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La notizia dell'anno
di G. G.
È paradossale, ma è così. Dopo un anno di vicende politiche travagliate, ma fervide, che hanno annunciato mutamenti profondi nel panorama politico italiano, con la nascita di qualche nuova forza politica, col ridisegno di altre, con turbamenti all’interno di qualche partito sulla cui monoliticità sembrava che si potesse giurare (ci riferiamo in particolare al partito di Di Pietro), con nuove dialettiche all’interno di un partito che dovrebbe essere fondamentale nel gioco e nella lotta politica italiana come è il Partito democratico, con una consultazione elettorale di indubbio rilievo come quella per i Consigli regionali e dai risultati assolutamente notevoli, con questioni particolari ma di enorme rilievo come quella dello smaltimento dei rifiuti in Campania e in specie a Napoli, con una serie di eventi anche internazionali di sicura importanza (a cominciare dall’andamento della presidenza Obama e dai risultati delle elezioni di mezzo termine negli Stati Uniti), con tutto questo e il molto altro che si potrebbe facilmente ricordare, la notizia che per l’Italia sembra assumere a fine d’anno il maggiore rilievo e avere le maggiori probabilità di profondi strascichi e conseguenze nei prossimi anni è certamente quella della soluzione delle vertenze sindacali prima per la fabbrica FIAT di Pomigliano d’Arco e poi per il contratto di lavoro dei lavoratori del complesso di Mirafiori.
Una notizia, dunque, che non proviene dal mondo politico. Proviene dal mondo del lavoro, e riguarda questioni di carattere così generale sia per il costo che per le condizioni del lavoro industriale da aver comportato l’uscita della FIAT dalla Confindustria: un atto destinato a segnare, a sua volta, un momento di profonda riflessione sulla linea del governo aziendale per quanto riguarda relazioni industriali e relazioni umane.
Non entriamo qui nei dettagli dell’accordo raggiunto dall’azienda con tutti i sindacati, meno la FIOM e la CGIL. Ci atteniamo, piuttosto, all’evidente significato innovativo di questo accordo rispetto alle questioni che erano sul tappeto e all’ordine del giorno delle trattative. Il punto più essenziale è forse quello relativo alla rappresentanza sindacale. L’azienda riconoscerà come tale e tratterà come propri interlocutori soltanto le organizzazioni firmatarie dei nuovi contratti a Pomigliano e per la FIAT. Scioperi e assenteismo sono notevolmente limitati e variamente penalizzati. Il monte-ore degli straordinari che è consentito all’azienda di richiedere viene triplicato: da 40 a 120 ore; e, per di più, vi si possono aggiungere altre 80 ore, se vi è il consenso dei sindacati. L’inquadramento professionale è semplificato, passandosi dai 7 livelli attuali a 5, con fasce intermedie per semplificare le promozioni, mentre sono rivedute le figure professionali più alte. Gli stessi orari di lavoro sono riorganizzati prevedendo un triplice modulo di turni di 8 ore per un vario numero di giorni, e anche due turni di 10 ore al giorno.
Un complesso normativo – è fin troppo evidente – che cambia molte carte in tavola nell’assetto e nella dinamica delle condizioni di lavoro in Italia, interrompendo drasticamente una linea che si prolungava, nei suoi elementi di fondo, dagli anni ’60, e in particolare dallo Statuto dei lavoratori nel 1970. Drasticamente, ma non del tutto repentinamente, come alcuni sostengono. I segni di un logoramento e di un invecchiamento delle condizioni contrattuali e normative del lavoro in Italia erano visibili già da qualche tempo. E ciò non perché salari e stipendi in Italia siano più alti che altrove. È vero, semmai, il contrario. Erano, invece, in questione proprio il quadro normativo e la tipologia contrattuale. I nuovi orientamenti delle aziende e dei sindacati negli Stati Uniti in materia di flessibilità del lavoro e di tipi e figure contrattuali hanno dato già da qualche tempo un segnale preciso in questo senso. Non è un caso che la prima e maggiore applicazione italiana della nuova strategia aziendale e sindacale sia avvenuta in un’azienda diretta da un dirigente di provata e meditata esperienza del mondo dell’industria e del lavoro negli Stati Uniti, e sia stata preceduta dall’accordo FIAT-Chrysler, che indirettamente segnava già un richiamo dell’azienda torinese alle nuove forme di relazioni industriali sperimentate in America e alla linea americana, antesignana di quella ora adottata alla Fiat.
Per i sindacati italiani si è trattato di un rivolgimento profondo, accentuato dalla netta divisione tra la FIOM-CGIL e le altre maggiori sigle sindacali. Ma è proprio da meravigliarsi di questa divisione? Quali segnali vi sono stati nel decennio precedente (a non voler risalire più indietro nel tempo) che potessero far pensare a un diverso atteggiamento della FIOM? Quali segnali che si fosse allentato il legame organico, tradizionale, anzi genetico, nella CGIL, con il mondo di sinistra, dal PD (oggi) in là?
