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Variazioni sul termine unità nel Risorgimento
di Giuseppe Galasso
«L’immediata e combattente unità di tutta l’Italia»: la splendida, e ineccepibile, definizione che, parlando del 1848, Carlo Cattaneo dava della «suprema fede» di Giuseppe Mazzini1 è certamente una di quelle che meglio lasciano trasparire lo spirito e gli ideali del Risorgimento. Il complesso pensiero di Mazzini trovava, infatti, nel pensiero dell’unità italiana il suo centro di gravitazione e la sua traduzione nei termini dell’azione politica che egli si propose e svolse.
Deprecava, Cattaneo, quella unità? Nei termini dell’attualità politica al momento delle Cinque Giornate di Milano e degli sviluppi del 1848 e 1849, si. Non, invece, dal punto di vista della spesso sottolineata contraddizione, se non inconciliabilità, delle idee federalistiche di Cattaneo con quelle unitarie di altri protagonisti del Risorgimento, e soprattutto e innanzitutto con quelle di Mazzini, per finire ai realizzatori della struttura unitaria dello Stato italiano, a unità realizzata, con la legge comunale e provinciale, con l’unificazione legislativa e con tutta l’azione svolta nello stesso senso durante i primi dieci o quindici anni della nuova Italia2.
In nessun momento, infatti, Cattaneo sentì il federalismo in contraddizione con l’unità politica del paese. Alberto Mario, uno dei maggiori e più attendibili testimoni di quelle vicende, mazziniano, e quindi unitario convinto, per il quale la tradizione politica derivata da Cattaneo vedeva le «autonomie legislative e regionali comprese e operanti nell’unità politica e nell’unica sovranità nazionale»3. E questo, invero, era pure l’autentico pensiero di Cattaneo dopo che, già alquanto prima del 1848, aveva dismesso le sue precedenti opinioni sulla possibilità della Lombardia di permanere nell’ambito imperiale austriaco e aveva abbracciato con profonda convinzione l’idea dell’indipendenza, della libertà e dell’unificazione italiana. «Le varietà quasi familiari degli Stati», affermava, insistendo su un concetto che gli era particolarmente caro, «nulla tolgono alla coscienza nazionale, rivelata a se stessa e ogni giorno vie più stimolata». Più tardi avrebbe scritto che «quando i mazziniani fanno evviva all’unità, bisogna rispondere facendo evviva alli Stati Uniti d’Italia»4. Dove si può ben dire che lo spostamento del termine dal sostantivo (unità) all’aggettivo (uniti) costituisce una sottolineatura ancora più forte del concetto unitario.
La causa unitaria fu, dunque, quella di tutto il Risorgimento. Si trattava, è appena il caso di ricordarlo, dell’unità politica, poiché sulla comune civiltà e specificità nazionale degli italiani nessuno nutriva, in sostanza, dubbi effettivi o consistenti. Differenze profonde si ritrovavano, invece, sulle forme e sulle norme che dovevano essere proprie dell’Italia giunta all’indipendenza; ed era su questo piano che la contrapposizione fra le idee dei mazziniani o di derivazione mazziniana e quelle dei federalisti di ogni scuola e, in primo luogo, quelle di derivanti da Cattaneo si faceva pressappoco totale. Ma la problematica dell’unità era ben lontana dal limitarsi a quella contrapposizione. Si pensi, ad esempio, al Manzoni. Il senso dell’unità fu vivo in lui fin dagli anni giovanili. Per il proclama murattiano di Rimini, del 1815, aveva scritto, come si sa, una canzone ispirata all’appello del Re di Napoli per l’unità italiana; e avrebbe detto più tardi che in quella canzone aveva fatto all’unità italiana il più grande sacrificio che un poeta possa fare, ossia di scrivere consapevolmente un verso brutto. Il verso era: liberi non sarem, se non siam uni; e, in effetti, quanto a bruttezza, l’autore non si sbagliava. Rimasto inedito fino al 1848, il verso era notevole perché sull’unità nazionale fondava la possibilità della libertà. Ma il suo maggiore contributo poetico sul tema dell’unità Manzoni lo avrebbe dato in Marzo 1821, ugualmente rimasta inedita fino al 1848. È qui, infatti, che si ritrova una delle più dense definizioni della nazione nel pensiero di quel tempo, coi due versi, anch’essi famosi, dove si dice che la nazione è tale in quanto una d’arme, di lingua, d’altare, - di memorie, di sangue e di cor. Una concezione integrale, dunque, della nazione, fondata su elementi molteplici, ma coerenti e concepiti in una loro profonda simbiosi, come anche in questi versi manzoniani chiaramente si vede: etnici (sangue), storici (memorie), culturali (lingua e altari), politici (armi) ed etico-politici (cor, ossia il sentire e il volere, nonché, ancora, gli altari)5.
