Se si legge tutta la storia del Meridione d’Italia sotto il segno di un fallimento, ci si priva delle possibilità di valutare il peso reale delle conquiste del decennio francese e della Monarchia amministrativa borbonica: l’evoluzione della società civile e della società politica, certo nei modi, termini e limiti che qui potevano essere realizzati; la formazione di una nuova classe dirigente capace di offrire un suo notevole contributo alla conquista dell’indipendenza e dell’Unità della nazione; ecc. Napoli non divenne mai, nemmeno in questo periodo, “periferia dell’Europa” e seppe comunque realizzare una sua via, sia pur lastricata di difficoltà, lacerazioni e contrasti, allo Stato moderno.
Sul fronte del 1799, gli intellettuali democratici meridionali devono criticamente difendersi sia dalla visione catastrofista suesposta sia dagli attacchi che giungono da altre sponde. Berluscones e compagni pidiellini più o meno organici non perdono occasione per attaccare e delegittimare. È la volta di Marcello Veneziani che spara ad alzo zero su «Il Giornale» del 9 dicembre con un articolo dal titolo fin troppo eloquente: La democrazia degli intellettuali? Finisce in tirannia. L’oggetto della polemica è proprio la rivoluzione napoletana del 1799. L’esordio è una filosofia della storia oggi strumentalmente assai diffusa nella destra italiana: anche il Risorgimento ne è coinvolto. Si tratta della tendenza a leggere la storia come capro espiatorio dei mali di oggi e come ammaestramento per l’attualità. Scrive Veneziani: “Se la storia è maestra di vita, la rivoluzione napoletana è un monito perfetto per il nostro tempo”. Le parole sono pesanti come pietre: “paradigma rovinoso di una dittatura intellettuale che seppe distruggere ma non costruire”, il 1799 si ispira alla rivoluzione francese, origine di tutti i mali della modernità, che manda al patibolo i sovrani parenti di quelli napoletani. Gli intellettuali di corte si innamorano di quel che succede a Parigi e rovesciano la monarchia. Ha inizio così «la mattanza di chi non ci sta, decine di migliaia di morti ad opera dei giacobini, di cui nessuno parla». Come la Vandea nella rivoluzione francese, anche in quella napoletana il terrore è elevato a sistema: e di seguito tanti esempi di eccidi di plebe, contadini e povera gente. Veneziani cita Vincenzo Cuoco a sproposito, estrapolando dal loro contesto le affermazioni dell’autore del Saggio storico: quasi che questi fosse un controrivoluzionario sanfedista e non il lucido critico democratico dei limiti della rivoluzione del 1799. E dunque per l’accorsato filosofo della destra italiana la rivoluzione napoletana del 1799 rappresenterebbe la colonizzazione del Sud, la frattura fra élites intellettuali e masse, fra riforme e tradizione. La visione populista e plebiscitaria dell’oggi è così retrospettivamente trasferita sulle vicende del nostro passato, parte integrante della formazione identitaria nazionale con le sue luci e le sue ombre. I patrioti democratici meridionali si trasformano in marionette sanguinarie tra la farsa e il dramma. E gli intellettuali? Ieri come oggi sono artefici di sventure, sono vanagloriosi e narcisisti, si innamorano di modelli astratti importati d’Oltralpe, sono incapaci di fare politica seria e di governare. Quanto alla democrazia, ieri come oggi essa è una pericolosa fase di passaggio politico destinata a finire sempre in tirannia. Sarebbe il caso che gli intellettuali meridionali, che si riconoscono nella gloriosa tradizione democratica italiana e nell’eredità di chi ha costruito la nazione fra limiti ed errori, ma anche con un contributo di intelligenza, di azione, di sangue, facessero sentire alta la loro voce e la loro testimonianza contro le miserie di una cultura di destra anacronistica e fuori della modernità.
Il compito di noi intellettuali democratici meridionali è quello di dover al tempo stesso contrastare criticamente sia posizioni, come quelle espresse da Gargano, tese a guardare nostalgicamente ad eventi ed episodi importanti della nostra storia, a considerarli come fallimenti ed occasioni perdute, al di fuori di ogni corretta visione storicistica, sia un sentire comune tradizionalista e reazionario che rivive in posizioni come quelle di Veneziani. Insomma l’oscillazione del pendolo critico deve posizionarsi da una parte sulla contestazione nei confronti di chi vede la caduta storica e i fallimenti del Mezzogiorno nell’estraneità alla rivoluzione democraticoborghese, ineliminabile apertura sullo scenario della modernità; dall’altra parte sulla difesa di chi ha combattuto per quella modernità democratica contro chi ancora oggi ripropone l’identità democrazia-tirannia.
Non aiutano certo in questo compito critico immane posizioni intellettuali che, per semplificare, possiamo iscrivere nell’ancor vivo e vegeto filone di argomentazioni neoborboniche, oggi riproposte da più parti proprio in vista della scadenza del cento cinquantenario.
In tale direzione vanno le provocazioni di Jean-Noel Schifano (“Celebro la disunità d’Italia”, La Repubblica 10 febbraio 2011). Esse sono particolarmente insidiose perché sono svolte nello stile letterario sanguigno dello scrittore francese e affondano le radici in una visione difensiva e “sudista”, molto diffusa nel Mezzogiorno. Scrive Schifano che «la brutta storia della cosiddetta Unità d’Italia» è un «imbroglio che dura da 150 anni». E via di seguito tanti triti e ritriti luoghi comuni: l’Unità come conquista regia e annessione violenta del Mezzogiorno da parte di casa Savoia; la tendenza ad “arrubbare” tutto il Sud; il blocco delle conquiste borboniche di civiltà (la Borsa di Napoli, primato indiscusso su altre città italiane, la banca Rothschild, il posto di rilievo nel commercio internazionale, la rete industriale, ecc.); “Roma ladrona” e il violento cambio della toponomastica; ecc. La “pars costruens”, per così dire, della prospettiva di Schifano è sottilmente ambigua. Il superamento della “disunità d’Italia” può realizzarsi solo attraverso la riproposizione della “nazione napoletana”, la riconquista dell’identità della trimillenaria storia di Partenope e un destino non italiano, ma europeo e intercontinentale del Mezzogiorno. L’ambiguità della proposta dello scrittore francese consiste nel fatto che essa utilizza un concetto storico, un filo rosso che ripercorre tutta la nostra vicenda storica, la “nazione napoletana”, per riproporlo oggi come progetto politico e come base di un destino non italiano.
Bisogna ribadire con forza di fronte a queste posizioni che la “nazione napoletana” si era ormai esaurita alcuni decenni prima dell’Unità, evento doloroso, ma inevitabile, per far entrare il Mezzogiorno in Europa. Si può discutere fino in fondo sui costi di quell’evento: ma riproporre oggi una fuoruscita della “nazione napoletana” dall’Italia significherebbe davvero farla diventare periferia estrema dell’Europa.
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