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Il filosofo platonico e la sinergia dell'azione umana1
di Fulvia de Luise
Agire da filosofi: il modello di Socrate

Come dimenticare, parlando di Platone, che il primo maestro di pensiero dell’Occidente ha fornito il paradigma della filosofia rappresentando in forma teatrale l’azione di un personaggio continuamente impegnato a discutere con qualcuno, sulla piazza della città o nelle case dei suoi concittadini? Se in Socrate dobbiamo riconoscere il modello del filosofo in azione, è dunque ciò che egli fa, ciò che pensa e dichiara di voler fare, sulla scena dei Dialoghi, a costituire la chiave interpretativa più immediata delle intenzioni platoniche.
Il vero Socrate potrà anche restare un mistero, perduto nelle pieghe di un mito fondatore che nasce polimorfo2; ma non si può mettere in dubbio che, nell’eclatante fenomeno della letteratura socratica3, Platone, tra gli altri apologeti del maestro perduto, abbia voluto affidare all’immagine di Socrate l’indicazione di ciò che il filosofo dovrebbe essere per realizzare il suo compito intellettuale. Ora, secondo un’idea un po’ stereotipa di Platone, la contemplazione è il solo fine degno del filosofo e della sua riflessione sulla realtà4.
Io vorrei, al contrario, mostrare che non soltanto la pratica del personaggio Socrate contraddice l’idea secondo la quale Platone aveva della filosofia una concezione puramente contemplativa, ma che la stessa teoria platonica, vista al livello della sua elaborazione più complessa, ha bisogno del sostegno di una pratica umana quale è quella che vediamo rappresentata nell’azione dialogica di Socrate.
I materiali del discorso che mi accingo a fare sono ben conosciuti e non mi propongo di portare alla luce concetti inediti; il mio intento è soltanto quello di fissare, attraverso l’analisi di alcuni passaggi dell’Apologia e della Repubblica, la connessione tra ciò che il personaggio Socrate presenta come la sua propria «missione» tra gli uomini della città e la costruzione platonica del modello politico ideale: la kallipolis. Spero anche, infine, di poterne trarre qualche considerazione sul valore generale dell’azione nella filosofia platonica.


La «missione» di Socrate: curarsi di sé e degli altri

Nell’Apologia di Platone, Socrate (rappresentato nell’atto di difendersi al processo che lo condannerà a morte), dichiara pubblicamente l’origine e il senso della sua azione «da filosofo»: un’azione che si dispiega nel corso di una quarantina d’anni5 (tutta la sua vita adulta, interamente vissuta all’interno della polis), seguendo il filo di un’interrogazione ininterrotta, rivolta a se stesso e a ciascuno dei suoi concittadini: “che cosa so? che cosa sai?”
Il racconto retrospettivo di Socrate, davanti al tribunale popolare che sta per giudicarlo, richiama un episodio del passato, con l’intento di giustificare questa pratica, spesso noiosa e irritante (soprattutto per coloro che avevano una reputazione da difendere). Non è questione di verità storica, naturalmente, ma di costruzione dell’immagine del filosofo e della sua specifica vocazione, molesta o benefica che sia. Dunque, il personaggio platonico dichiara di aver ricevuto una risposta problematica dall’oracolo di Apollo, che l’aveva indicato come il più sapiente degli uomini. Socrate, aveva detto il dio (interrogato dal suo amico Cherefonte)6, è «il più sapiente»; ma Socrate, ben convinto dentro di sé della propria mancanza di sapere, sente che il suo dovere è ora quello di decifrare l’intenzione nascosta nelle parole ambigue del dio. Poiché non può dubitare della sua coscienza7, eccolo procedere ad un’inchiesta sul sapere altrui, impegnato a interrogare uomini che sembrano a tutti dotati di forti competenze (a cominciare dai politici), per mettere alla prova la verità dell’oracolo. Il risultato è sorprendente: poiché ogni interrogato si dimostra incapace di giustificare il suo sapere8, ne risulta che Socrate è veramente il solo che sappia almeno qualcosa, il solo che abbia coscienza della nullità del sapere umano e che si sforzi, esattamente per questo motivo, di migliorarsi con la pratica di interrogare gli altri (contribuendo, al tempo stesso, al loro miglioramento)9.
La missione di Socrate si precisa, a partire da questa scoperta, come un obbligo a risvegliare in tutti la coscienza di non sapere: premessa indispensabile per stabilire un rapporto di verità con se stessi; ma anche per stabilire un rapporto autentico con gli altri. L’intenzione politica si mescola qui inestricabilmente con l’intenzione morale. La «cura di sé», compito cui Socrate invita, uno a uno, i suoi concittadini, ha evidentemente una doppia faccia e prevede un doppio effetto, in quanto l’invito si rivolge precisamente all’ateniese, individualmente considerato:
“O tu che sei il migliore degli uomini, tu che sei ateniese, cittadino della più grande città e più rinomata per sapienza e potenza, non ti vergogni tu a darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante più puoi, e della fama e degli onori; e invece della intelligenza e della verità della tua anima, perché ella diventi quanto è possibile ottima, non ti dai affatto né pensiero né cura?”. E se taluno di voi dirà che non è vero, e sosterrà che se ne prende cura, io non lo lascerò andare senz’altro, né me ne andrò io, ma sì lo interrogherò, lo studierò, lo confuterò; e se mi paia che egli non possegga virtù ma solo dica di possederla, io lo svergognerò, dimostrandogli che le cose di maggior pregio egli tiene a vile e tiene in pregio le cose vili (Apologia di Socrate, 29d-30a)10.

