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La didattica delle competenze
di Giovanni Carosotti
L’organizzazione della scuola in Italia è un tema che continua a mantenere una posizione di centralità nel dibattito politico, nonostante sia diffuso nella società un pregiudizio che vede nell’istituzione scolastica una roccaforte di privilegiati, legati più generalmente al mondo del pubblico impiego, scarsamente motivati ad aggiornarsi e a introdurre innovazioni sul piano didattico. Non è questa la sede per valutare la fondatezza di una simile opinione, che richiederebbe un’attenta ricostruzione storica di un compromesso sociale realizzatosi nel secondo dopoguerra e di una strategia sindacale che ha coinvolto tutto il corpo docente. Non c’è dubbio però che, sulla base di un tale pregiudizio, i docenti siano stati i grandi assenti nella elaborazione dei progetti di riforma, sia quelli riguardanti il riassetto dell’intera istituzione scolastica sia quelli, più modesti, relativi ai singoli programmi. In questi ultimi quindici anni, nelle commissioni proposte su questi temi, la presenza di insegnanti è stata poco più che simbolica, spesso cooptata in ragione della condivisione della linea culturale che faceva da sfondo ai provvedimenti discussi, in un ruolo comunque minoritario – di semplici consulenti – rispetto a figure professionali ritenute maggiormente deputate a prendere decisioni (docenti universitari, esponenti del mondo del lavoro e imprenditoriale, personalità politiche, giornalisti).
È anche vero che proprio in questi ultimi anni la classe docente è stata incapace di prendersi la responsabilità, quale categoria professionale, di elaborare proposte di riforma, ed è vero che in molti casi gli insegnanti si sono rassegnati alla scarsa considerazione sociale della propria professionalità, attendendo in modo passivo le modifiche prodotte dalle decisioni ministeriali, confidando che queste non mettessero a rischio la stabilità dell’organico. In altre parole, si è accettata l’impiegatizzazione della professione.
Quest’assenza ha contribuito che prevalesse, negli ultimi quindici anni, una linea pedagogico-culturale, condivisa nella sostanza da tutti i maggiori schieramenti politici1, che si può legittimamente riassumere nel concetto di «pedagogismo» e che privilegia in modo esclusivo la formalizzazione delle tecniche comunicative rispetto ai contenuti, sottovalutando in modo palese il valore dello specifico disciplinare nel processo formativo; un’idea della didattica destinata fatalmente a ridurre la rilevanza del ruolo docente nell’istituzione scolastica.


