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Futurismo, novecentismo assoluto
di Giuseppe Galasso
Si dà il caso che futurismo e fascismo siano i fenomeni italiani che nel loro tempo – il secolo XX – hanno conseguito una maggiore diffusione mondiale. Essi, peraltro, indubbiamente configurano movimenti e idee prettamente e originalmente italiane.
Non è un caso che il complesso panorama dei movimenti totalitari di destra così frequenti e potenti nel corso di quel secolo siano stati tutti designati come manifestazioni di fascismo, anche quando per la loro genesi e per i loro esiti erano alquanto lontani dal partito e dal regime di Mussolini, e anche quando, come nel caso del nazional-socialismo tedesco, superavano di gran lunga il fascismo italiano (anzi, in Germania Hitler non cessò mai, come si sa, fino al suo ultimo giorno, di considerare Mussolini quale suo maestro).
Quanto al futurismo1, la sua matrice italiana era particolarmente sottolineata dai suoi iniziatori nel 1909, e in particolare dal fondatore del movimento, ossia da Marinetti. «È dall’Italia – egli affermava – che noi lanciamo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il “Futurismo”». Anche gli intenti erano prettamente italiani. «Vogliamo – proseguiva Marinetti – liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari». Anzi, addirittura per il nome dato al movimento Marinetti ne esaltava la matrice italiana. Alla richiesta dei suoi compagni di una “parola d’ordine” per il nuovo movimento, «esitai un momento – dice ancora Marinetti – fra le parole “Dinamismo” e “Futurismo” », ma – aggiunge subito – «il mio sangue italiano balzò più forte quando le mie labbra inventarono ad alta voce la parola “Futurismo”»2.
La paternità marinettiana della denominazione è indubbia, così come sono indubbi il carattere e l’assoluta iniziativa italiana nel dar vita al movimento. Non è, invece, altrettanto vero che “futurismo” fosse una parola inventata allora. Già nel 1843 la troviamo, invero, usata dal Gioberti, quando dice che «l’occidente ha poco l’intuito del passato, e nulla quello dell’avvenire», e che, di conseguenza, «non ha futurismo, palingenesìa, e ha appena le origini»3. Giudizio, questo di Gioberti, alquanto sorprendente, se si pensa al senso occidentale della storia per il passato, e alla parte che utopie, millenarismi ed escatologismi hanno avuto nella vicenda europea. Sepolto com’era nelle pagine del Gioberti, il termine poteva, tuttavia, comprensibilmente apparire del tutto nuovo. Ancora di più questo era poi comprensibile in quanto il significato giobertiano del termine stava ad indicare una mancanza di senso del futuro e di atteggiamento palingenetico, religioso, rispetto al futuro stesso. Nel senso assunto con Marinetti futurismo voleva dire una completa rottura dei ponti col passato al ritmo di un dinamismo violento e distruttore verso tutto ciò che si configurava come passato. L’esaltazione della macchina, della velocità, del gesto, dell’azione e delle altre componenti dell’ideologia futuristica erano tutte convergenti nel senso di questa esaltazione del nuovo come unico canone estetico, etico, politico. E nuovo indubbiamente era nelle sue tesi e nelle sue petizioni il movimento a cui Marinetti diede vita.