L’accanimento di Socrate nell’interrogare è proporzionale al valore della posta in gioco (la salvezza dell’anima, ma anche l’onestà delle relazioni con gli altri); la sua intenzione nella pratica dell’interrogare si rapporta al significato originario della parola elenchos (che vale, in generale, “confutazione”): mettere un individuo alla prova del suo valore e al rischio della vergogna. È ciò che giustifica l’impegno totale, missionario, professato immediatamente prima del passaggio citato, per tutta la vita e in ragione della vita:
[…] e finché io abbia respiro, e finché io ne sia capace, non cesserò mai di filosofare e di esortarvi e ammonirvi, chiunque io incontri di voi e sempre, e parlandogli al mio solito modo, così (Apologia di Socrate, 29d).

È interessante notare, in primo luogo, che Socrate intende la sua azione stimolatrice come «filosofare». E, di conseguenza, che è in quanto filosofo che egli si indirizza a quelli che non lo sono, e probabilmente non lo saranno mai: i non-filosofi, non altrimenti definibili a questo livello, sono i naturali destinatari del suo discorso. Infine, vorrei sottolineare che l’intenzione di Socrate di migliorare il cittadino di Atene, come individuo, si realizza sotto il segno della coscienza di una mancanza (di sapere e di virtù) e attraverso il mezzo di una pratica sociale che pone ciascuno in relazione agli altri.


La «missione» realizzata: la sinergia dell’azione nella Repubblica

Nella Repubblica, il Socrate platonico diventa architetto sociale e si misura con la costruzione di una città ideale, pensata e definita perché sia «perfettamente buona» (Resp. IV, 427e), e, in ragione di ciò, «giusta» e «felice», tale da rendere a sua volta «giusto» e «felice» ogni individuo al suo interno. Difendendo la priorità di dare forma alla «città felice nella sua totalità» (Resp. IV, 420c), prima di pensare agli individui (e piuttosto che favorire qualche gruppo particolare), Socrate mostra di considerare la felicità individuale come la conseguenza naturale di una interazione perfetta tra i gruppi sociali:
e così, mentre la città tutta cresce nel buon governo, si lasci pure che a ciascuno dei gruppi la natura conceda di ottenere la sua parte di felicità (Resp. IV, 421c)11.

