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L'Unione Europea. attività, funzioni e problemi*
di Arrigo Levi
La storia dell’unificazione europea è una lunga storia. Una lunga storia, che procede in realtà attraverso un succedersi di crisi, ossia di scelte difficili, anche di conflitti fra governi gelosi della propria sovranità e i crescenti poteri soprannazionali, (voluti peraltro dagli stessi governi membri della Comunità Europea), di istituzioni europee sempre più corpose e articolate. Le crisi si sono alternate, o anzi hanno spesso dato lo spunto, a fasi creative, in cui le istituzioni europee e i loro poteri hanno continuato di fatto a crescere: mentre hanno continuato ad allargarsi in modo straordinario, davvero inimmaginabile agli inizi del cammino, i confini geografici dell’Unione.
Chi ha memoria delle tante crisi dell’Europa per averle vissute, sia pure da osservatore e cronista, tende probabilmente a vivere con minore allarme anche la crisi, sicuramente seria, che stiamo attualmente vivendo. In Europa sarebbe oggi in atto, secondo una definizione di qualche tempo fa di uno degli osservatori più attenti e informati sulle cose europee, Franco Venturini, nientemeno che «la crisi esistenziale di una Unione Europea sempre più ri-nazionalizzata». A me la definizione sembra un po’ forte. Ma è più o meno quello che molti hanno scritto negli ultimi mesi, con riferimento sia al modo in cui l’Unione ha reagito e sta reagendo alla grave crisi economica mondiale ancora in atto; sia con riferimento ad eventi specifici, meno rilevanti ma significativi, quale fu lo scontro fra il Presidente Sarkozy e la Commissione Europea a proposito dell’espulsione degli zingari dalla Francia: la Francia, che il Segretario di Stato francese agli Affari Europei Pierre Lellouche definì, con accenti neogollisti, «un grande Paese sovrano che non è consentito trattare come un ragazzino».
Altri parlano (e qui gli spunti sono stati numerosi) di una Europa sempre più “regionalizzata”. In un certo senso, proprio il fatto che il grande ombrello dell’Unione copra tutti può costituire un incentivo per regioni “storiche” che aspirino all’indipendenza dagli Stati nazionali, nella certezza di rimanere comunque all’interno dell’Unione.
Se però si volge lo sguardo un po’ più indietro nel tempo, si deve ricordare che in anni recenti abbiamo vissuto, e per la verità superato, crisi molto peggiori, meno umorali e più sostanziali di quella provocata dai nervi scoperti di un Sarkozy lui stesso in crisi. Basta pensare al voto popolare francese e olandese contro il nuovo trattato europeo. Più che una battuta d’arresto, più che una crisi legata ad eventi, per quanto grandi, estranei nelle loro origini all’Europa (quale è stata la crisi finanziaria mondiale, che ha origine nel 2008 in America per colpa dell’America) quel doppio no di due nazioni “fondatrici” ci sembrò davvero capace di assestare un colpo irreparabile allo storico processo di unificazione europea. Non fu così, e questo può anche confortarci.
Ma forse questo succedersi di crisi europee del primo decennio del Ventunesimo Secolo va visto, e può essere meglio interpretato, se si volge lo sguardo molto indietro nel tempo, a partire dalle origini di quella che è stata davvero una lunga, secolare storia, del processo, all’inizio utopistico, di unificazione europea

* * *


All’inizio di tutto, e non dobbiamo mai dimenticarlo, ci sono state le guerre. Secoli e secoli di guerre europee, culminate nelle due grandi guerre europee e mondiali del Novecento: guerre scoppiate dopo più di tre decenni di pace europea a cavallo fra i due secoli, quando era convinzione generale, condivisa da uomini di grande intelligenza, da Bertrand Russell al giovane Winston Churchill, che non ci sarebbero più state grandi guerre in Europa, visto che tutti i grandi Paesi erano delle democrazie; tanto che Churchill si chiedeva che cosa avrebbe mai fatto della sua carriera militare in un mondo di pace. Si sbagliavano. Atrocemente. La prima Guerra Mondiale fece circa 20 milioni di morti, ancora in gran parte militari, non civili: l’aviazione era appena agli inizi.
L’“inutile strage”, come la definì nel 1917 Papa Benedetto XV, bastò comunque per dar vita ai primi progetti e ai primi movimenti di unificazione europea. Ricordo fra i molti saggi allora apparsi il volume Federazione Europea o Lega delle Nazioni?, di cui furono autori Giovanni Agnelli, il fondatore della Fiat, e Attilio Cabiati, scritto anche nel 1917 e pubblicato nel 1918. E ricordo l’articolo di Winston Churchill pubblicato sulla «Saturday Evening Post» del 15 febbraio 1930, che si pronunciava a favore degli Stati Uniti d’Europa, come già proponeva il movimento paneuropeo che stava allora acquistando forza e credibilità. Lanciato nel 1923 dall’austriaco Conte Richard Coudenhove Kalergi ebbe fra i suoi fautori grandi personalità politiche, da Herriot a Stresemann, da Dollfuss a Aristide Briand, che con un discorso del 9 settembre 1929, e un anno dopo con una risoluzione presentata alla Società delle Nazioni, arrivò a proporre a nome della Francia una Unione Federale Europea: ma rimasero parole al vento. Quel primo europeismo fu poco più che una “cospirazione europea” (come la definisce L’Europa incompiuta, il libro di Roberto Ducci e Bino Olivi, edito da Cedam nel 1970, dove si possono trovare tutti i documenti essenziali, fino a quella data, della preistoria e della storia dell’unificazione europea).