Papini sostenne poi, peraltro, che «in questo futurismo c’era ancora parecchio passatismo». Per lui, infatti, non vi era dubbio: «il fondo del programma» futurista, ossia la «(celebrazione della vita moderna) non era nuovo», e richiamava al riguardo Walt Whitman, Verhaeren, D’Annunzio4. Non è troppo, però, definire queste come postume malignità tipiche di quello spirito un po’ torbido e contorto che Papini fu sempre. E questo non perché nel panorama futurista fossero assenti o non avessero la loro parte elementi del tanto deprecato passato. Gobetti ironizzava, non senza ragione, sulle «scoperte marinettiane di forme d’arte alessandrine»5; e Papini, in ciò a ragione, affermava che alcune «teorie futuriste (verso libero, ecc.) derivavano troppo evidentemente dalla recente letteratura francese»6. La novità del messaggio futurista – «il fondo del programma», per usare i termini della malevola critica di Papini – era al di fuori di ogni possibile discussione, perché a renderlo nuovo non era tanto o soltanto questa o quella tesi, questo o quel contenuto del manifesto futurista. Era una nuova intuizione della vita e del proprio tempo. Era una nuova “filosofia” (è superfluo avvertire con quale discrezione si debba prendere qui questo termine) della modernità e del suo rapporto col passato; una filosofia, come si è visto, di totale contrapposizione e rottura, e molto spesso in forme che finivano con l’apparire del tutto gratuite e irrelate, per cui non solo Cassola a suo tempo avrebbe giudicato le idee e le manifestazioni del futurismo «roba da manicomio»7, ma questa fu l’opinione subito più che largamente prevalente fra i contemporanei, e poi, ancor più, fra i posteri. E in questa dimensione «da manicomio» era ovvio e naturale che tutte le persistenze, i precedenti, le ascendenze, le ripetizioni, le derivazioni ravvisabili nel futurismo rispetto al tanto da esso deprecato passato, e anche la lettera e il senso di quanto era già stato proprio di questo o quel precursore (i futuristi, per la verità, non ne riconoscevano) cambiava radicalmente di spirito, di significato, di direzione o tendenza. Era una materia prima che nel verbo futurista veniva totalmente trascesa, trascesa al punto da poterla considerare nullificata e nata ex novo, neonata con quel verbo. E se così non fosse stato, neppure l’impatto del futurismo avrebbe potuto essere quello che fu.
Il vero problema non è, dunque, la novità indiscutibile del movimento, bensì la ragione per cui esso ebbe tanto e così ampio successo a livello non solo europeo. Panzini affermò tempestivamente che «con l’affare della velocità e con l’assioma che “la vita comincia domani”, il futurismo ha trovato il suo secolo»8. Gettata là, quasi a ridosso dei fatti, l’osservazione era particolarmente penetrante. Il segreto del successo futurista è, infatti, tutto e semplicemente qui: nella rispondenza, cioè, del movimento a esigenze e aspettative mature nella coscienza e nello spirito del tempo. L’intero versante avanguardistico ed estremistico della critica del tempo agli assetti costituiti e alle tradizioni politiche e culturali trovò nel futurismo una espressione congeniale imprevedutamente significativa ed efficace. Chi non percepisce questo legame profondo tra il movimento e il suo tempo perde la possibilità di conseguirne una piena intelligenza storica. Bisogna, anzi, aggiungere che il rapporto era così profondo da investire e compenetrare anche coloro che osteggiarono il movimento; e ciò per il semplice fatto che le idee messe in moto dalla ideologia futurista erano materialmente presenti nella realtà civile del tempo e non avrebbero fatto altro in seguito che accrescere e rendere più costitutiva e determinante la loro presenza storica. Sarebbero bastati a questo due soli motivi, come quelli della macchina e della velocità. Vivere noi vogliamo, Ardi, correndo, aveva già gridato D’Annunzio9, e la relazione tra velocità e macchina è di immediata percezione. Ma la macchina non era allora e sempre meno fu poi un fattore determinante soltanto della velocità. Avrebbe pervaso in realtà ogni aspetto della vita civile, pubblica o privata; avrebbe regolato l’organizzazione del lavoro; sarebbe diventata il vero termometro della potenza economica e della potenza militare.