Il modello politico che ne risulta, la kallipolis, rappresenta la risposta a una sfida che concerne, in generale, il ruolo della virtù nella ricerca della felicità12: a Socrate viene affidato il compito di contrastare il disprezzo sociale per la giustizia, sospettata di essere un bene inutile, se non un danno, per chi la pratica. La questione si gioca interamente sulla distinzione tra «bene proprio» (oikeion) e «bene estraneo» (allotrion), in base alla quale sembra che il rispetto della giustizia sia unicamente un servizio reso ad altri.
Possiamo notare qui che la ricerca è, in questo caso, “commissionata” al filosofo Socrate, e che i suoi promotori sono due uomini d’onore e d’azione: Glaucone e Adimanto, aristocratici di alta formazione13, naturalmente destinati alla carriera politica, che qui si mostrano sconcertati e incerti sul valore sociale della virtù, dal momento che l’opinione comune la disprezza e la considera di fatto un handicap nella corsa all’azione più efficace e vantaggiosa per l’agente14.
È dunque una volta di più un servizio (si direbbe “per il dio e per gli uomini”), che il filosofo si dispone a fare per i suoi concittadini. Ed è quindi nello stesso spirito dell’Apologia che egli si impegna nell’impresa di edificare la città giusta, l’unica in cui è possibile essere virtuosi senza timore di essere sottomessi dalla hybris degli altri, cioè dal loro desiderio di prevalere a ogni costo.
Un paradigma in cielo: così definirà Socrate, alla fine del libro IX, la sua città fatta di parole, «posta in cielo come un modello»15. Ma essa è anche un luogo pronto da abitare per il filosofo e per chiunque sia stato convinto dal suo discorso, che potrà immediatamente «insediarvi se stesso». Se il compito di Socrate è dunque compiuto in virtù della forza visionaria del paradigma, il filosofo è presentato qui come mediatore tra cielo e terra. Votato alla causa di rifondare la giustizia, Socrate si presta, in quanto filosofo, a rivelare ciò che non è visibile alla maggioranza degli uomini. Ma la visione della città ideale, prima di apparire il privilegio teoretico di un filosofo “naturale”, è presentata nel dialogo come il risultato della pratica comune del discorso, una fabbricazione dialogica, che prelude alla pratica della fabbricazione sociale. Socrate insegna con precisione tutti i passaggi necessari: dal presupposto che la città ideale sia necessariamente buona, all’implicazione normativa che essa sarà fornita dei migliori e più adatti tipi umani per le sue funzioni essenziali (il governo, la difesa, la produzione di beni utili alla vita); dall’analisi dell’evidenza del conflitto nell’anima alle indicazioni dei mezzi per risolverlo e per condurre i differenti tipi umani all’unica forma virtuosa di equilibrio interiore, quella che permette l’armonizzazione di tutti nell’insieme civile.
Il vocabolario dominante è, in ogni caso, quello dell’azione:
1) giustizia è definita, nel libro IV della Repubblica, «ta hautou prattein», «fare le cose proprie» (occuparsi, cioè, esclusivamente di ciò che ciascuno abbia la capacità di fare bene, nella piena consapevolezza dei suoi limiti);
2) felicità è «eudaimonia», che significa «avere un buon demone», cui affidare il cammino e la riuscita della propria vita; ma in greco “felicità” si dice anche con l’espressione “eu prattein“, che vuol dire“agire bene”, nel senso di riuscire ad ottenere successo nell’azione.
Qual è dunque l’importanza della visione teoretica pensata dal filosofo per i suoi compagni di dialogo? A mio parere, i movimenti del filosofo sulla scena platonica della Repubblica ci avvertono che il suo diritto alla legittimazione intellettuale si gioca interamente sul piano dell’utilità morale e sociale: l’intelligenza dovrà risultare al servizio della vita (e della vita buona e felice); la teoria dovrà risultare al servizio dell’azione.
Tra gli effetti più importanti del modello politico delineato nel libro IV della Repubblica, non si può evitare di sottolineare l’accento posto sulla sinergia dell’azione. Gli uomini della kallipolis si prestano all’armonizzazione non a dispetto delle loro differenze, ma in quanto differenti. Obbligati alla collaborazione sociale dalla coscienza del fatto che «ciascuno di noi non è autosufficiente»16, una forma di consapevolezza sorta al livello della città dei bisogni naturali, essi risultano ben più strettamente intrecciati al livello della città sviluppata (che sarebbe, altrimenti, a grave rischio di ingiustizia): se la città di Platone è giusta in virtù di una corretta distribuzione di funzioni (secondo la regola del ta hautou prattein), essa è felice per la convinzione condivisa che il governo delle cose spetta al migliore; è il consenso a questo principio che dà alla città un ordine etico dei ruoli sociali e a ciascuno il riconoscimento del suo merito. Mentre la sapienza e il coraggio caratterizzano i ruoli di maggiore distinzione della classe dirigente, la moderazione «si estende senz’altro attraverso l’intera città, facendo cantare insieme all’unisono lo stesso canto ai più deboli e ai più forti e a quelli di mezzo, per intelligenza, se vuoi, o se vuoi per forza, o anche per numero o ricchezze o altre simili cose» (Resp. IV, 432a). La città realizza così una forma di coscienza comune, centrata sulla cognizione che ciascuno trae dei propri limiti, attraverso il confronto. Era ciò che il Socrate dell’Apologia cercava di istillare come abitudine intellettuale e morale nei suoi interlocutori, con il suo accanito interrogare, uno per uno, tutti i suoi concittadini. Ma nella versione politicizzata della Repubblica, il successo è assicurato dalla sinergia dell’azione, sinergia politica, che dà a ciascuno la certezza di condividere i vantaggi delle virtù riunite, la perfezione operativa e l’armonia risultante per la città nel suo insieme.
La sinergia, insediata a livello di sistema, assicura anche il miglior uso della differenza antropologica. Così, la coscienza di una mancanza si traduce in potenza. Così ogni individuo può rinunciare al suo sogno di grandezza assoluta, che è la radice dell’ingiustizia e dell’infelicità.


