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Lo spazio del meridionalismo nel tempo della Lega*
di Giuseppe Galasso
Qual è lo spazio del meridionalismo nel tempo della Lega? La domanda è di quelle che più circolano sia a Nord che Sud dell’Italia da almeno quindici o venti anni a questa parte. È, inoltre, giustificata dal particolare accanimento con il quale fin dai suoi inizi la Lega Nord e il suo leader Bossi hanno espresso i loro drastici giudizi negativi sul Mezzogiorno e sui meridionali. Giudizi drastici non solo sul piano economico e sociale per la ben diversa parte attribuita rispettivamente ai meridionali e ai settentrionali nella produzione della ricchezza nazionale, a fronte di una ripartizione di tale ricchezza che privilegerebbe il Sud, facendone un parassita della laboriosità e dell’ingegno settentrionali, sacrificati nelle loro legittime aspettative di godere appieno i frutti del proprio lavoro. A giudizi di tal genere sul piano economico e sociale si sono accompagnati giudizi perfino più drastici su altri piani, dai quali emerge un ritratto morale e civico del Mezzogiorno da scandalizzare non solo i meridionali, ma perfino il Nord benpensante.
Tutto questo è comprensibile, ed è anche storicamente fondato. E, tuttavia, non è né tutta la verità sulla situazione determinatasi in Italia per il rapporto far Nord e Sud nell’ultimo ventennio, né è tutta la verità sulla portata e sul senso di quella vera e propria denigrazione del Mezzogiorno che, come si è accennato, viene attribuita pressoché esclusivamente alla Lega Nord e a Bossi. La verità è, infatti, che la ripulsa dei problemi del Mezzogiorno come grandi problemi nazionali e la denigrazione del Sud e dei meridionali, o qualcosa di analogo, sono fiorite non soltanto nella Lega e con la Lega, ma anche al di fuori di essa e in maniera largamente autonoma, così da porre un problema ben più serio e di profondo significato di quel che se ne è sviluppato col nome della Lega. Vi sono, anzi, tutti gli elementi per ritenere che la Lega sia molto servita da alibi per forze, tendenze, interessi che nulla avevano a che vedere con essa, e alle quali ha fatto comodo, molto comodo, scaricare sulla Lega tutta l’odiosità e la responsabilità del vero e proprio antimeridionalismo che si è diffuso e sedimentato in questi anni.
Non voglio con ciò risalire troppo indietro nel tempo. Per cogliere le radici del fenomeno senza cadere nel macroscopico errore storico e, ancor più, politico di vedere e isolare nella Lega la matrice esclusiva della giustamente deplorata emarginazione della questione meridionale, o, se si preferisce, delle questioni meridionali, bisogna, infatti, risalire alla fine degli anni ’70 e agli inizi degli anni ’80. La Lega cadde con la sua apparizione in quegli anni in un terreno di coltura ampiamente predisposto ad accoglierla e a favorirne la crescita impetuosa dei primi anni. La Lega non è sorta dal nulla, come niente nella storia. Né Bossi è un tale genio politico dall’aver potuto suscitare dal nulla un tale movimento. Quelli che inizialmente lo favorirono e ne fecero sui giornali e nei media la grande novità di quegli anni avranno probabilmente creduto di trovare in lui un docile strumento di azione e di polemica politica. Le cose hanno poi dimostrato che questo calcolo strumentale aveva limiti troppo più esigui di quanto non si fosse pensato, e ci si è dovuti rassegnare a riconoscere in Bossi e nella Lega degli ordinari e importanti interlocutori del gioco politico italiano.