Non si può dire che i futuristi non abbiano avuto una percezione esatta della congiuntura storica in cui operavano, e in questo caso la congiuntura storica era anche una congiuntura epocale. I futuristi volgevano poi questa percezione in un canone anche e soprattutto estetico. «I futuristi – si diceva in uno dei loro manifesti – hanno visto per primi nella macchina, oltre che la più meravigliosa conquista utilitaria dell’umanità, anche la sintesi estetica che cambierà la faccia del mondo»10. Una estetica, dunque, dalla imprecisata facies e funzione rivoluzionaria, che, intanto, però, rivoluzionava il campo dell’arte, predicando «la nuova formula dell’Arte-azione»11. Ojetti notava, perciò, a ragione, che i futuristi avevano «inventato una nuova sintassi e quasi una nuova lingua»12. Di questa estetica le “parolibere” furono, probabilmente, la manifestazione che più colpì anche l’immaginario del tempo. Ancora Pavese, alcuni decennii dopo, nella persuasione che «il linguaggio è soggetto a una sintassi […] come i suoni a rapporti matematici, le pietre a esigenze di gravità, e i colori a rapporti cromatici», si spiegava agevolmente che si respingessero «d’istinto le parolibere futuriste»13. Ma l’innovazione futurista aveva avuto effettivamente corso, e quel che, dunque, bisogna vedere in essa non è tanto la stramberia o il capriccioso arbitrio di una novità senza altro criterio che quello dell’Arte-azione quanto il contenuto o la motivazione di fondo di quella stramberia o arbitrio. In ultimo, osservava spiritosamente Gadda, «perfino i futuristi son costretti a chiamar rotaie le rotaie e storia la storia»14. La realtà, cioè, si imponeva anche all’arbitrio e al capriccio, e ne era una prova da non potere in alcun modo trascurare che in anni di sviluppi storici pregnanti, come quelli dell’affermazione del fascismo in Italia o della prima instaurazione del potere comunista in Russia sotto Lenin, il futurismo occupò un luogo non marginale negli sviluppi politico-culturali di allora.
I modi di esprimere la percezione che i futuristi ebbero del loro tempo potevano, insomma, risultare paradossali e, addirittura, manicomiali, ma la sostanza era quella e, come si è detto, era penetrante. Gli esiti verbali, espressivi, tecnici, figurativi della prassi futuristica diedero luogo a una realtà di arte e di pensiero di ardua digestione culturale e di incisivo e sconvolgente impatto politico. Ma già sarebbe un errore vedere, anche sul piano letterario o estetico o formale o figurativo, in questa realtà di arte e di pensiero solo una totale e assoluta negatività. Il futurismo, così come altre “avanguardie” (il termine è diventato di rito per ricordarle) dello stesso periodo, non funse solo da sterminator Vesevo in un paesaggio rurale sereno, ordinato, fiorente. Agì, invece, come quelle avanguardie, in un’Europa già sconvolta da una crisi profonda, che si esprimeva in quella «voragine ideologica» in cui Jaime Vicens Vives la vedeva precipitare al termine del secolo XIX15.
In altri termini erano il futurismo e le altre avanguardie coeve la causa di quel grande demarrage, di quel disancorarsi dell’Europa dalle sue storiche e consolidate certezze e connessi valori o ne erano semplicemente una manifestazione? La risposta non può essere dubbia. Lo stesso Croce, uno degli avversari più precoci, acuti e coerenti dell’intera ipotesi futuristica, aveva avvertito lo sconvolgimento da cui il futurismo sarebbe nato già due anni prima del Manifesto di Marinetti su «Le Figaro», in quel saggio su Un carattere della più recente letteratura italiana16, nel quale si formulava la diagnosi dell’attivismo come cifra del travaglio che portava l’Europa verso i lidi di un incontrollabile disorientamento. E allo stesso modo, e ancora di più, occorre ben guardarsi dal ritenere il futurismo un episodio e uno sviluppo soltanto italiano, un fiore di campo o una particolarità più o meno anomala della penisola italica. Occorre guardarsi da un tale giudizio non solo perché, come già si è detto, vastissima fu la fortuna internazionale del futurismo, ma soprattutto perché se ne perde così la profonda, radicale connessione genetica e sostanziale con l’onda lunga di una stagione europea, che nel corso del secolo XX si sarebbe andata irradiando in una serie di grandi rivoli e di minuscoli rivoletti prima di consumarsi per intero in una nuova e più generale voragine alla fine dello stesso secolo XX, che non sarebbe più stata, peraltro, qualificabile soltanto quale voragine ideologica, come Vicens Vives faceva per la fine del secolo XIX.