Il filosofo, eroe dell’esperienza condivisa e ben pensata

Per tornare al filosofo, che è l’artefice della città sapiente, quale sarà il suo sapere e quale la sua felicità? Come sappiamo, Platone dedica molto spazio nella Repubblica alla formazione intellettuale del filosofo, identificato come «dialettico», conoscitore delle idee e, in particolare, dell’idea del bene. Questo lungo percorso dovrà essere la garanzia della purezza della sua visione teoretica, una sorta di abilitazione all’uso dei paradigmi ideali. Ma come potrà giudicare ciò che concerne le cose umane, e, in particolare, i desideri, che costituiscono i moventi dell’azione? Egli non potrebbe farlo se dovesse contare esclusivamente sulla sua attitudine teoretica. A questo proposito, il libro IX della Repubblica ci presenta una novità sorprendente: dapprima, Socrate riconosce il valore della differenza tra i tipi umani, con particolare riferimento ai motivi d’azione preferiti (il desiderio di cibo, del bere e dei piaceri di Afrodite per «l’amante del guadagno», il philokerdes; il desiderio di gloria e di onore per «l’amante di vittoria», il philonikos; il desiderio del sapere per «l’amante della sapienza», il philosophos)17; poi, identifica il filosofo come il miglior conoscitore in materia di piaceri, degno di esercitare il ruolo di un vero «maestro dell’elogio»18, quando si tratta di giudicare del valore distintivo dei modi di vita preferibili19.
Ciò che è sorprendente è l’importanza attribuita qui all’esperienza umana del filosofo, intesa come fonte di conoscenza utile a chi deve giudicare della vita:
Vedi dunque: poiché vi sono tre tipi di uomini, quale di loro è il più esperto di tutti i piaceri di cui abbiamo parlato? (582a).