In effetti, ci si pensi, e si vedrà che – come non ci pare che sia stato in alcun modo notato – la situazione odierna è del tutto analoga a quella degli anni ’50. Allora la rottura dell’unità sindacale post-bellica fu salutata a giusta ragione come un importante contributo alla difesa del regime di libertà in Italia, data la totale convergenza della CGIL sulla linea politica del Partito comunista italiano, schierato su posizioni delle quali si dice ancora poco qualificandole come pro-sovietiche. La preminenza di questo dato politico fece per un bel po’ di tempo trascurare ciò che a questo fatto politico si accompagnava, e cioè il rinnovamento che così si ebbe dei contratti e delle relazioni aziendali. Solo quando la CGIL, dopo una viva riluttanza, si allineò alle nuove condizioni che si erano intanto determinate si prese coscienza, e neppure abbastanza largamente, di questi mutamenti. Poi il centro-sinistra portò a una linea sociale, espressa fortemente nello Statuto dei lavoratori, che coprì del tutto le vicende degli anni ’50, mentre ancor più valse, in questo senso, la spinta a sinistra degli anni della “contestazione” (e del terrorismo). Ne risultò, alla fine, quell’assetto dei rapporti di lavoro, che il tempo aveva reso oggettivamente, e nella massima parte, se non in tutto, obsoleto, e che ora gli accordi tra FIAT e sindacati concordanti hanno superato per la grande concentrazione di lavoro industriale, che la FIAT continua a rappresentare in Italia.
Non sarebbe troppo difficile prevedere che, come già negli anni ’50, la CGIL si dovrà adattare, alla lunga (ma non è escluso che sia prima di quanto si potrebbe pensare), alla nuova realtà del lavoro, che non è una realtà soltanto italiana. Come è stato ben detto, nel quadro internazionale il caso FIAT non è affatto una anomalia o una eccezione. Al contrario, è l’Italia a costituire una anomalia o eccezione, come paese in cui sono ancora in vigore statuizioni e rapporti non più al passo coi tempi, anzi tanto poco al passo da far temere serie conseguenze se a trarre le dovute deduzioni da mutamenti che si sono prodotti su scala globale fosse obbligata soltanto la CGIL.
E qui è necessario notare, proprio a questo riguardo, che l’uscita della FIAT dalla Confindustria è un richiamo deciso in tal senso. Non è possibile prevedere quali saranno o potrebbero essere le ripercussioni degli accordi FIAT sul restante mondo industriale italiano. Certo può essere ritenuto soltanto che ripercussioni non potranno mancare. Si pensi solo a quel che per la Confindustria sarebbe una successiva uscita di altre aziende, e per le medesime ragioni o per ragioni affini. Già, senza la FIAT la Confindustria – è inutile nasconderselo – conta di meno. Quanto potrà durare l’attuale situazione o prospettiva di scissione confindustriale?
Come si vede, non è solo la CGIL a dover penare per gli accordi FIAT. Ancora di più pena (e probabilmente penerà) la sinistra, come facilmente si può vedere dal travaglio subito derivatone nel Partito democratico. Anche in questo caso non è possibile valutare subito quali potranno essere la portata e gli esiti di tale travaglio. Ma si dà il caso che questo elemento si sommi a quelli già sussistenti nel Partito, che hanno dato luogo alla dichiarazione di autonomia fatta dalla corrente prodiana e ai visibili contrasti fra i principali leader democratici. E si somma pure, sia detto per inciso, alla non del tutto remota eventualità che turbamenti si abbiano per i recenti sviluppi nella stessa CGIL. Senza contare, inoltre, che considerare immune dal rischio di spiacevoli ripercussioni degli accordi FIAT il resto dello schieramento politico italiano si potrebbe rivelare una presunzione, a più o meno breve scadenza, disdetta dai fatti.
Tutto sommato, sembra, tuttavia, doversi confermare la valutazione positiva di quegli accordi, che al riguardo è largamente prevalsa nei commenti politici e pubblicistici. Ne è stato dinamizzato il mondo del lavoro sia da parte degli industriali che da parte dei sindacati. Ne è stato avviato un processo di adeguamento della realtà produttiva e sociale del paese alle reali condizioni dell’economia globale in cui ormai viviamo, e nella quale sempre più vivremo. Ne è stato sollecitato a chiarimenti che potrebbero essere di straordinaria importanza il mondo politico, mentre lo stesso governo, nella sua attuale fisionomia politica o, domani, in altra fisionomia politica, dovrà trarne insegnamenti e incitamenti a rivedere punti e capitoli della sua azione.
Tutto bene, allora? Naturalmente, no. Il successo può dare alla testa alla dirigenza FIAT, e, di riflesso, a tutta la dirigenza industriale italiana. La minaccia – effettiva o solo adombrata a scopo tattico che fosse – di portare la FIAT fuori dell’Italia non è stata, per dirla con un eufemismo, una bella cosa. Peggio ancora sarebbe se dai nuovi rapporti di lavoro si traesse un incitamento a schiacciare il lavoro e i lavoratori sotto il peso delle condizioni ora sussistenti di prevalenza del capitale. Per lo meno altrettanto nefasto sarebbe che la CGIL e un certo mondo di sinistra restassero immobilizzati dalle attuali contrapposizioni, senza nessuna volontà o capacità di rinnovamento strategico e metodologico della loro azione. Nefasto sarebbe, altresì, che il mondo degli industriali si persuadesse che basta fare accordi del tipo FIAT per risolvere i problemi del successo e dello sviluppo aziendale, o per evitare declini e insuccessi, mentre è chiaro che quegli accordi favoriscono, non assicurano il successo aziendale, per il quale occorrono ulteriori e fondamentali integrazioni strategiche e operative, innovative e avanzate. Quanto poi al governo, è del tutto irrealistico pensare che basti lasciare la corrente al suo corso spontaneo per veder fiorire la necessaria ripresa dell’economia nazionale dalla crisi in cui versa.
Insomma, come sempre, la vita sociale e quella politica (ma la vita privata e personale è diversa?) non chiudono mai definitivamente i loro conti, o, se ne chiudono alcuni, se ne aprono altri. Bisogna tenerlo a mente. Gli accordi FIAT sono sicuramente una buona cosa, ma vanno inseriti e fatti vivere fra tantissime altre cose, sia meno che, ovviamente, più importanti.
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