Su questo sfondo si comprende anche tutta l’insufficienza di una considerazione puramente moralistica o psicologistica del futurismo, come, del resto, di tutte le coeve avanguardie. Moralismo e psicologismo possono avere, e hanno, la loro parte nella considerazione storica del fenomeno, ma non possono essere ritenute le chiavi più proprie di lettura di un fenomeno così complesso e pervasivo, così generale e duraturo, e di tanto effetto. E sempre allo stesso modo, e in coerenza con quanto finora si è detto, neppure una valutazione puramente negativa, in termini di devastazione e di disarticolazione di supposti precedenti e sani equilibri, quasi che futurismo e avanguardie fossero sopravvenuti come il popolo degli sconosciuti Hyksos dal mare nell’Egitto faraonico. La delicatezza del problema storico posto dal futurismo e dalle avanguardie degli inizi del secolo XX sta proprio in ciò: nel non ignorare il valore sintomatico e non causale del fenomeno, ma avendo chiaro che il sintomo è anch’esso causa o concausa, quando assume il rilievo dei fenomeni di cui parliamo, e, come tale, determina una ulteriore evoluzione e indirizzo degli sviluppi da cui procede. In altri termini, la “malattia” avanguardistica, se malattia era, non si autoproduce, ma resta ugualmente una malattia e, una volta insorta, ha il suo corso e i suoi effetti, anche molto diversi e diversamente incidenti da quelli originari.
Del resto, fuori del quadro generale europeo e contemporaneo sarebbe difficile, per non dire impossibile, comprendere anche lo spirito del futurismo nel suo nucleo essenziale. Con troppa facilità e superficialità si è parlato di un «male oscuro» dell’Europa17, di cui si sarebbero viste le fatali conseguenze negli sviluppi drammatici del secolo così impropriamente e infelicemente definito “breve”18. Di oscuro, invero, vi è ben poco. La scena europea fra il XIX e il XX secolo è fin troppo chiara. Un mondo giunge al suo culmine, costruendo un ammirevole e grandioso scenario di potenza. Ricchezza, cultura, arte, savoir vivre e joie de vivre, diffusione inaudita di benessere, scienza e progresso tecnico senza precedenti, espansione globale irresistibile, e si potrebbe continuare nell’indicazione di simili eccellenze. Eppure, già si avverte che quel mondo è come un atleta che fornisce le sue massime e insperate prove, ma gareggia ormai al di sopra delle sue possibilità, e quanto più avverte la dimensione dell’oltre di questo sforzo, tanto più tende i muscoli e lo spirito nel superarsi ancora. Chi nella esaltazione da “ultimi giorni” del ballo Excelsior e nelle carezzevoli e trascinanti note dei valzer viennesi di Johann Strauss avverte appieno la struggente malinconia di un mondo sul filo del rasoio può capire questo meglio e più a fondo. Perfino a un uomo più che omogeneo al suo tempo e consentaneo con esso quale fu Carducci accadeva di vagheggiare «la compagnia bella, bella e buona da vero, in mezzo alla quale vorrei viver sempre, dimenticando il novecento non che l’ottocento»19. Nel mondo dei massimi trionfi matura, insomma, la sua antitesi, che per un verso lo rifiuta, per l’altro tende spasmodicamente a superarlo20.
Il processo che così si instaura è del tutto evidente e alimenta movimenti culturali e sociali di diversissima, ma concorrente e sinergica direzione, fra i quali anche il futurismo si colloca. Vedere in ciò un’ultima pagina della grande rivoluzione culturale che era stato all’apertura del secolo XIX il Romanticismo non è per nulla accettabile. Il futurismo, con tutto ciò che di analogo o affine o eterogeneo ma ugualmente dirompente lo accompagna, non è un episodio di estremo romanticismo. È cosa del tutto nuova, da congiungersi, per quanti legami se ne possano ravvisare (e ne abbiamo notato qualcuno) con varii precedenti e condizionamenti, alla nuova realtà dell’Europa fin de siècle. È cosa nuova, e come tale, infatti, fu subito percepito, e in questo suo intenzionale e conclamato e riconosciuto carattere di novità trovò la prima ragione della grande eco e del successo che immediatamente conseguì. Semmai, una coda di romanticismo si può ravvisare nel crepuscolarismo e nell’intimismo così frequente in Italia e fuori tra XIX e XX secolo (si pensi in Italia, tanto per fare un nome, a Sergio Corazzini21). Anche in questo caso, però, la piena assimilazione dello spleen della fin de siècle alla generosa onda romantica della prima metà del secolo (benché anche per il Romanticismo, e soprattutto per i suoi ultimi esiti, sia stata avanzata la diagnosi di malattia dello spirito)22 è più che dubbia, e il dubbio invita a ravvisare anche qui un fenomeno sostanzialmente nuovo.