La questione posta da Socrate porta a identificare il filosofo come il solo che, avendo gustato la dolcezza di tutti i piaceri, possa stabilire un ordine di preferenza tra loro; il solo che, per questo motivo, possa diventare la guida etica e politica degli altri tipi umani.
Qui, a mio parere, si conclude l’opera di legittimazione del filosofo: maestro di pensiero che è, prima di tutto, maestro di azione giusta. L’esperienza umana del filosofo, la condivisione dei piaceri e l’impegno dell’uomo teoretico per una vita buona e felice prevalgono sulla vocazione contemplativa e solitaria, spesso attribuita a Platone come solo fine degno del filosofo.
Un’ultima annotazione: se l’immagine di Socrate che viene fuori dall’analisi dei Dialoghi ci porta a visualizzare il filosofo come un intellettuale impegnato, non si può dimenticare che Platone è l’erede di una tradizione etica tutta centrata sull’azione. Da Omero a Pindaro la tradizione poetica aveva celebrato l’eroe nella bellezza delle sue azioni, fino alla «bella morte» che lo consegnava alla memoria eterna dei viventi. Panta kala, vale a dire ‘tutto è bello’, compresa la morte, nell’immagine del giovane guerriero, che consacra la sua vita all’azione degna di essere ricordata20.
Platone conferma il valore di questa immagine, rovesciandola: la bellezza eterna dell’eroe-filosofo non è nel gesto individuale che lo consacra alla memoria (qui, la scrittura dei Dialoghi?), ma nella riuscita comune di tutti gli uomini della kallipolis, unificati dal suo artificio teoretico-discorsivo e così convinti a impegnarsi nella sinergia dell’azione.