* * *


Mi sono forse un po’ troppo dilungato su queste fasi iniziali del movimento per l’unificazione europea perché questa è una storia, o preistoria, largamente dimenticata. Significativa, ma inevitabilmente dimenticata, perché nel 1930 nel futuro dell’Europa non c’era affatto la pace, ma l’affermarsi delle dittature nazionaliste, desiderose di riprendere la guerra soltanto interrotta nel 1918. C’erano Hitler, Mussolini, e Stalin, che giustificava al Politburo l’alleanza con Hitler dicendo che per effetto del patto Ribbentrop-Molotov la Francia avrebbe perso la guerra, e che, finito il conflitto, e fatta la pace, in una situazione francese di caos politico il comunismo avrebbe sicuramente conquistato il potere a Parigi. Non aveva capito nulla di chi fosse realmente Hitler, quale il suo disegno, e infatti non si aspettava l’attacco nazista, che in poche settimane distrusse buona parte dell’esercito sovietico, e che si arrestò soltanto alle porte di Mosca e di Leningrado. Tacque per dieci giorni, e quando riprese la parola cominciò rivolgendosi non ai “tovarishci”, ma ai “druzià i tovarishci”, amici e compagni.
Questa volta la guerra non fece 20 ma 50 e più milioni di morti, non solo soldati ma forse soprattutto civili nelle città distrutte dai bombardamenti, o Ebrei (sei milioni circa) e zingari (circa mezzo milione) eliminati nei campi di sterminio (ma circa la metà degli Ebrei vittime della Shoah vennero sterminati, già durante l’avanzata tedesca in Polonia e Unione Sovietica, dalle SS e dall’esercito nazista). E a questo punto, solo a questo punto, dopo secoli o meglio millenni di guerre europee, accadde, come ama dire Carlo Azeglio Ciampi, che «ci guardammo negli occhi e dicemmo: fra noi, mai più guerre». Anche perché la guerra era finita con i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki: e il mondo, dopo l’atomica, non era e non sarà mai più lo stesso. La mia generazione (io sono nato nel 1926), tutto questo l’ha vissuto e non ha mai potuto dimenticarlo. Noi ricordiamo le origini, l’ispirazione e le motivazioni del movimento per l’unificazione europea, come i giovani, a cui tanto spesso ci rivolgiamo con un misto di speranze e di timori, non potranno mai ricordare.
La mia generazione (non tutti i miei coetanei ne sono coscienti), ha avuto un davvero singolare destino, di vivere a cavallo fra due ere: è la sola generazione che sia nata e abbia vissuto una parte della propria vita nella prima era della storia dell’umanità, l’era in cui, per quante guerre si facessero, l’uomo non avrebbe mai potuto distruggere la vita sulla terra; e un’altra parte della vita nella seconda era, in cui, per i tempi dei tempi, l’uomo sarà capace di distruggere la vita sulla terra: ponendo a rischio non solo la fine della civiltà, ma la sopravvivenza della specie homo sapiens, trasformando forse la Terra in un “pianeta di insetti e di erbe”, come è stato detto e sostenuto, con argomenti molto validi. Le armi perché ciò possa accadere ci sono già, ci sono e ci saranno anche dopo le riduzioni degli arsenali russi e americani concordata da Medvedev e Obama.
E anche se è forse immaginabile – Obama lo sogna – che in un giorno lontano le armi di distruzione di massa, nucleari o d’altro tipo, possano essere distrutte (oggi questo è semplicemente impensabile), queste armi capaci di porre fine a tutto non potranno mai più essere “disinventate”, e potranno sempre essere rapidamente ricostruite. L’umanità vivrà dunque per sempre, ripeto, per sempre, nell’“era nucleare”, con questa spada di Damocle sulla testa. La realtà del mondo d’oggi, nonostante gli sforzi volonterosi di Mosca e Washington, non ha nome “disarmo”. Rimane invece, più forte che mai, la minaccia della “proliferazione nucleare”, anche se si discute quanto sia evitabile. Ed è «impensabile» – come ha scritto non molto tempo fa Kissinger – che «il giorno in cui ci fossero una ventina di potenze nucleari non scoppi una guerra atomica». Oggi sono nove; con l’Iran, che dice e ripete il proposito di fare scomparire dalla faccia della terra lo Stato d’Israele, potrebbero diventare presto dieci. Tutti i più seri studiosi della materia sono convinti che il mondo cammina sull’orlo di un abisso; anche se questo pensiero è stato rimosso, e continuerà non so per quanto tempo ad essere rimosso, dalla coscienza, dalla consapevolezza dei popoli.