Non è, peraltro, solo un processo di dissoluzione, quello che si esprime col futurismo e coi movimenti paralleli o avversi, e non è fenomeno univoco: ecco un altro punto sul quale occorre particolarmente insistere.
L’eredità futurista nel campo delle arti non svanirà tutta nel nulla, e contribuirà, come è noto, in maniera determinante alle vicende delle arti nel secolo XX. Anche in letteratura si può ben dire qualcosa del genere. «La prosa moderna – scriveva il Flora, certo non ascrivibile agli entusiasti del movimento – futuristeggia. I periodi, che un tempo erano togatamente d’annunziani, si sveltiscono, diventano più agili, più monelli, più scaltri»23. Un bel contributo, dunque, alla modernizzazione della prosa italiana. È, però, in tutta la letteratura del secolo XX e in tutta Europa che, come nelle arti, le tracce dell’eredità futurista sono molteplici e non difficilmente ravvisabili, anche se, come si è detto, il panorama del secolo è, tutt’altro che univoco e presenta un’appena credibile varietà di spinte e di tendenze.
Si pensi solo, ad esempio, come proprio in Italia alla negazione futuristica di ogni ordine o stile geometrico corrisponda lo «stile geometrico-lineare, a giochi di rigidità», come lo definiva Panzini24, del “novecento” o “novecentismo” in architettura, nell’arredamento, nella grafica, e così via. Ma – soprattutto – la non univocità del contesto in cui il futurismo si delineò e operò con la sua cifra originale di forte spinta culturale vale al suo interno prima e più che per ogni altro verso. Non si tratta, però, a questo riguardo, di affermare banalmente che nel futurismo occorre discernere e leggere varii futurismi. Si tratta di trascendere la banalità di una tale affermazione risolvendo il binomio, o dilemma che dir si voglia, futurismo-futurismi in un racconto adeguato alla pluralità delle personalità che il futurismo inventarono e svilupparono, percorrendo sentieri paralleli o convergenti e perfino divergenti, ma sempre in sinergia con la spinta di fondo di cui il futurismo come tale era la diretta espressione e che fu la ragione dell’ufficio che esso svolse al suo tempo in tanto rilevante misura.
Infine, aveva poi le sue ragioni Gramsci ad affermare che Pirandello «ha contribuito molto più dei futuristi a “sprovincializzare” l’uomoitaliano”»25, ma che il futurismo si inserisca con una sua innegabile e per nulla trascurabile forza in questo processo di “sprovincializzazione” è davvero innegabile.
Liquidare il futurismo come “scemenze futuristiche”26, come assoluta inesteticità (perché, diceva Croce, andava «contro l’eterna legge del bello»27), come esclusiva fisicità o materialità espressiva e valoriale, come rinunzia alla ragione ancor più che alla razionalità, come irresponsabile immoralismo, come puro spirito eversivo, come edonistico o anarchico abbandono di ogni regola o disciplina, o in altri simili modi che connotino negatività e irrazionalità, non porta molto lontano sulla via di quella intelligenza storica del fenomeno di cui si avverte ancora la carenza. Quello che si pone, infatti, rispetto al futurismo è ancor oggi un problema di recupero critico del senso del ruolo storico che esso ha avuto, nella sua specificità e nella pluralità dei suoi indirizzi, e questo in chiavi sia lontane dalla polemica e dalla ideologia sia di una piena, totale contestualizzazione europea.