In Italia condivisero largamente questa concezione scrittori e politici dei più varii settori. «La nazionalità di un popolo – scriveva Gioberti – si fonda nella razza, nel sermone, nel sito, e non proviene dall’arbitrio, ma dalla natura»6. E questa era soltanto una delle innumerevoli definizioni che nel giro di alcuni decennii vennero date di ciò che costituiva una nazione e la sua unità una anche sommaria indagine al riguardo potrebbe, anzi, prendere le mosse dal celebre concorso cisalpino del 1797 su quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia, nel quale l’idea dell’unità italiana corse largamente, così come fu largamente coltivata, in particolare, dai giacobini e patrioti del Mezzogiorno7. I versi manzoniani raccoglievano, perciò, un patrimonio di idee e sentimenti che aveva già dietro di sé una storia ancora recente, ma per nulla svanita nel naufragio dell’Italia giacobina, e, anzi, rinvigorita, e non di poco, negli anni napoleonici.
Già prima, peraltro, di Marzo 1821 il Manzoni aveva fortemente sottolineato la dimensione nazionale unitaria dell’Italia, quando nel coro della sua prima tragedia, Il Conte di Carmagnola, aveva parlato dei combattenti nella battaglia di Maclodio: D’una terra son tutti: un linguaggio - parlan tutti: fratelli li dice - lo straniero: il comune lignaggio – a ognun d’essi dal volto traspar. - Questa terra fu a tutti nudrice, – questa terra di sangue ora intrisa, - che natura dall’altre ha divisa - e ricinta con l’alpe e col mar. Anche qui, come si vede, giocano elementi di Marzo 1821, come la lingua e il lignaggio. In più vi è, però, un’insistenza particolare sul quadro geografico che predestina gli italiani all’unità. È stata la stessa natura a disegnare unitariamente il paese italiano cingendolo con l’alpe e col mar.
In Manzoni, insomma, l’unità italiana è sempre un punto di riferimento essenziale di riferimento del suo pensiero politico e civile, molteplicemente atteggiato. Negli scritti sulla lingua italiana avrebbe sviluppato in particolare, e con grande ricchezza di dettagli logici, uno degli elementi sui quali egli insisteva e ai quali attribuiva un più pregnante significato politico e civile. Eloquente è, ad esempio, il luogo in cui egli parla dei vocaboli fiorentini «diventati più o meno comuni a tutta l’Italia». Questi vocaboli sono per lui, certamente, «fatti di unità», ma soltanto come «meri fatti». Sono, cioè, una condizione oggettiva, un dato della realtà, ma non determinano di per sé una unità che si possa considerare organica e viva. Sono «fatti iniziali di un’intera unità», ossia una base materiale di unità, un punto di partenza in direzione di quella «intera unità» che a lui appariva come il livello superiore della funzione umana e storica di una lingua8.