In realtà non ci sono e non ci saranno alternative, per il futuro dell’umanità, fra la “pace perpetua”, di cui scriveva Kant, che era un profeta, alla fine del Settecento, ossia una pace universale gestita da una sorta di governo mondiale, e delle nuove guerre, potenzialmente anch’esse universali, dagli effetti universalmente distruttivi. Vorrei fosse chiaro che queste non sono frasi a effetto, sono serie, meditate convinzioni delle persone più competenti in materia che noi conosciamo. Il mondo in cui viviamo, in cui vivranno i nostri discendenti per sempre, per i secoli dei secoli, è fatto così.

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In questo mondo, fra questo presente, questo passato, e questo futuro, che è diverso da come il futuro sia mai stato immaginato, c’è l’Europa unita; l’Europa che vive finalmente la sua prima era di pace. Qui si pone un primo problema. Ci chiediamo perché il movimento di unificazione si sia affermato dopo la seconda guerra mondiale, e non già dopo la prima. In realtà la domanda vera è: perché si è affermato dopo la seconda guerra mondiale?
Che non si fosse affermato dopo la prima non è difficile da spiegare. Semplicemente, l’Europa, i popoli, i governi, erano rimasti quello che erano sempre stati, istintivamente nazionalisti, e la guerra era ancora considerata un evento normale della storia dell’umanità. Lo era sempre stata. Negli anni Trenta noi balilla, o i nostri fratelli giovani fascisti, cantavamo costantemente, con maggiore o minore convinzione, inni alla guerra, esaltavamo la guerra, e altrettanto facevano i giovani tedeschi, immagino anche, e non gliene faccio certo colpa, un giovane chiamato Ratzinger. Era normale. Le dittature, pur diverse tra loro, avevano le radici in una ideologia antica, che in Europa, che pure è stata la culla della civiltà moderna, liberale, democratica, ispirata ai grandi ideali della tradizione giudeo-cristiana, aveva raggiunto l’apice, e questa ideologia era il nazionalismo, l’esaltazione della grandezza della propria nazione, da affermarsi, come sembrava ovvio, anche con la guerra. Con le guerre si era fatta, del resto, anche l’unità d’Italia. La Grande Guerra, per quanto terribile, aveva lasciato intatta, nelle grandi masse, l’ideologia nazionalista, e l’ideologia della guerra.
Perché, invece, la seconda guerra mondiale ha cambiato, almeno in Europa, questo modo di vedere la storia? Le ragioni sono diverse. Ho già indicato una ragione importante, forse determinante, ed è il modo in cui si concluse la seconda guerra mondiale, con due città, Hiroshima e Nagasaki (una visione allucinante), rase al suolo, fatte svanire nel nulla da un’arma nuova, diversa, per la sua natura, da ogni altra arma mai creata dall’uomo, che cambiava radicalmente la natura della guerra.
Ricordiamo che la pace fra le due superpotenze, la “guerra fredda”, ebbe come motivazione profonda quello che si chiamò e ancora si chiama MAD, la Mutual Assured Destruction, la Distruzione Reciproca Assicurata. La guerra, una guerra nucleare, non era e non è più credibile, almeno agli occhi di persone ragionevoli, come strumento per realizzare vantaggi politici: era ed è invece la ricetta per la distruzione sicura dell’una e dell’altra parte. Nessuno, almeno finora, può essere così pazzo da voler fare una simile guerra. O quasi nessuno: e quel “quasi” ci fa tremare. A suo tempo Mao diceva a Khrushchev che la Cina non temeva una guerra nucleare, perché con la popolazione che aveva poteva permettersi di perdere anche cento o centocinquanta milioni di uomini, e uscire vincente da una guerra atomica. Khrushchev era abbastanza razionale da non dargli retta, e nella crisi di Cuba fece marcia indietro. Ricordo quella domenica di sole, a NewYork, con la città immobile, che attendeva di sapere se le navi sovietiche con a bordo i missili nucleari, dirette a Cuba, sarebbero tornate indietro, e se fossero andate avanti che cosa sarebbe successo. Non siamo mai stati così vicini a una guerra atomica come in quelle ore, in cui trattenevamo il fiato. Prevalse anche a Mosca, ma fu una decisione touch and go, sul filo del rasoio, la consapevolezza che una guerra atomica doveva essere assolutamente evitata, e che le navi dovevano tornare indietro.
Dunque, la bomba atomica e ben presto la bomba H, mille volte più potente, contribuirono in modo determinante a convincere anche le democrazie europee a cercare una nuova unione, una nuova governance comune, che rendesse inimmaginabile una nuova guerra, come le due guerre mondiali che noi Europei avevamo provocato.