Non si tratta affatto di rivalutazione o di riattualizzazione. Nessun revisionismo, insomma. Soltanto intelligenza storica: quella intelligenza che è richiesta, oltretutto dalle dimensioni di un fenomeno nel quale si espresse con tanta forza lo spirito del secolo in cui esso fiorì. Ossia, il restauro storico-critico del futurismo in quanto “novecentismo assoluto”, come a me è già accaduto di qualificarlo28. Un’esigenza storiografica più che mai necessaria mentre sempre più si avverte quanto siano tuttora largamente aperti i conti del secolo XXI neonato col secolo precedente, e quanto da questi conti aperti derivi delle insicurezze e dei problemi del nuovo secolo.
Infine, qualche parola va pure detta rispetto alla consuetudine consolidata di definire il Futurismo un “movimento di avanguardia” nel panorama delle arti e della letteratura dei primi anni del secolo XX. Una consuetudine che risale peraltro agli stessi futuristi. Soffici, per fare solo un esempio, non esitava a scrivere che la pittura futurista era «la pittura d’avanguardia per eccellenza», e ciò perché adeguava «perfettamente le forme all’espressione della sensibilità raffinata, complessa, parossistica d’oggi»29.
Non ci sarebbe, quindi, nulla di male nella consuetudine di definire il futurismo come “avanguardia” nel senso novecentesco del termine, e non solo per la sua accennata, originaria derivazione futuristica, bensì anche perché non si fa che enunciare, così, una convinzione storica e critica, che fu già l’impressione destata dal Futurismo al suo nascere.
Senonché, quel termine di “avanguardia” ha poi finito con il dilagare, e chi ne facesse un accurato bilancio rimarrebbe stupito nel constatare quante avanguardie siano fiorite e si siano definite o vengano considerate e denominate tali. Lo stesso Soffici parlava già dei «frenetici avanguardismi» del suo tempo; e osservava sarcasticamente che perfino «il “borghese” non [era] più un uomo d’ordine, un posapiano», ed era diventato «avanguardista, rivoluzionario, estremista»30. È fatale, perciò, che l’uso indefinito e incontrollato del termine abbia finito con l’usurarlo a tal punto da togliere ad esso del tutto il senso originario e pregnante di un movimento precorritore e, al tempo stesso, innovatore su sentieri che poi sarebbero stati quelli del più generale movimento storico nel suo complesso. Alcuni parlano, quindi, con una designazione ben presto anch’essa inflazionata, di “avanguardie storiche” per designare quei movimenti che al loro tempo fecero epoca e meritano d essere considerate le vere avanguardie, le avanguardie “per eccellenza”, come Soffici diceva della pittura futurista, e come nel suo complesso tutto il Futurismo merita a ogni titolo di essere considerato. Poi si sa che le palingenesi, i rivoluzionamenti, le trasformazioni radicali e totali auspicati dalle avanguardie (da quelle, in particolare, a cui davvero, e più, si addice tale termine) non si realizzano che in minima parte o non si realizzano affatto; e il cimitero delle mancate realizzazioni o dei falliti progetti avanguardistici è incomparabilmente più esteso dei loro conseguimenti e successi. Del resto, il sempre più rapido, talora incalzante, succedersi di “avanguardie” apportatrici di nuovi verbi rivoluzionari nel corso di tutto il secolo XX dà di per se stesso il senso dell’insuccesso nel quale regolarmente sembrano incorrere le avanguardie, quelle “storiche” non meno di quelle di minore o di nessun rilievo. L’insuccesso si intende, naturalmente, rispetto ai programmi ambiziosi e universali delle stesse avanguardie o sedicenti tali. Tutt’altro è il discorso se si pone mente all’ufficio storico al quale in concreto hanno adempiuto le avanguardie in senso proprio e più alto. Palazzeschi ne riassumeva «la sorte» nel fatto che esse «precorrevano un tempo più razionale e semplice, che doveva portare spigliatezza e sincerità nel costume e far cadere tante smorfie e calle»31. Ma, in effetti, la loro funzione era più importante e più complessa. Non si trattava solo di portare semplicità e autenticità in un mondo di vecchie convenzioni e di formalistiche tradizioni. Già per questo verso le avanguardie erano storicamente giustificate, positive e feconde. In realtà, si esaltava, però, in esse la ricerca di nuovi valori e di nuovi canoni attraverso l’arte esaltata nelle sue possibili implicazioni ideologiche, oltre che nella sua fondamentale e primaria dimensione estetica. La parte ideologica doveva fatalmente rivelarsi largamente o del tutto caduca, ma questo esigerebbe un discorso specifico e particolareggiato. Quanto alla dimensione artistica, estetica delle avanguardie, il discorso non può che essere differenziato a seconda dei singoli movimenti, autori, momenti; e si può senz’altro riconoscere che il Futurismo fu su questo piano uno dei movimenti più fecondi e più positivi, nel doppio senso che a questa valutazione, nel suo caso come nel caso di tutte le avanguardie, si può e si deve dare: e, cioè, nel senso di realizzazioni e di creazioni di opere d’arte di alto livello, e nel senso di un nuovo modo di guardare all’arte e alle opere d’arte32.