È un concetto, questo, fondamentale per Manzoni. Gli italiani tutti si intendono fra loro servendosi della propria lingua, ma, chiosa Manzoni, «il fatto generalissimo d’un intendersi non è la prova del possedere una lingua in comune». Perché? Perché, «se ogni lingua è un mezzo d’intendersi, non ogni mezzo d’intendersi è una lingua»9. «Il parlare italiano che si fa in tutta Italia» prova che «ci si possiede una lingua in comune»10, ma questo non basta a far ritenere che questa lingua comune di fatto risponda alle condizioni di «intera unità» vagheggiate da Manzoni perché una lingua possa essere considerata pienamente tale. Una lingua italiana in questo senso è ancora tutta da essere riconosciuta e corroborata. Il riferimento a Firenze nasce dalla insistita sottolineatura di questo problema. Se in Italia si usano vocaboli diversi per indicare le stesse cose, ciò significa che quel che «si vuole opporre a Firenze non è un tutto, ma una quantità di cose eterogenee; non è una lingua, sono molte favelle [il corsivo è dell’autore], non è una nazione intera [questo corsivo è nostro]; e, se lo fosse, non sarebbe una nazione labii unius et sermonum eorundem, che è la sola circostanza che deve contare nella questione». Allora, però, «non è il caso di sdegnarsi che si voglia far prevalere una città all’Italia», ma di riconoscere che «l’Italia ha proprio bisogno d’una città che prevalga»11.
Non seguiremo, comunque, il grande lombardo nelle sue, spesso acute, anzi profonde, considerazioni sulle lingue, e sul loro ufficio pubblico e sociale. Qui importa solo mettere in evidenza il senso complesso, non solamente politico, che per lui assume il problema nazionale italiano; il senso di grande costruzione da perseguire e realizzare anche sul piano culturale e sociale come quello, ad esempio, della lingua. L’unità politica è un obiettivo prioritario assoluto, come per tutto il Risorgimento («non si tratta più di monarchia o di repubblica», affermava Crispi, rivolgendosi al più precoce e intransigente fautore della causa unitaria,«si tratta di unità nazionale»)12. Ma, nella visione manzoniana, per avere una intera unità, una nazione intera, essa non basta.
Tocchiamo qui un punto di primissimo rilievo nel discorso che andiamo conducendo. È un pensiero tanto infondato quanto diffuso e tendenzialmente accettato che nel Risorgimento il pensiero e l’azione italiana non abbia avuto altra mira che la realizzazione di uno Stato che riunisse in unità politica le varie parti d’Italia. Non è vero affatto.
Chi più convinto fautore, anzi precoce apostolo della causa nazionale unitaria di Giuseppe Mazzini? «Ciò che vogliamo, ciò che l’Italia vuole anzitutto è […] l’Unità Nazionale»13, scriveva, ad esempio, in una delle più sintetiche ed efficaci formulazioni del suo pensiero al riguardo. Il senso del discorso di Mazzini non era, peraltro, che, d qualsiasi unità si trattasse, ci si dovesse accontentare. Il senso del suo discorso obbediva, tra l’altro, soprattutto alla primaria preoccupazione del dubbio se sarebbe valsa la pena di realizzare un’Italia unita perfino più grande, più potente, più ricca del passato da cui si voleva “risorgere”, se questa Italia non fosse anche stata – per adoperare termini familiari al suo pensiero, più morale e più buona14: certamente una delle idee più nobili, profonde e durature di un alto sentire, che nel Risorgimento non fu neppure soltanto di Giuseppe Mazzini. Da un altro, ma non troppo distante punto di vista, Gioberti, ad esempio, affermava, a sua volta, che «l’impresa […], avendo per fine di recar l’Italia a stato di nazione, mira a renderla una, libera e autonoma, giacché in queste tre doti consiste l’esser nazione di un popolo»15: ossia, l’unità avrebbe dovuto implicare non solo la libertà, ma l’autonomia da influenze e subordinazioni deteriori e degradanti dell’Italia come soggetto della vita europea, e gli italiani quali soggetti della vita nazionale.
L’unità politica fu, insomma, generalmente pensata come un valore assoluto in sé, ma anche come una meta non esclusiva e non esaustiva della realtà, dei problemi, delle prospettive della nazione italiana; anzi, al contrario, come una premessa indispensabile a un ben più ampio lavoro di costruzione morale e civile, culturale e sociale. La scuola nazionale e l’esercito nazionale furono allora (almeno nei criteri di governo: la realizzazione fu indubbiamente inferiore agli intenti) i due cardini che, in questa prospettiva, assunsero un ruolo e una valenza di primissimo piano; e furono anche i due campi in cui, malgrado tutte le apparenze, la costruzione dell’edificio nazionale conseguì i maggiori, più continui e più duraturi successi.