Ma questa non fu la sola ragione di una tale svolta della storia europea. Il fatto è che già prima di Hiroshima la seconda guerra mondiale (non la prima), aveva fatto la maggior parte delle sue vittime nella popolazione civile, aveva distrutto intere città, in un crescendo che era andato da Londra e Coventry a Dresda e Berlino. Cito Coventry perché la propaganda fascista, lo ricordo bene, si gloriava del fatto che l’aviazione italiana avesse “avuto l’onore” di partecipare alla distruzione di Coventry, che era stata rasa al suolo, e si era creata anche con giubilo la parola “coventrizzare”. Non c’era certo più giubilo quando ad essere “coventrizzate” furono città italiane, come Livorno. Questa volta, per la prima volta, la popolazione civile, le moltitudini, avevano “fatto la guerra”, ed è difficile, per chi non l’ha visto e vissuto, immaginare che effetto facesse nell’anima degli Europei, di tutti gli Europei, lo spettacolo delle città distrutte, ridotte in macerie. Un effetto, uno choc, neppure lontanamente paragonabile a quello che può fare oggi sui giovani vedere le stesse immagini in un film. Cambiò di colpo l’immagine della vita, della storia umana, della storia d’Europa.

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I nomi degli statisti che trovarono quindi, come non era accaduto dopo la Grande Guerra, appoggio popolare per i loro progetti di pace europea e di unione europea, sono a tutti noti. Lasciatemi però osservare che solitamente si ricordano, giustamente, Schumann, Adenauer, De Gasperi, Spinelli, Monnet, ma spesso si dimentica Winston Churchill, che pure fu, da vecchio convinto europeista, lo statista che più di ogni altro contribuì al varo della nave europeista.
Churchill, con Stalin, era l’unico statista europeo, e l’Inghilterra l’unica nazione europea, che avesse vinto la guerra: non De Gaulle, non certo la Francia, non il maquis, non i partigiani. La cosa straordinaria fu che Churchill, parlando a nome della sola nazione europea vincente (oltre all’Urss), forte del suo impero intatto e della sua alleanza speciale con l’America, non esitò un istante per proporre la pace e l’unione federale fra Francia, Germania e Italia, predicando l’imperative need, per i vincitori, di riconciliarsi con la Germania, e, «cosa più facile (cito da uno dei suoi discorsi), col popolo italiano, che desidera vivere felicemente e laboriosamente nel suo bel Paese, che fu gettato da un dittatore nelle ignobili lotte del Nord, e che guarda indietro alle glorie dell’età classica, quando una dozzina di legioni erano sufficienti per conservare la pace e la legge in vasti territori, e quando uomini liberi potevano viaggiare liberamente, protetti da una cittadinanza comune».
Churchill non volle nemmeno per un momento un’Europa debole e divisa, che poteva essere una tentazione per gli Inglesi; predicò e agì concretamente affinché l’Europa continentale facesse la pace con sé stessa, perché i “colpevoli”, Germania nazista, Italia fascista, fossero perdonati ed assolti, invitati a dare l’avvio, insieme agli altri, a una nuova storia europea. Fece memorabili discorsi, organizzò conferenze internazionali, quella dell’Aia che portò al Consiglio d’Europa, e nel suo ultimo discorso sull’Europa – uno straordinario discorso, in cui sogna che possa venire un giorno in cui «ogni europeo sarà orgoglioso di dire “I am a European”, come lo era un tempo di dire “civis romanus sum”» –, pronunziato all’Albert Hall il 14 marzo del 1947, fece il grande salto, che non aveva fatto prima, di predicare l’ingresso anche della Gran Bretagna nelle istituzioni europee, dicendosi certo che i popoli dei Dominions avrebbero capito ed approvato che la Gran Bretagna, essendo «geograficamente e storicamente parte dell’Europa» avrebbe dovuto fare la sua parte, «come paese membro della famiglia europea», per fare dell’Europa unita «a living force», una forza viva. Peccato che molti Inglesi questo lo abbiano poi dimenticato, mentre si continua a scrivere che Churchill non pensò mai a un’Inghilterra parte di una Europa unita. Nulla come gli errori e i luoghi comuni ha fortuna anche fra persone “colte”.
E poi ci fu, a favore dell’unione degli Stati europei, non lo dobbiamo mai dimenticare, l’apporto tenace e fondamentale degli Stati Uniti, che forse ne avevano avuto abbastanza delle due terribili guerre che avevano dovuto fare per salvare l’Europa e per vincere le conflagrazioni mondiali che l’Europa aveva generato, e che si impegnarono a fondo, anzitutto col Piano Marshall, per favorire la rinascita e l’unificazione europea e poi per costruire lo scudo della NATO contro la minaccia staliniana.
E infine ci fu anche, incauto, lo stesso Stalin, che con le sue conquiste nell’Europa dell’Est, e la sua minaccia incombente, funzionò da “federatore esterno” dell’Europa democratica. E anche questo diede una forte spinta a favore dell’unificazione. Qualcuno oggi si chiede se il venire meno di una minaccia esterna, vicina, forte, evidente, non sia una concausa dell’allentamento della spinta europeista. Come se la minaccia esterna alla nostra stessa sopravvivenza non continuasse ad esistere: esiste ed esisterà per sempre.