1. L’introduzione delle competenze

Il concetto principale attraverso cui questa nuova ideologia pedagogica ha cercato di imporsi nel mondo della scuola – per lo più, come vedremo, in modo surrettizio –, sia sul piano normativo sia nella produzione teorica, è quello di «competenza», intesa come un nuovo obiettivo didattico, per vari motivi più attuale e significativo di quelli tradizionali, destinato a cambiare il volto dell’organizzazione scolastica e a rivedere radicalmente – con evidenti e significative ricadute sul piano della composizione e selezione degli insegnanti – il modo d’intendere la professionalità docente.
Gli obiettivi del presente saggio sono molteplici: da una parte dimostrare la vacuità scientifica dello stesso concetto, mai definito dai suoi sostenitori in modo univoco e convincente; dimostrare altresì che le problematiche didattiche in esso sottese appartengono già da sempre all’attività d’insegnamento, e sono ben presenti ai docenti; infine, che il loro eventuale peso tra gli obiettivi da raggiungere non implica affatto una riduzione dell’importanza disciplinare, ma semmai ne richiede un rafforzamento.
Si può individuare una data precisa, a partire dalla quale il tema delle competenze è stato in modo quasi ossessivo portato all’attenzione degli insegnanti, attraverso l’organizzazione di vari corsi di aggiornamento: la riforma dell’esame di Stato, al termine dell’ultimo anno di frequenza delle scuole secondarie superiori, voluta nel 1997 dall’allora ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer. Questa innovazione venne sostenuta con una strategia comunicativa, evidentemente ideologica, con la quale si avvalorava il carattere scientifico del concetto di competenza, ritenuto una recente scoperta della riflessione pedagogica, con lo scopo però, eminentemente pratico, di difendere una procedura d’esame la cui efficacia formativa suscitava, legittimamente, parecchi dubbi.
L’esame di stato, così come viene ormai realizzato dall’anno scolastico 1998-1999, si fonda in realtà su una contraddizione pedagogica, che si potrebbe riassumere nell’espressione «falsa severità», per cui da una parte si pretende un’esaustività nella preparazione che, se fosse reale, provocherebbe numerosi insuccessi e sottoporrebbe gli studenti a una pressione eccessiva rispetto alla valenza propria dell’esame nel complesso dell’intero iter formativo di uno studente, per poi proporre modalità di esecuzione che stemperano – pur con molti arbitri – queste difficoltà in percorsi più agevolati, sia perché alcune discipline vengono escluse in quanto i docenti non possono rientrare nelle commissioni2, sia perché l’esame prevede un percorso pluridisciplinare scelto dal candidato3, al quale devono poi fare riferimento le domande proposte dai docenti sulla generalità dei programmi. Dal punto di vista dell’obiettivo formativo implicito proprio della scuola media superiore, ovvero la capacità autonoma di affrontare gli studi universitari, era più significativa la preparazione che l’alunno sapeva dimostrare su due sole discipline (una scelta da lui, l’altra dalla Commissione), pretese però nella loro esaustività. Se l’esigenza, peraltro discutibile, era quella di maggior rigore, era possibile pretendere la preparazione su tutte e quattro le materie scelte dal ministro.
La nozione di “competenze” è stata scientemente utilizzata per nascondere la negativa ricaduta didattica del nuovo esame4. I docenti sino ad allora si sarebbero limitati a valutare banali «conoscenze», mentre ora l’esame consentiva di fare emergere le «competenze», la capacità di applicare autonomamente quanto appreso in percorsi autonomi5. Al di là del modesto giudizio sulla professionalità implicito in questa presa di posizione – la specificità professionale del docente delle scuole superiori (e non solo) non ha mai implicato la semplice comunicazione delle nozioni, ma ha sempre previsto l’approccio individualizzante e favorito il più possibile la rielaborazione –, sorge il dubbio che il ricorso alle competenze giustifichi, senza avere il coraggio di un’affermazione esplicita, le lacune nella preparazione disciplinare.
La retorica delle «competenze» era sembrata all’epoca una resa di fronte alle incapacità di alcuni studenti di raggiungere livelli adeguati di sapere, e una strategia che evitava una più seria organizzazione di un’autentica didattica di recupero che, come diremo più avanti, è la vera iniziativa che motiva l’eccellenza dei risultati formativi complessivi in altre nazioni, al di là dell’impostazione dei programmi, che fanno riferimento a ben specifici ambiti culturali.


2. Che cosa sono le competenze?

Un aspetto sorprendente che colpisce chi affronta la numerosa letteratura specializzata sul tema delle competenze è l’impossibilità di trovare delle stesse una definizione precisa; in alcuni casi, addirittura, si registrano posizioni contraddittorie tra coloro che ne sostengono la rilevanza. Nel tempo, queste definizioni hanno cercato, in parte riuscendoci, formulazioni più precise, ma, come vedremo, la loro applicazione nella pratica didattica non è affatto scontata.
In molti casi, più che proporre una definizione, si è preferito fare ricorso ad esempi, la cui irreprensibilità teorica lascia invero molto a desiderare: è il caso di quello presente in un saggio di Giuseppe Bertagna, il quale fa riferimento ai vigili del fuoco di New York accorsi alla tragedia del World Trade Center, l’11 settembre 2001, e in parte periti nel disastro, assieme a migliaia di vittime. Lo studioso afferma che il percorso di formazione sostenuto da quei vigili del fuoco li aveva portati a possedere delle conoscenze (sapere) e delle abilità (saper fare), confortate da «esercitazioni pratiche per riuscire a trasformarle [le conoscenze] in abilità»6. La conclusione è che quei pompieri mancavano di competenze; che il raggiungimento delle stesse non era stato previsto dalla loro formazione:
La vera prova della competenza dei vigili del fuoco, infatti, non si ha nei corsi della formazione iniziale e in quelli della formazione continua in servizio, e nemmeno si ha durante le esercitazioni simulate di abilità, anch’esse svolte nella formazione iniziale o in servizio: la si ottiene solo a posteriori, quando cioè i pompieri hanno spento bene e nel minor tempo possibile un incendio reale, hanno salvato con successo vite umane, e sono diventati così affidabili da riprovare due, venti, duecento volte la loro bravura, con incendi sempre nuovi, l’uno diverso dall’altro, ma sempre ben domati7.

Che cosa accadde allora a New York, quel drammatico giorno?
Serviva, perciò, comprendere che le conoscenze e le abilità apprese, e trasformate nelle pur buone competenze professionali fino ad allora dimostrate, dovevano essere ricombinate, subito e tutte, creativamente, in una nuova competenza professionale personale esperta, in grado di fronteggiare con il minor danno possibile per sé e gli altri la radicale novità della situazione che si era venuta a determinare. Le competenze precedenti risultavano, infatti, all’improvviso, del tutto inadeguate, se non dannose. Occorreva comprenderlo, e metterne in campo, all’impronta, di nuove. Ecco perché salvarono se stessi e altri soprattutto quei pompieri che riuscirono nell’impresa8.