Per rendersi conto della fondatezza di una tale osservazione, basterà qualche citazione. Quella, ad esempio, di Cesare Balbo, quando si chiedeva: «che è unità di una nazione? che la fa? in che consiste? nel ridurre una nazione ad uno Stato solo, ed aver nello Stato una nazione sola?»16. Anche qui non seguiremo il Balbo nello svolgimento del tema che egli così si proponeva, ma già nella formulazione del problema è evidente l’inconfondibile tenore della risposta. Ricorderemo, però, che anche il De Sanctis auspica senz’altro «che nell’unità d’Italia si unifichino i cuori in ogni comune»17: auspicio, come si vede, di un idem sentire degli italiani, che riporta alla netta preminenza che per i maggiori fautori dell’unità ebbe sempre l’elemento morale su quello puramente fattuale dell’unità politica, e, anche, in qualche modo, quasi un’eco dell’idea di Mazzini che la nuova Italia dovesse essere innanzitutto più buona. Che fu, poi, il vagheggiamento – si può dire – più diffuso, anche a unità conseguita, per ciò che il Risorgimento fece o, più spesso, avrebbe dovuto fare e non fece. A venti anni dall’unificazione lo avrebbe notato, ad esempio, un autore minore, e proprio perciò ugualmente interessante, come Giovanni Faldella nel suo La contessa de Ritz, del 1891, dove, non senza qualche tratto ironico, scriveva: «prima di tutto importerebbe perlustrare meglio il nostro stivale (smorfia della contessa a quella perlustrazione di stivale) conoscerci perfettamente fra noi italiani, unificarci non solo politicamente, ma anche socialmente, moralmente»18.
A sua volta, Niccolò Tommaseo operava distinzioni terminologiche particolarmente interessanti. «Terribile scherno – scriveva – delle parole vantatrici! Si costruisce distruggendo, s’unifica dividendo. Il Piemonte ha l’“unione”, il Mazzini l’“unità”, la Toscana a quel tempo [ossia nel 1848] aveva l’“unificazione”. Delle tre parole la più schietta ed alta, non la più prossimamente fattibile è certamente “unità”»19. Le distinzioni del Tommaseo sono qui importanti, e danno chiaramente il senso che si aveva dell’unità come atto e realtà politica «schietta ed alta». Al confronto “unione” appariva troppo vicina ad “annessione”, mentre “unificazione” sapeva di un’azione imposta da un qualche centro politico: sensi rifiutati da opinioni pubbliche molto gelose delle loro specificità storico-istituzionali.
Nessuno davvero pensava, peraltro, che una realtà nazionale fosse un corpo monolitico e indifferenziato. Gioberti affermava con estrema decisione e chiarezza che «ogni unità nazionale nasce da una moltitudine di popolazioni affini, come queste hanno la loro radice nell’unità patriarcale»20. E Mazzini non era di diverso avviso, quando dichiarava che era suo intento quello di «fondare una nazionalità, aggiungere un popolo a popoli»21. Che era pure la ragione per cui Balbo notava che in Italia «l’arte del nazionalizzare, tentata più volte nel corso dei secoli, non è giunta nemmeno ora [1855] a sua perfezione»22: nazionalizzare, cioè ridurre a nazione, costituire in nazione. Lo stesso Balbo notava, ancora, che se si dava per il Medioevo a un «complesso di genti il nome di nazioni», era solo perché un altro nome migliore non si ritrovava il nome, e quelle genti non erano più nella condizione […] delle genti staccate anteriori», ma nemmeno ancora nella condizione delle genti «nazionalizzate posteriori»23. Sempre resta fermo, insomma, che il fattore etnico non rappresentava un dato originario e condizionante, ma era il frutto di uno sviluppo storico, come indicavano anche le vicende delle lingue. Mazzini era convinto che fra gli italiani del suo tempo si andasse diffondendo la convinzione che una nazione sia il portato della storia e della lingua24 (evidentemente concepita anch’essa come formazione storica).