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Così fu fatto ciò che è stato fatto, partendo dalla esigenza immediata della ricostruzione di economie andate a pezzi, scegliendo l’unione dei mercati come primo terreno su cui avanzare, e questa fu in gran parte frutto della fantasia e del realismo di Monnet, che aveva già inventato, per la Francia, le plan, la pianificazione. I progressi fatti, dalla Comunità del Carbone e dell’Acciaio al Trattato di Roma fino all’Euro e alla Banca europea, dal MEC all’Unione Europea, al fine di dare sempre più solide basi allo spazio unito europeo, sono a tutti noti, e almeno a mio avviso irreversibili; anche se non tutti la pensano così.
Ma è l’Europa d’oggi, è l’Unione Europea, come sognava Churchill, “a living force”? È o non è all’altezza dei suoi sogni, della sua grandezza, della sua ricchezza economica, delle sue responsabilità in un mondo così profondamente cambiato nel corso dei decenni in cui sono state costruite le istituzioni europee?
Questa è la domanda essenziale, a cui la maggioranza, o forse la quasi totalità degli osservatori, risponde, con giuste argomentazioni, affermando che purtroppo l’Europa non è a living force quanto lo dovrebbe essere, non lo è abbastanza, non lo è quanto potrebbe esserlo. E questo lo penso anch’io, da vecchio europeista, anche se non sono d’accordo con la visione di Venturini di una “Europa rinazionalizzata”. Per quel che può valere il mio punto di vista, cercherò di spiegare che cosa penso dell’Europa, oggi e domani.
Tre anni fa, in un incontro al Quirinale con un gruppo di studenti di Harvard in visita a Roma, dovendo parlare sul tema Europe at fifty: old and new challenges (L’Europa a cinquant’anni, vecchie e nuove sfide) sono partito da una citazione tratta da un libro che era da poco uscito di Walter Laqueur, (un vecchio amico dei tempi in cui praticavamo ambedue l’arte difficile della cremlinologia), che era intitolato: The last days of Europe – Epitaph for an old Continent (Gli ultimi giorni dell’Europa – Epitaffio per un vecchio Continente): un po’ forte, no? Io dissi che con questo epitaffio, pur essendo un grande estimatore di Laqueur, ero in totale disaccordo. Del resto osservavo che perfino Laqueur, dopo aver precisato che «ultimi giorni era ovviamente un modo di dire», a figure of speech, riconosceva che «la ripresa dell’Europa dopo la Seconda Guerra mondiale era stata spettacolare, in vari modi perfino miracolosa, e non soltanto come ripresa economica». E ricordavo che nel marzo del 2007, «Time» descriveva l’unificazione europea, nel suo cinquantesimo anniversario, «the most extraordinary success story of our time», rappresentando l’Unione Europea «la più vasta estensione di pace e prosperità esistente al mondo», e il Nobel Joseph Stiglitz scriveva: «Il progetto europeo è stato un enorme successo, non soltanto per l’Europa ma per il mondo intero». E sì che allora l’Europa stava attraversando uno dei suoi periodi di giustificato “europessimismo”, dopo che gli elettori francesi e olandesi avevano bocciato il progetto di una nuova Costituzione! Fortunatamente, non solo per me, pochi giorni prima del mio discorsetto i 27 stati membri avevano, con molta cortesia, approvato a Lisbona un progetto che salvava gli elementi più importanti del Trattato come parti di un nuovo Patto costituzionale europeo, che è poi diventato realtà.
Dopodiché rimaneva e rimane a vedersi se le nuove istituzioni, ancora in fase di sperimentazione, funzioneranno, bene o meno bene. Sapremo soltanto nel corso dei prossimi anni quanti e quali progressi ci consentiranno di fare il nuovo Trattato e le nuove istituzioni che ha creato, per non parlare del nuovo, ancora incompiuto, forse appena iniziale, lavoro costituzionale che si sta facendo, in Europa e nel mondo, per rispondere alla crisi economica di questi ultimi due anni. In proposito sono lecite opinioni diverse.

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Ma intanto penso che valga la pena di ricordare alcune delle realizzazioni che giustificavano comunque i giudizi estremamente positivi che ho appena citato sui successi e sui progressi compiuti nei suoi primi cinquant’anni dal progetto di unificazione europea.
Prima di tutto, per la prima volta nella lunga storia d’Europa, abbiamo avuto la pace, una benedetta pace: con l’eccezione dei conflitti riaccesi nei Balcani dopo il disfacimento della Jugoslavia, a cui ha posto fine abbastanza rapidamente l’intervento militare americano ed europeo. Sappiamo tutti che i Balcani hanno scatenato la Grande Guerra. Questa volta, l’unità dell’Europa non è stata messa in crisi.