Di fatto, non solo negli anni dal 1990 a oggi si è ridotta praticamente a nulla o a ben poco la politica per il Sud, e non solo quella che tradizionalmente si intendeva per tale e che veniva condannata per inefficienza e sprechi insopportabili, ma anche quella che di volta in volta i varii governi succedutisi dal 1990 a oggi hanno esibito come loro impegno per il Mezzogiorno. Mi sia consentito qui consentito di ricordare che in un mio recente articolo sul «Corriere del Mezzogiorno» mi è accaduto di notare che dei cinque punti del documento sul quale il governo ha ottenuto la fiducia uno riguardava il Mezzogiorno: una circostanza da apprezzare, considerato che da tempo i problemi del Mezzogiorno non sono più al centro dell’agenda politica italiana. Detto questo, osservavo che non si può neppure tacere, però, che sul punto del Mezzogiorno il discorso del presidente Berlusconi non è stato né nuovo, né del tutto persuasivo. Su qualche particolare (come l’asserito inizio dei lavori per la linea ferroviaria dell’alta velocità fra Napoli e Bari) è sembrato addirittura poco attendibile. Per il resto, nulla di nuovo. Le opere pubbliche già annunciate e qualche provvedimento di non primaria importanza sono state confermati, e poco altro. E, anche facendo conto di quanto è stato annunciato, e augurandoci che i lavori e le opere pubbliche così confermate abbiano effettivamente corso e non si fermino solo all’avvio; anche considerando che siamo in tempi in cui la coperta delle disponibilità finanziarie dello Stato italiano è corta per tutto e per tutti, e non solo per il Mezzogiorno, e che non è solo l’Italia a trovarsi in queste condizioni; e anche qualora tutto quanto annunciato o confermato dal capo del governo alle Camere, ossia nella sede più impegnativa che in materia politica si possa desiderare, andasse davvero avanti nei tempi previsti, e le realizzazioni in programma fossero portate a termine, il che sarebbe già un guadagno per il Mezzogiorno e per tutti; resta il fatto che le opere e i lavori pubblici non delineano affatto una strategia di lungo e largo respiro. Forse il meglio che si possa dire è delle misure del governo, di cui parliamo, è che, con esse la politica di lavori e opere pubbliche potrebbe fungere, nello stesso tempo, da politica anticongiunturale e da politica di potenziamento di infrastrutture importanti per le regioni meridionali (anche se non tutto quanto è stato previsto risponde davvero, a nostro modesto avviso, alle reali e più urgenti necessità del Sud). E, ancora una volta, ciò è indubbiamente qualcosa.
Si aggiunga, inoltre, che, al di là di queste osservazioni, in fondo semplicemente realistiche e di buon senso, nulla c’è stato, nel documento del governo per il Sud, di sicuro o di preciso circa il luogo e il senso delle opere e dei lavori di cui ha parlato nel campo della generale politica economica del paese. Il punto è, infatti, ormai, soprattutto questo: resistere alle tentazioni ricorrenti di politiche speciali per il Mezzogiorno o di agenzie deputate ad eseguirle o guidarle o controllarle; affidarsi alla gestione ordinaria della politica economica nazionale e all’azione di sviluppo generale che una tale politica dovrebbe comportare, e ciò anche per fronteggiare la crisi che abbiamo attraversato e che tutti dichiarano in sostanza superata, anche se di tale superamento nessuno ancora riesce ad accorgersi e a persuadersi, come sarebbe, per così dire, automatico, se il superamento vi fosse, come si afferma. Ed è per questa stessa ragione che, in un’aItra recente occasione abbiamo ritenuto di far notare che, se c’è un ministero per lo sviluppo con compiti e competenze realmente nazionali di promozione e di sollecitazione della ormai indifferibile crescita del paese, che riporti l’Italia nel gruppo di testa più dinamico dell’economia internazionale di oggi e, almeno, del prossimo domani, allora è a questo ministero dello sviluppo che va riportata e affidata l’intera gestione delle misure a cui si pensa per il Sud. Solo così si dimostrerà coi fatti che lo sviluppo del Mezzogiorno è davvero considerata come una questione di interesse nazionale (come da molte parti, non più da tutte, si continua a ripetere), e che come tale la si tratta senza espungerla e confinarla nel ghetto di una qualsiasi specialità o di una particolare regionalità o macroregionalità.
Purtroppo, facevo, peraltro, rilevare nella stessa recente occasione a cui mi sono riferito, quel che non si vede chiaro per quanto riguarda il governo e la sua maggioranza, si vede, forse, ancora meno nel campo dell’opposizione. Qualche iniziativa o dibattito del partito democratico per esibire qualcosa in materia o non ha proprio decollato o ha volato molto basso. Intanto, l’azione dei governi regionali e locali non è più soddisfacente di quella del governo, e denuncia ancora meno visioni generali che diano un orientamento, se non una rassicurazione. Disoccupazione, redditi, PIL e altro del genere vanno per il Mezzogiorno come vanno, ossia male. E non parliamo della criminalità e di altro.