Il rischio, poi, che, conseguita l’unità e, soprattutto, l’indipendenza, il cammino della nuova Italia potesse deviare verso lidi inauspicabili fu certamente presente anch’esso. Mazzini affermò anzi perentoriamente: «mutammo in gretto “nazionalismo” il sacro principio della nazionalità»25. Ma per questo aspetto il pensiero di coloro che, come Cavour, ebbero le maggiori responsabilità di governo nella realizzazione dell’opera risorgimentale fu saldo e coerente dall’inizio alla fine. In ultimo, Cavour stesso lo avrebbe espresso, ad esempio, nel momento della conclusione di un’impresa così difficile da essere rimasta incredibile finché non la si realizzò, in un passo della lettera che il 2 ottobre 1860 egli scrisse al patriota toscano Vincenzo Salvagnoli. La parola “unità” non vi compariva, ma era il presupposto imprescindibile delle considerazioni che il Conte vi svolgeva. «Non sarà l’ultimo titolo di gloria per l’Italia – egli scriveva – d’aver saputo costituirsi a nazione [di aver raggiunto, cioè, l’unità] senza sacrificare la libertà all’indipendenza, senza passare per le mani dittatoriali d’un Cromwell, ma svincolandosi dall’assolutismo monarchico senza cadere nel dispotismo rivoluzionario», ma anzi potenziando «la libertà legale che vogliamo inseparabile compagna della indipendenza della nazione»26.
Non era il pensiero di un isolato, né il pensiero di un leader in cerca di giustificazioni e di nobilitazione della causa alla quale si era dedicato. Era il pensiero che si scolpì con forza e rimase a lungo nelle menti e nel sentire degli italiani. Vale sempre la pena di ricordare il monumento che per il cinquantenario dell’unificazione nazionale venne inaugurato a Roma nel 1911 e che venne dedicato alla memoria di Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, dal nipote Vittorio Emanuele III. Su una delle due torri laterali di quel discusso monumento è scritto a lettere d’oro patriae unitati; sull’altro torre civium libertati. Era il pensiero più autentico del Risorgimento, molto bene espresso e sottolineato dalla generazione che del Risorgimento aveva raccolto tutti i frutti. Unità-libertà; unità-indipendenza; unità-nazione: il riscatto da un lungo passato di decadenza e di servitù coincideva con la promessa e la garanzia di un futuro del tutto diverso.
Solo la frattura con questo autentico pensiero del Risorgimento in materia di unità e di valori nazionali operata dal fascismo interruppe questa profonda identificazione risorgimentale, e diede corpo alle ombre evocate da Mazzini adombrando la caduta dallo spirito nazionale in un gretto nazionalismo, anche se, come amava sostenere Rosario Romeo in uno dei più impegnati dei suoi saggi, non mancano elementi per ritenere che di molti aspetti della tradizione risorgimentale il fascismo sia stato l’ultima stagione, prima che un’ancor più profonda e radicale rottura con questa tradizione si sviluppasse all’indomani della seconda guerra mondiale27.
Rottura indubitabile, che tutti, dal più al meno, riconoscono. Vero è, però, anche che l’Italia post-fascista ha poi recuperato o tentato di recuperare lo spirito risorgimentale, ma il recupero è stato parziale. Le indubbie e inestirpabili sopravvivenze risorgimentali sono più nei fatti, nella realtà strutturale e oggettiva dell’Italia contemporanea che nella coscienza riflessa della nazione. Il processo al risorgimento – un vecchio idolum fori – è tornato di grande attualità e tende a imperversare in una situazione storica alquanto nuova e diversa. È un po’ quel che in Francia, ma in molto minore misura e con assai minore virulenza, è accaduto per la Grande Révolution, una volta canone indiscutibile e indiscusso della religione civica di quel paese. Secondo un’opinione molto diffusa, l'Italia unita è sempre stata, su questo piano del cinismo, meno religiosa di altri paesi; è discutibile, ma, ammesso che sia così, anche per questo non dovrebbe sorprendere, forse, che a venire in discussione nella nuova temperie europea dalla seconda metà del secolo XX in poi sia stato proprio il principio dell’unità nazionale, la realizzazione più difficile del Risorgimento, e, appunto per ciò, quella più simbolicamente pregnante e rilevante.