Tutte queste sono cose, peraltro, ben note, che qui sono ripetute solo per sottolineare ciò che il Futurismo fu e rimane nella memoria e nella coscienza storica non solo per gli studiosi e gli specialisti, ma anche per quella che si suole definire la “cultura corrente” e la comune coscienza civile ancora agli inizi del secolo XXI.



NOTE
1 La bibliografia sul Futurismo è, come si sa, sterminata. Se ne può avere un’idea consultando P.L. Albini, Bibliografia futurista, in htpp:// www.steppa.net/html/futurista/bibliografia.htm, che è puramente elencativa, ma è aggiornata al 2009. Si vedano, inoltre, P. Bergman, M. Calvesi, Futurismo, in Enciclopedia del Novecento, vol. III, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1978, pp. 118-136; A. D’Orsi, Il Futurismo tra cultura e politica. Reazione o rivoluzione?, Roma, Salerno Editrice, 2009; Futurismo, a cura di R. Campa e Associazione Italiana Transumanisti, in «Divenire», 3 (2009); Futurismo 1909-2009. Velocità+Arte+Azione, a cura di G. Lisia, A. Masoero, Milano, Skira, 2009; e Il Futurismo nelle Avanguardie, Atti del Convegno Internazionale di Milano (4-6 febbraio 2010), a cura di W. Pedullà, Roma, Ponte Sisto, 2010.^
2 Cfr. F.T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Arnaldo Mondadori Editore,1968, vol. II, pp. 11 e 201. Per la visione e il giudizio di Marinetti sul movimento da lui lanciato nel 1909 si veda anche la sua voce Futurismo, in Enciclopedia Italiana, vol. XVI, Roma, Istituto per l’Enciclopedia Italiana, 1932, pp. 131-136: un testo solitamente alquanto trascurato e, invece, meritevole di una particolare attenzione sia perché riflette un momento, in pratica, definitivo della consapevolezza e della riflessione dello stesso Marinetti, sia perché rappresenta il testo, per così dire, istituzionale in cui il futurismo venne canonizzato negli anni del regime fascista agli occhi dell’Italia e dell’Europa.^
3 Cfr. V. Gioberti, La teorica della mente umana etc., a cura di E. Solmi, Milano-Torino-Roma, Bocca, 1910, p. 197.^
4 Cfr. G. Papini, Filosofia e letteratura, Milano, Mondadori, 1961, p. 845.^
5 Cfr. P. Gobetti, La rivoluzione liberale, a cura di U. Morra, Torino, Einaudi, 1955, p. 163.^
6 G. Papini, op. cit.^
7 Cfr. C. Cassola, Il taglio del bosco. Racconti lunghi e romanzi brevi, Torino, Einaudi, 1959, p. 269.^
8 Cfr. A. Panzini, Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni, Proemio di A. Schiaffini, Appendice di B. Migliorini, Milano, U. Hoepli, 1950, p. 282.^
9 G. D’Annunzio, Bocca di Serchio, in Idem, Alcyone, ed. F. Roncoroni, Milano, Mondadori, 1982, p. 415. Ardi è l’interlocutore di Glauco, l’altro protagonista di questa lirica dialogica.^