Bertagna ribadisce le sue convinzioni con un nuovo esempio, relativo a un’esercitazione effettuata in una scuola primaria nell’eventualità di un terremoto, totalmente disattesa nelle sue istruzioni quando l’evento si è verificò realmente9.
Le argomentazioni di Bertagna non appaiono convincenti, in quanto generiche e prive di dettagli tecnici probanti; sembra quanto meno azzardato – se si pensa al dramma cui si fa riferimento – affermare che coloro che si sono salvati tra i vigili del fuoco avessero maggiori competenze dei colleghi uccisi, quando probabilmente erano entrati da più breve tempo nell’edificio e avevano più vicine le vie di fuga. Non esiste in effetti alcun criterio scientifico per giustificare il diverso destino di quei pompieri e l’eventuale maggiore capacità di alcuni nel «disporre creativamente» delle abilità acquisite. Il passaggio presunto dalle abilità alle competenze è indimostrato perché: o quelle abilità erano utili per la novità catastrofica che quegli uomini si trovarono di fronte; oppure la straordinarietà dell’evento era tale da non potere essere previsto e, dunque, neppure oggetto del corso di formazione.
In tale assenza, nessuna genialità creativa sarebbe riuscita a dominare una situazione ignota. Per quanto riguarda poi l’esempio del terremoto, utilizzarlo per evidenziare la centralità delle competenze, ovvero trasformare in conclusione cognitiva un atteggiamento psicologico dovuto a circostanze eccezionali, per mettere in discussione il sapere tecnico appreso, alla luce poi di un unico esempio, risulta altrettanto poco credibile.
In un altro saggio pubblicato dalla stessa rivista, il problema sembra affrontato in modo sostanzialmente diverso. Le competenze vengono definite come «la capacità di mettere in moto e di coordinare le risorse interne possedute e quelle esterne disponibili per affrontare positivamente una tipologia di situazioni sfidanti»10, dove si vede tornare il «saper fare», escluso invece da Bertagna, che lo riteneva un puro momento propedeutico all’acquisizione di competenze. Anzi Bertagna, nel suo saggio, ribadiva: «le prime [abilità] non sono riducibili alle seconde [le competenze]»11.
L’Autore, d’altra parte, riconosce l’impossibilità di una definizione: «proprio perché non sono soltanto “sapere” e “saper fare”, ma anche, allo stesso tempo, emozione, sentimento, volontà, motricità, socialità, espressività, apprezzamento estetico, azione, intuito che accompagnano, in un intreccio personale indistinguibile, tale “sapere” e “saper fare” nel risolvere un reale problema dato, si possono solo testimoniare»12.
La competenza dunque non può essere definita aprioristicamente, in quanto testimoniata solo da un presentarsi di circostanze convergenti – il cui accadere non si capisce se sia casuale, possa essere indotto, o si presenti con periodicità prevedibile –. Su tale circostanza, e con uno strumento intuitivo, i docenti sono chiamati a valutare; certo – afferma Bertagna – le competenze non possono esistere senza conoscenze e abilità, e queste saranno pur trasmesse dal corpo docente, diviso nelle diverse materie d’insegnamento. Ma, poiché si tratta di puri requisiti, che incidono in modo meno significativo sul successo del percorso formativo, la loro valutazione avrà un peso ridotto nel giudizio complessivo dello studente e, con una captatio benevolentiae verso la categoria professionale, si eviterà loro questo impegno in fondo poco significativo; la parte nozionistica del sapere potrà dunque essere giudicata in primo luogo, verosimilmente, dall’Istituto Nazionale di Valutazione (INVALSI) che, con le classiche procedure standardizzate, pubblicherà un rendiconto nazionale delle conoscenze13.
Non è poco significativo quello che si afferma in queste righe: gli insegnanti dovrebbero rinunciare al momento più delicato della loro attività professionale, la valutazione disciplinare, per proporre giudizi di carattere complessivo su presupposti teorici, come abbiamo visto, totalmente aleatori. Eppure l’Autore prosegue nelle sue valutazioni, come se il problema delle definizione delle competenze fosse assodato e si trattasse unicamente di stabilire i parametri tecnici di una corretta valutazione.
Viene così fatto passare, senza essere adeguatamente discusso, uno stravolgimento e contemporaneamente una pauperizzazione della professionalità docente, conseguenza della svalutazione del sapere disciplinare, ridotto alle categorie inferiori di conoscenze e abilità. L’insegnante dovrà trasmettere una serie di informazioni senza concretamente valutarle, o valutandole in modo solo parziale, poiché a ciò penserà un ente esterno sulla base delle procedure standardizzate e dei requisiti minimi elaborati dal ministero.
La valutazione che spetta ai docenti, invece, quella sulle fantomatiche competenze, non può comportare un giudizio oggettivo su quanto concretamente prodotto, ma implica un impegno a intuire quanto non esplicitamente manifestato, giustificando in tal modo un giudizio più complesso. Una capacità che, per quanto dotati di forte intuito, non può essere assolta dal singolo docente che, qualora la competenza, pur parziale, ancora gli competa, dovrà avvalersi della collaborazione, oltre che degli altri colleghi del consiglio di classe14, della famiglia e dello stesso alunno («dimensione narrativa o testimoniale diretta delle competenze»15). Si tratta dell’unico caso, in ambito formativo, in cui ad esprimersi sul giudizio è lo stesso giudicato, il quale sfrutta il fatto che il docente non è in grado di calarsi nel corretto punto di vista per emettere una valutazione:
possono essere viste e più o meno “ammirate” [le competenze] dagli altri, ovviamente in modo diverso a seconda che, questi altri, siano o no “esperti” che ne hanno usate e ne usano di analoghe e che sono stati e che sono, a loro volta, “ammirati come esperti da altri esperti (dimensione valutativocom parativa esterna delle capacità competenze); ma in nessun caso possono essere trasferite da un padre a un figlio, da un esperto ad un inesperto alla stregua di conoscenze/abilità insegnate attraverso le lezioni e le esercitazioni16.