NOTE
1 Cfr. C. Cattaneo, Considerazioni [sulle cose d’Italia nel 1848], in Idem, Il 1848 in Italia. Scritti 1848-1851, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, Torino, Einaudi, 1972, p. 306.^
2 Sia lecito rinviare qui ai nostri scritti Introduzione a Cattaneo, e Il federalismo repubblicano, in Idem, Da Mazzini a Salvemini. Il pensiero democratico nell’Italia moderna, Firenze, Le Monnier, 1974; e La “sfortuna” di Cattaneo, e Cattaneo e Mazzini, in Idem, La democrazia da Cattaneo a Rosselli, ivi, 1982.^
3 Cfr. G. Galasso, Cultura e politica negli anni di Crispi, in Idem, Italia nazione difficile. Contributo alla storia politica e culturale dell’Italia unita, Firenze, Le Monnier, 1994, p. 137.^
4 Su questi punti si veda Galasso, Introduzione a Cattaneo, cit., pp. 162-169.^
5 Sul pensiero nazionale di Manzoni mancano studi specifici e dettagliati, ma le biografie e le monografie manzoniane possono servire da primo orientamento.^
6 Cfr. V. Gioberti, Del rinnovamento civile d’Italia, 2 voll., Parigi-Torino 1851, vol. I, p. 153.^
7 Si vedano i testi presentati per l’occasione raccolti in A. Saitta, Alle origini del Risorgimento: i testi di un “celebre” concorso (1796), 3 voll., Roma, Istituto Storico Italiano per moderna e contemporanea, 1964. Come è noto, la tesi unitaria è sostenuta in particolare nel testo presentato da Matteo Galdi, vol. I, pp. 267-329.^
8 A. Manzoni, Lettere, a cura di C. Arieti, 3 voll., Milano, Mondadori, 1970, vol. II, p. 397.^
9 A. Manzoni, Della lingua italiana, in Idem, Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1973, vol. II, p. 1804. Il testo è del 1852.^
10 Ivi, p. 1812.^
11 A. Manzoni, Sulla lingua italiana. Lettera al Sig. Cavaliere Consigliere Giacinto Carena, ivi, p. 1904.^
12 Cfr. F. Crispi, Repubblica e monarchia (Lettera a G. Mazzini), Torino, Tipografia Vercellino, 1863, p. 21.^
13 G. Mazzini, Scritti editi e inediti, Imola, Galeati, 1906 segg., vol. 62, Imola 1932, p. 100.^
14 È questo, in particolare il senso, della Conchiusione dei Doveri dell’uomo, lo scritto più ampio e sistematico di Mazzini, in cui questione morale e questioni politiche e sociali fanno tutt’uno.^
15 V. Gioberti, Il gesuita moderno. Apologia, Napoli, Stamperia del Vaglio, 1848, p. 232.^
16 C. Balbo, Della monarchia, Firenze, Le Monnier, 1857, p. 10.^
17 F. De Sanctis, Proclama al popolo irpino, 16 ottobre 1860, in Idem, Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, a cura di F. Ferri, Torino, Einaudi, 1960, p. 81.^
18 G. Faldella, La contessa De Ritz, Milano, Fratelli Treves, 1891, p. 71.^
19 N. Tommaseo, Del presente e dell’avvenire, a cura di T. Lodi (Edizione nazionale delle Opere di N. T., vol. IV), Firenze, Sansoni, 1968, p. 129.^
20 V. Gioberti, Il gesuita moderno, 5 voll., Losanna, Bonamici e Compagni, 1847, p. 437.^
21 G. Mazzini, Scritti editi ed inediti. Appendice (Epistolario), 6 voll., Imola, Galeati, 1938, vol. VI, p. 444.^
22 C. Balbo, Meditazioni storiche, Firenze, Le Monnier, 1855, p. 225.^
23 Ivi, p. 255.^
24 Mazzini, Scritti editi ed inediti, cit., vol. 8, p. 171.^
25 Ivi, vol. 60, p. 150.^
26 Cfr. A Viarengo, Cavour, Roma, Salerno, 2010, p. 481.^
27 Cfr. R. Romeo, Il Risorgimento: realtà storica e tradizione morale, in Idem, Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale, Torino, Einaudi, 1964, pp. 251-287.^
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