Insomma – concludevo – per quanto riguarda oggi politica e Mezzogiorno, una buona definizione sarebbe il titolo del bel romanzo di Arthur Koestler Buio a Mezzogiorno, avvertendo, peraltro, che nel nostro caso il romanzo non è nemmeno bello, anzi è proprio brutto.
Questa pessimistica, ma (crediamo) anch’essa realistica, osservazione sopravviene ad anni in cui il problema o i problemi del Mezzogiorno sono stati ripetutamente e sconsideratamente prospettati sia sul piano politico che sul piano culturale.
Al giro di boa dal XX al XXI secolo si diffuse addirittura la favola per cui il Mezzogiorno aveva trovato la sua strada, che procedeva a un passo più spedito di quello del Nord, che un raccorciamento sostanziale del divario fra le due Italie era ormai in vista. I governi del tempo fecero di questa tesi peregrina un loro particolare distintivo. Poi le statistiche nel loro impietoso linguaggio misero le cose rapidamente a posto, e si dové prendere atto che, malgrado microscopiche variazioni in meglio o in peggio da un anno all’altro, quel divario andava piuttosto crescendo che riducendosi.
Sul piano culturale fu anche peggio. Una «scuola di pensiero» (come ora si dice a proposito, e, più spesso, a sproposito) teorizzò addirittura l’inesistenza del Mezzogiorno come «categoria storica» (altro termine del tutto discutibile). La realtà del Mezzogiorno, si diceva, era nelle sue particolarità regionali, provinciali, cittadine, non in un insieme meridionale, che come tale era soltanto un artificioso disegno storico senza corrispettivo concreto di reali problematiche storiche. Le singole facce del Mezzogiorno potevano rassomigliare, e di fatto rassomigliavano, più ad altre singole realtà esterne al Mezzogiorno che ad altre parti di quest’ultimo. La «categoria» Mezzogiorno era servita al meridionalismo, cioè a un indirizza di pensiero che faceva del divario far le due Italie una speculazione non soltanto politica, condotta sul motivo di un eterno piagnisteo, inteso ad accattare quanto più si potesse di risorse pubbliche a fini oltremodo discutibili, per non dire peggio. In effetti, l’idea di Mezzogiorno non serviva a nulla per la comprensione del Mezzogiorno, e la stessa «questione meridionale», oggetto di un dibattito secolare, era altrettanto infondata.
Per altro verso, maturò l’idea di un «pensiero meridiano» che assegnava al Mezzogiorno le qualità di una speciale condizione naturale e umana, particolarmente preziosa nei confronti dei problemi di alienazione, disagio e simili caratteristiche riconosciute nella crisi della modernità e della civiltà cosiddetta post-industriale: che era poi una paradossale trasfigurazione dei valori un tempo ipostatizzati nella «civiltà contadina», nonché del mito del Sud solare e felice caro ai viaggiatori del grand tour e a tanti altri descrittori e visitatori del Mezzogiorno.
L’effetto principale di questa «scuola di pensiero» è stato un deprezzamento generale della tradizione meridionalistica e dei discorsi e dei tentativi volti a comprendere e favorire quali fossero le effettive possibilità di una politica per il Mezzogiorno. Si è instillata l’idea che sul Sud si è detto tutto quanto si poteva dire, e anche di più; che i discorsi sul Sud sono ripetitivi fino alla noia sia chi li ascolta che di chi li scrive; che i discorsi dei “vecchi meridionalisti” erano solo una ricorrente geremiade sulle cattive condizioni del Sud, piena di nostalgia per la vecchia “politica speciale”; mentre i “nuovi meridionalisti” predicano il superamento del meridionalismo, l’inservibilità della “categoria Mezzogiorno”, i mutamenti per cui il Sud è ben altro da quello della tradizione meridionalista.