Secondo, la creazione del Mercato Comune, il MEC, come dicevamo una volta: il mio primo breve saggio sull’Europa, scritto su incarico dell’Ufficio italiano della Commissione (risale al gennaio 1966, e si intitolava L’Italia e il Mercato Comune oggi e domani), documentava minuziosamente gli straordinari progressi economici dell’Italia, il cosiddetto “miracolo italiano”, dovuto in buona parte alla nostra appartenenza alla Comunità. Conteneva poi un’osservazione di principio, che mi sembra abbia un suo valore ancora oggi. Scrivevo: «L’Unione doganale, per poter funzionare, richiede sempre nuovi progressi verso l’elaborazione di politiche comuni, e graduali rinunzie alla totale sovranità degli Stati nazionali. C’è una specie di logica dell’integrazione che spinge in avanti; compiuta una tappa del processo di unificazione, si è inevitabilmente spinti a intraprendere la tappa successiva».
Qualcosa di simile mi disse Jean Monnet, che è giusto chiamare il padre dell’Europa, nell’ultimo incontro che ebbi con lui nella sua residenza-ufficio nell’ultimo palazzo dell’Avenue Foch, con il verde del Bois de Boulogne sotto le finestre, ai primi di novembre del 1972, subito dopo il vertice dei Nove a Parigi. Il primo vertice con la partecipazione dell’Inghilterra, evento che Monnet giudicava «une chose énorme»: «Dopo l’ingresso dell’Inghilterrra – mi disse – la Comunità Europea non è più qualcosa di regionale, ma una cosa universale». Monnet aveva allora 84 anni, era asciutto di fisico, lucido e secco nei giudizi come era sempre stato, un po’ intollerante delle obiezioni. Quando gli chiesi se sarebbe stato possibile superare i contrasti di interesse nazionale «senza attraversare una grave crisi», replicò con una domanda insistente e tenace: «quelle crise, quelle crise?». Da quando aveva ispirato Robert Schumann a creare la CECA, nel 1950, ne aveva viste e superate troppe, di crisi, per non nascondere un certo fastidio a sentir pronunciare la parola crisi. Mi disse: «Lei è troppo analitico». Per lui non contavano le crisi, ma “le priorità”, gli obiettivi, i programmi da realizzare, puntando tutto su quelli, «per cambiare le condizioni europee per creare un nuovo contesto in cui i problemi istituzionali si pongano in modo diverso. Dopo, la Comunità sarà un’altra cosa». Era difficile uscire da un incontro con Monnet senza sentire un po’ vili le obiezioni alla sua argomentata fiducia.

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Ma voglio tornare agli achievements, alle realizzazioni dell’unificazione europea, come li vedevo, e li vedo ancora oggi. Ho messo al primo posto la pace fra di noi. Ho messo al secondo posto l’unione economica e il progresso economico e civile di tutti, grazie alla realizzazione di quella che Ludwig Erhard, il ministro delle finanze di Adeanuer, chiamò la Sozialmarktwirtschaft, l’economia sociale di mercato, che era poi l’evoluzione del “Welfare State” laburista degli Anni Cinquanta, espressione di cui lo “Stato assistenziale” è una traduzione imperfetta. Che avrà oggi dei problemi ma è ancora un modello per gli Stati Uniti e per il mondo, e che, soprattutto, e questo è stato forse il suo più grande merito, ci ha fatto vincere la Guerra Fredda senza sparare un colpo di fucile.
Perché, se la NATO è stata lo scudo che ha salvato l’Europa dall’ingordigia di Stalin, è stata l’Unione Europea, con i suoi progressi economici, sociali, scientifici, che rese nel corso degli anni inaccettabile ai popoli dei Paesi satelliti e della stessa Unione Sovietica rassegnarsi a restare sempre più indietro. Tak prodolzhat nelzhià, così non si può andare avanti, fu lo slogan di Gorbaciov quando prese il potere. È stata l’Unione Europea la spada che ha trafitto a morte il sistema sovietico, con le sue arretratezze strutturali, con le evidenti “linee di crisi del modello staliniano”; un modello che Stalin, sconfiggendo e mandando a morte Bucharin, aveva imposto all’Urss dopo la morte di Lenin e la fine della “NEP”. Patterns of crisis of the stalinist model era il titolo del corso che tenni nel 1969 a Bologna alla Johns Hopkins. Non era un’idea originale: l’arretramento e l’inevitabile deterioramento dell’economia sovietica erano stati previsti, fin dagli Anni Sessanta, e da alcuni anche molto prima, da molti lungimiranti economisti, anche sovietici.