NOTE
1 Traduzione dal francese della relazione dal titolo Le philosophe platonicien et la synergie de l’action humaine, presentata al convegno dell’ASPLF (Association des Sociétés philosophiques de langue française), Venise 17-21 août 2010. Gli atti del convegno sono in corso di pubblicazione.^
2 La questione del Socrate storico può essere esplorata soltanto attraverso l’analisi del suo mito letterario, comparando le quattro fonti principali (Aristofane, Platone, Senofonte e Aristotele) e la più vasta pluralità dei socratismi, di cui abbiamo testimonianze.^
3 Il fenomeno della letteratura socratica nasce poco dopo il processo a Socrate e persiste per alcuni decenni, producendo più di 250 scritti. Per le dimensioni e l’analisi di questo imponente fenomeno editoriale, cfr.: L. Rossetti, Logoi sokratikoi. Le contexte littéraire dans le quel Platon a écrit, in M. Fattal (sous la direction de), La philosophie de Platon, vol. II, L’Harmattan, Paris, 2005, pp. 51-80; M. Vegetti, La letteratura socratica e la competizione tra generi letterari, in F. Roscalla (a cura di), L’autore e l’opera (Atti del Convegno internazionale, Pavia 2005), Pisa, ETS, 2006, pp. 119-131; L. Rossetti, Il dialogo socratico come unità comunicazionale ‘aperta’, in Il Socrate dei dialoghi (Seminario palermitano del gennaio 2006. Saggi di Giuseppe Mazzara, Michel Narcy, Livio Rossetti), Bari, Levante, 2007, pp. 33-52; L. Rossetti, I socratici della prima generazione: fare filosofia con i dialoghi anziché con trattati e testi paradossali, in Rossetti-Stavru, Socratica 2005, Bari, Levante, 2008, pp. 39-72; M. Narcy, Che cosa è un dialogo socratico?, in Il Socrate dei dialoghi, op. cit., pp. 21-32; L.A. Dorion, Socrate (que-sais-je), Paris 2004 (tr. it., Socrate, Roma, 2010).^
4 Si tratta di un’idea radicata in una ben precisa tradizione ermeneutica del platonismo e piuttosto diffusa tra i non specialisti, adombrata anche nell’Avant-propos del convegno ASPLF, in cui questa relazione si inserisce, dedicato al tema dell’action: Platone vi risulta infatti inserito come emblema di una posizione filosofica che privilegia la teoria rispetto alla prassi.^
5 Il calcolo dipende dalla collocazione dell’episodio cui si fa qui riferimento, in cui il Socrate dell’Apologia platonica spiega l’origine della sua “missione” tra gli ateniesi (Apol. 20 e-21b).^
6 L’episodio dell’oracolo di Delfi e della sua risposta alla domanda di Cherefonte, a proposito del sapere di Socrate, non può essere collocato in una data precisa. Tuttavia, poiché la questione posta da Cherefonte suppone una fama già diffusa delle capacità intellettuali di Socrate, non si può collocare l’episodio prima dei suoi 28-30 anni. Così commenta questo passaggio L. Brisson (nella sua Introduction à Platon, Apologie, Paris, Flammarion, 1997, p. 68): «et pourtant, comment Chéréfont aurait-il-pu etre amené à poser sa question à l’oracle de Delphes, si Socrate n’avait pas eu alors une intense activité d’ordre intellectuel?».^
7 Cfr. A. Brancacci, Socrate e il tema semantico della coscienza, in G. Giannantoni e M. Narcy (a cura di), Lezioni socratiche, Napoli, Bibliopolis, 1997, pp.279-301, per il carattere di certezza attribuito da Socrate alla sua coscienza di non sapere e per la situazione enigmatica che ne deriva, di fronte alla contrastante, e ugualmente indubitabile, verità dell’oracolo.^
8 Così è, in generale, per i politici e per i poeti, categorie gravate di responsabilità di governo e di educazione; per gli artigiani, terza categoria di presunti sapienti da interrogare, l’inchiesta socratica rintraccia la presenza di un’effettiva competenza tecnica, ma nulla che giustifichi una pretesa più generale di sapienza.^
9 Cfr. Platone, Apol. 21b-23b.^
10 Traduzione italiana di Manara Valgimigli, Roma-Bari, Laterza, 1996-2000.^
11 Traduzione di M. Vegetti, Milano, BUR, 2007.^
12 La sfida, rivolta da Glaucone a Socrate, si trova all’inizio del secondo libro della Repubblica. Essa consiste nel dimostrare che la giustizia, virtù sociale per eccellenza, rende felice chi la pratica (e non soltanto chi ne beneficia).^
13 I due personaggi rappresentano, nella realtà, i fratelli maggiori di Platone, prima di lui amici e interlocutori di Socrate.^
14 Esponendo le idee correnti in materia di giustizia, Glaucone la colloca tra i beni che non sono desiderabili per se stessi, ma solo per le conseguenze che ne derivano, come la fama di essere una persona perbene (Resp. II, 357b-358a); egli aggiunge che il rispetto delle regole costituisce per la maggioranza degli uomini un obbligo sociale che concerne soltanto l’apparenza; un obbligo che nessuno rispetterebbe se avesse il potere di rendersi invisibile, come secondo il mito era accaduto a Gige, in virtù di un magico anello (Resp. II, 359b-360d). In altri termini, sarebbe proprio della natura umana praticare la prevaricazione a danno d’altri, per il proprio vantaggio.^
15 Resp. IX, 592b.^
16 Resp. II, 369b.^
17 Resp. IX, 580d-581c.^
18 Resp. IX, 583a.^
19 Tutti e tre i modi di vita sono accolti nella città sapiente, purché i piaceri preferiti dai diversi tipi umani siano scelti e goduti con la guida della ragione. Cfr. A questo proposito il passaggio 586e-587a: «Se dunque l’anima intera segue la sua parte filosofica e non è conflittuale, ad ogni sua parte spetta, per il resto, di svolgere il proprio ruolo e di essere giusta, e al tempo stesso di godere i piaceri che le sono propri, i migliori e per quanto è possibile i più veri».^
20 Sull’argomento, cfr. J.P. Vernant, L’individu, la mort, l’amour, Paris 1989 (tr. it. L’individuo, la morte, l’amore, Milano, Raffaello Cortina, 2000), in particolare ai capitoli 2, 3 e 4.^
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