Tutto ciò è vero. Ed è vero pure che c’è (come è stato detto) un riflesso pavloviano per cui a ogni occasione il “Meridionale Sdegnato” piange sul Sud maltrattato e si dà a un profluvio di basse polemiche e reazioni. È vero, ancora, che questo è il gioco di politici e amministratori locali, con gli intellettuali ad essi complementari. E sono vere molte altre cose più o meno simili, che danno un’idea più chiara dello stato anzitutto etico-psicologico del Sud di oggi.
Quel che, invece, non è affatto chiaro è il perché, che si accetti o no l’idea di una realtà specifica del Sud, si parli ancora tanto di Sud.
Una ragione dev’esserci. Già c’è la polemica politica sopra ricordata, che oppone un Nord attivo e virtuoso a un Sud inetto e parassita. Polemica, come abbiamo detto, non solo della Lega Nord, ma nata anche indipendentemente dalla Lega e ormai diffusa nell’opinione pubblica, nelle classi dirigenti, negli intellettuali e nei media del Nord, e anche al centro dello Stato. Di contro vi sono i giustificazionisti a ogni costo del comportamento meridionale, gli indefettibili denunciatori dell’“assenza dello Stato”, gli impenitenti questuanti di nuove misure e “aiuti” per i “poveri meridionali”. Paradosso dei paradossi, parla più di altri del Sud, assai spesso, proprio chi da anni ha proclamato la fine del modulo referenziale meridionale, e ne ha dissolto, come si è già notato, l’unitarietà in una molteplicità di realtà diverse.
La serie di queste ragioni ancora non chiarisce, però, perché si parli tuttora e tanto del Sud. Non pretendiamo di chiarirlo del tutto noi qui. Vogliamo, però, accennare a una ragione banalissima, certo, e non esauriente, ma semplice e di immediata percezione. E la ragione è che il problema del Sud non solo continua ad esserci, ma, per giunta, e come pure abbiamo già notato, si va aggravando più che attenuandosi. Lo confermano le ultime statistiche del quadro economico-sociale, anche se ogni tanto c’è una buona notizia (ma mai come in questo caso una rondine è lontanissima dal fare una primavera). E ciò con buona pace di coloro che (ultima escogitazione!) trovano che, se non ci fosse la Campania, il Sud statisticamente non starebbe poi tanto male.
Il problema c’è, e pregiudica non poco le prospettive italiane. La tesi leghista (risolvere il problema con la semplice amputazione del Sud dal corpo della nazione e dello Stato italiano) fa molto rumore, ma è molto più facile dirsi che a farsi. Intanto, il Sud, una volta problema nazionale (quale è e continua a essere), sembra sempre più ridotto soltanto a un problema di elemosine dell’Italia ricca ai suoi parenti poveri del Sud.
È la cultura meridionale che non, più autorevole come una volta, non riesce a imporre il problema all’attenzione nazionale? Sciocchezze. Il problema è più che mai squisitamente politico.
Idee, studi, statistiche, contributi della cultura abbondano. Si tratta di scegliere e decidere. Ma qui c’è un’ormai ventennale debolezza politica del Sud e delle sue classi politico-amministrative nel quadro nazionale, e perfino nel quadro meridionale, se si vuole parlare di governo e amministrazione, e non di semplice gestione particolaristica del potere. Né a livello nazionale la classe politica dà alcun segno di cessarla di sostenere che una volta il problema meridionale era preso in considerazione solo per la voce autorevole di alcuni meridionali, quali oggi non ci sarebbero più, come si dice che accadesse una volta. Anzi, non dà segno neppure di considerare quel problema per la pressione dei politici del Sud, che oggi certamente non hanno più né il potere, né la forza che in alcuni periodi del passato la classe politica meridionale ebbe. Figuriamoci se si possa sperare che il problema del Mezzogiorno venga trattato a livello nazionale perché lo si consideri un grande problema nazionale, come capirono il bresciano Zanardelli, il cuneese Giolitti, il trentino De Gasperi. E c’è poco da fare. Se non si ritorna a questa considerazione nazionale del problema, rifuggendo più che mai da politiche e agenzie speciali ad hoc, il Sud continuerà ad andare come va.


* Relazione al Convegno Rubbettino.^
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