Il successo dell’unificazione europea fu il fattore fondamentale per il crollo dell’impero sovietico ed anche, non lo possiamo dimenticare, per il crollo dei restanti sistemi fascisti, militari, totalitari, dell’Europa del Sud: Portogallo, Spagna, Grecia. È grazie al successo della Comunità Europa se tutta l’Europa è diventata, pacificamente, una democrazia. È bene ricordarlo nei momenti in cui le difficoltà che accompagnano l’evoluzione e la crescita dell’Unione si fanno sentire. Difficoltà reali; ma, ripeto, io non credo proprio che sia seriamente immaginabile che venga “disfatto ciò che è stato fatto”. Anche se i sentimenti nazionali sono ancora tanto vivi nei Paesi dell’Unione, anche se alcuni dei nuovi aderenti, che hanno da poco riconquistato la libertà, rischiano o hanno rischiato di scambiare talvolta l’Unione Europea per una sorta di più gentile Unione Sovietica. Ma si sbagliavano. È vero che i nostri vecchi stati nazionali sono tutti più o meno riluttanti a rinunciare a questo o quel pezzo della loro sovranità. Eppure, è quello che continuano a fare.
Anche la “zoppia”, e vengo all’oggi, che Ciampi ha sempre denunciato, consistente nel fatto che l’Europa unita si sia data una Banca Federale Europea, ma non una politica economica federale, viene ormai riconosciuta un po’ da tutti come il problema che la grave crisi che ci ha colpito ci impone di affrontare. E lo stiamo affrontando, anche se non tutti i giudizi sono positivi e fiduciosi nel giudicare ciò che è stato fatto, ciò che ci si è impegnati a fare, ciò che si sta realmente facendo per completare un sistema di governance europea in campo economico e monetario.

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Ma l’unificazione europea è qualcosa che deve estendersi a molti altri campi. Il panorama dei problemi che l’Unione, con l’ambizione di rimanere un attore politico globale, deve affrontare, è vastissimo: dalla partecipazione creativa alla gestione dei nuovi scenari politico-strategici del mondo della globalizzazione, ai problemi dell’immigrazione, ai problemi energetici, al miglior modo di affrontare i cambiamenti climatici, alla partecipazione a un nuovo governo mondiale dell’economia, ai nuovi assetti e strumenti della politica estera e di sicurezza dell’Unione, con relativi interventi militari in aree di crisi. È a tutti noi evidente che la strada dell’unificazione europea è davvero lunga, e ancora incompiuta. Di ciò, alla mia età, uno si rende conto con un po’ di rammarico. Il fatto è che tante cose io e i miei coetanei non faremo più in tempo a vederle. Io ho visto la fine dello stalinismo, e forse non ci speravo. Non so proprio se vedrò la pace fra Israele e Palestinesi. Certo non vedrò la piena realizzazione dei miei sogni europei. Ai giovani il lavoro da farsi per andare avanti certo non mancherà.
E pensare che ciò che è stato fatto fino ad oggi, e anche molto di ciò che si sta facendo o progettando, ha avuto ed ha ancora per obiettivo primario di offrire una risposta completa alle vecchie sfide, alle sfide che vengono dal nostro passato di un insieme di Stati nazionali, guidati da interessi nazionali, che certo vengono meglio serviti dall’insieme di istituzioni paneuropee che abbiamo creato, anzi, che hanno creato, ma che ancora faticano ad adattarsi al cambiamento che pure appare loro necessario, guardando al passato.
Come non bastasse, si stanno oggi cercando le risposte ai problemi del domani, e non è detto che le nuove istituzioni in fase di progettazione o soltanto di rodaggio siano in grado di rispondere alle “nuove sfide”, assai complesse, in buona parte ancora imprevedibili e in evoluzione, che non mancheranno.
In questi momenti ci appare dominante e ricca di incognite la sfida complessa alla stabilità del mondo islamico, con regimi autoritari sulla via del tramonto (una svolta storica, dalle imprevedibili conseguenze); così come la sfida complessa dell’islamismo, quello che ad alcuni appare come il pericolo, più o meno reale e vicino, di una sorta di graduale “islamizzazione” dell’Europa, per effetto di una crescita spropositata della popolazione europea di fede islamica. Mentre ci appare ancora vicina e attuale la sfida, rivolta non soltanto a noi ma anzitutto alle stesse nazioni islamiche, di un fanatico estremismo islamico, aggressivo e terroristico, per noi quasi incomprensibile nelle sue motivazioni, e non sappiamo quanto realmente credibile negli obiettivi a nostro avviso mostruosi che si propone e persegue. Fra l’altro, se i terroristi islamici si impadronissero di una bomba atomica, non esiterebbero ad usarla, e contro di loro, che non sono uno Stato, non varrebbe neppure la minaccia di una rappresaglia nucleare: MAD, contro il terrorismo, non funzionerebbe.
Noi supponiamo che le istituzioni sopranazionali europee e le nostre alleanze internazionali, prima fra tutte ovviamente quella con gli Stati Uniti, ci offrano una buona dose di protezione, ma non credo che possiamo giudicare che il sistema internazionale, che fa capo anzitutto all’ONU, e con esso le nostre alleanze e le nostre politiche, offrano una risposta davvero adeguata alle nuove sfide, alle sfide oggi imprevedibili, ma che non mancheranno.