10 Cfr. Sintesi del Futurismo. Storia e documenti, a cura di L. Scrivo, Roma, Bulzoni, 1968, p. 156.^
11 Cfr. F.T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 1968, vol. II, p. 201.^
12 Cfr. U. Ojetti, Taccuini, Firenze, Sansoni, 1954, p. 41.^
13 Cfr. C. Pavese, Il mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 1955, p. 349.^
14 Cfr. C.E. Gadda, I viaggi, la morte, Milano, Garzanti, 1958, p. 79^.
15 Cfr. J. Vicens Vives, Historia general moderna, Barcelona, 1982, vol. II, pp. 491-497.^
16 Edito nel 1907 («La Critica», V, pp. 177-190), il saggio venne poi incluso in B. Croce, La letteratura della nuova Italia, vol. IV, Bari, Laterza, 1915. Sulla visione del problema in Croce cfr. G. Galasso, Benedetto Croce e l’unità europea, in «Storia contemporanea», 2 (1998), n.° 5, pp. 15-44, e in particolare pp. 17-21.^
17 Il male oscuro è, come si sa, il titolo del romanzo di Giuseppe Berto nel 1964, che rese popolare questa espressione.^
18 E.J.E. Hobsbowm, Il secolo breve, tr. it., Milano, Rizzoli, 1995 (ediz. originale 1994), introdusse questa espressione largamente distorcente dell’esperienza europea che va (tanto per ricorrere a termini che non rinviano soltanto alla pura storia politica) dalla belle époque alla “globalizzazione” fra XX e XXI secolo. La sua rapidissima e assai larga fortuna è un documento significativo del suo tempo.^
19 Carducci a Gaspare Barbera, 12 gennaio 1869, in G. Carducci, Lettere, 21 voll., Bologna, Zanichelli, 1944 segg., vol. VI, p. 6.^
20 Per tutto quanto precede e per i riferimenti più generali che seguono cfr. G. Galasso, Storia d’Europa, Roma-Bari, Laterza, 20012, e qui pp. 775 segg.^
21 Sergio Corazzini (Roma, 1886-1907) fu certamente una figura minore, come si sa, nella letteratura italiana del suo tempo, ma altrettanto certamente rappresentò, nella sua breve e intensa esperienza di vita e di esercizio della poesia, una tappa molto significativa nella storia della sensibilità e del gusto letterario italiano, come ben vide S. Solmi, Sergio Corazzini e le origini della poesia contemporanea, che è l’introduzione alle Liriche del Corazzini, a cura dello stesso Solmi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959 (l’edizione completa delle poesie edite e inedite è di S. Jacomuzzi, Torino, 1968, del quale è pure da vedere la monografia dedicata a Corazzini, Milano, 19702.^
22 Per un caso eminente, in Italia, di questo giudizio si veda B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1991, pp. 57-75.^
23 Cfr. F. Flora, Orfismo della parola, Bologna, Cappelli, 1954, p. 71.^
24 Cfr. A. Panzini, Dizionario moderno delle parole etc., cit., p. 457.^
25 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1196.^
26 Cfr. F. Paolieri, Natio borgo selvaggio, Firenze, Vallecchi, 1922, p. 197.^
27 Cfr. B. Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari, Laterza, 19672, p. 168.^
28 Cfr. G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 20022, p. 84.^
29 Cfr. A. Soffici, Opere, 6 voll., Firenze, Vallecchi, 1959-1965, vol. V, p. 675.^
30 Cfr. A. Soffici, Bif§zf + 18, Firenze, Vallecchi, 19192, p. 340.^
31 Cfr. A. Palazzeschi, Stampe dell’Ottocento, Firenze, Vallecchi, 1944, p. 271.^
32 Cfr. Il Futurismo nelle Avanguardie, cit.; e A. Asor Rosa, Avanguardia, in Enciclopedia Einaudi, dir. R. Romano, vol. II, Torino, Einaudi, 1977, pp. 193-231.^
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