La NATO, concepita per rispondere a una minaccia tutto sommato locale, fatica a dimostrarsi all’altezza dei compiti, non soltanto militari, che i Paesi dell’alleanza sentono però di dover assolvere: a cominciare, oggi, dall’Afghanistan. Domani non sappiamo dove potranno presentarsi. E l’Unione Europea non fa sempre la propria parte in modo sufficiente, equilibrato e giusto. È questo che il Presidente Napolitano, ricordando il rapporto von Worgau del febbraio 2008, è andato a dire con forza nel maggio 2009 a Londra all’IISS, l’International Institute for Strategic Sudies, e cito dal discorso del Presidente: «Sono un fatto innegabile la difficoltà e la lentezza con cui si è proceduto nel corso dell’ultimo decennio a dotare l’Unione Europea degli strumenti necessari perché essa potesse fare la sua parte a tutela della sicurezza comune». Ricorda Napolitano che il rapporto giustifica questo giudizio con la «cruda constatazione» che gli Stati membri «concepiscono ancora troppo spesso i loro interessi in un’ottica puramente nazionale». Noi Europei facciamo certo molto meno di quello che l’America è ancora capace di fare. La morte di un nostro soldato in Afghanistan, non vorrei apparire brutale, è ancora, giustamente, oggetto di solenni onoranze funebri con la partecipazione di tutte le più alte autorità istituzionali. L’America piange la morte di migliaia di soldati per gli stessi fini, ogni giorno muoiono soldati americani, e ovviamente cerimonie come le nostre non sono neppure lontanamente concepibili.
Abbiamo talvolta l’impressione che l’Europa si accontenti, che tenda a rinchiudersi in una sorta di compiaciuto isolazionismo. Fra i miei sogni peggiori c’è poi quello di un nuovo isolazionismo americano, non impossibile il giorno in cui l’America, non più onnipotente, divenisse pienamente consapevole di quelli che Henry Kissinger già molti anni fa definiva «the limits of American power» i limiti della potenza americana. E non parliamo di altri immensi problemi, che pure ci toccano, direttamente o indirettamente, come i problemi derivanti dall’apparente peggioramento del clima, su cui stentiamo a farci un’opinione sicura.

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Se si tiene conto di tutto questo, non si può non giungere alla conclusione che l’alleanza occidentale, che sembrava aver assolto il suo compito storico con la sconfitta dell’Unione Sovietica, ci appare ancora come una necessità, nei confronti di un mondo dove, oltre a tutto, l’“Occidente” (e io continuo a pensare, anche se non tutti sono d’accordo, che anche la Russia sia Occidente, e che presto o tardi finirà per rendersi pienamente conto di questa sua condizione geopolitica) peserà sempre meno, come popolazione e come potenza economica, e forse anche militare, in termini relativi. I Paesi della Nato e dell’Unione Europea rappresentano oggi poco più o poco meno del 13 per cento della popolazione mondiale, ma il 63 per cento del PIL mondiale, e oltre il 70 per cento della spesa militare globale. Ma queste percentuali, si può starne certi, rappresenteranno sempre meno la realtà.
A queste sfide, attuali e future, il livello di unificazione europea che abbiamo raggiunto non offre, e anche i progetti in corso di attuazione non offrono, nell’opinione di un vecchio federalista europeo come me, risposte adeguate. Ma credo ancora fermamente che il sogno, anzi il progetto in costruzione da più di mezzo secolo, di un’Europa realmente unita, capace di esprimere una politica estera realmente europea, e di agire unitariamente sulla scena mondiale, rappresenti la sola valida e necessaria risposta alle sfide del futuro, come alle sfide del passato.
Credo, non dico temo, che, come è toccato a noi, toccherà anche ai nostri figli e nipoti di vivere tempi interessanti. E ovviamente mi auguro che non manchino a loro, come non sono mancati a noi, progetti da definire e mettere a punto, programmi da formulare e realizzare, sia pur gradualmente, e sogni da realizzare. Vorrei concludere con una citazione dai Mémoires di Jean Monnet: «Si può pensare che io sia troppo ottimista, e tuttavia non è questo un tratto del mio carattere. Sono soltanto un uomo deciso. Si può forse dire, per esempio, che un’azione necessaria sia impossibile, fintantoché non la si sia messa alla prova? Nulla è mai perduto, finché si è in vita. On ne sait pas”, non lo si sa. Semplice, no?».



NOTE
* Questo testo è la rielaborazione dell’intervento conclusivo, a me affidato, del “Seminario Europeo Renzo Imbeni”, tenuto a Modena nell’ottobre del 2010, con la partecipazione di alcune decine di studenti universitari di varie parti d’Italia, che nel corso di una settimana avevano ascoltato più di trenta lezioni di funzionari dell’Unione Europea e di studiosi di diversa origine, che avevano coperto l’intero arco delle attività, funzioni e problemi che l’Unione sta attualmente svolgendo ed affrontando.^
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