3. Le competenze

rimangono ad un “chi”, all’essere personale di chi le dimostra, si manifestano, ogni volta, nella vita quotidiana di una persona, quando risolve i problemi che l’esperienza a volta a volta le pone, e che per definizione sono sempre nuovi ed esigono, quindi, sempre, adattamenti e modificazioni personali nelle procedure per risolverli, per non cadere nell’errore di uniformarli schematicamente quando invece, tempi, modi e circostanze di porsi li rendono per certi aspetti sempre unici e irripetibili17.

Sembra scontato affermare che una tale valutazione sia totalmente aleatoria e assolutamente non falsificabile, poiché implica sempre la possibile aggiunta di elementi psicologici a giustificazione di una prova destinati a mai completarsi. Ma soprattutto, sembra confermare l’impressione che abbiamo espresso sopra, che tali teorie, più che fondarsi da se stesse, siano costruite a posteriori per giustificare un concreto provvedimento legislativo18.


4. Le fondamenta epistemologiche

Appare chiaro come l’aleatorietà del concetto di competenza, anche quando fa riferimento a problematiche concrete19, non può produrre nulla di convincente riguardo alla prassi dell’apprendimento. Del resto, gli ultimi interventi in materia mostrano come, nel corso degli anni, il dibattito non abbia fatto alcun reale progresso: da una parte, infatti, continuano ad essere proposte definizioni di scarsa chiarezza, quantomeno rispetto alla loro applicabilità alla pratica didattica; dall’altra le proposte di modifica radicale della tecnica di insegnamento si fanno sempre più apodittiche, come se, dietro di esse, vi fossero conquiste teoriche ormai vincenti e prive di possibili obiezioni sul piano scientifico. Un esempio particolarmente emblematico è, a riguardo, un recente intervento di Italo Fiorin20. Vi si parla, in termini generali, di contesto storico postfordista, nel quale risulterebbero anacronistiche le modalità tradizionali della comunicazione didattica: in passato il sistema formativo era «impegnato a garantire il patrimonio di conoscenze e di abilità indispensabili per il successivo passaggio alla vita lavorativa. Oggi però questo modello non è più praticabile perché il cambiamento mette continuamente fuori gioco non solo le conoscenze, ma anche le abilità oggetto della formazione scolastica»21. Questa nuova situazione storica imporrebbe di «cambiare paradigma» passando «dall’insegnamento all’apprendimento, non è sufficiente insegnare ma è necessario imparare ad apprendere»22. La delicatezza di simili affermazioni richiederebbe una serie convincente di argomenti probatori; innanzitutto, e lo mostreremo più avanti, l’idea che la comunicazione didattica nel vissuto scolastico preuniversitario, e quindi anche nei licei, sia finalizzata all’apprendimento e non solo all’acquisizione di conoscenze è teoria vecchia, nei confronti della quale gli insegnanti già hanno attuato innovative strategie didattiche. Secondo Fiorin invece gli insegnanti – e nella sua posizione è implicita una squalificazione del lavoro docente oltre che un azzeramento di un nutrito dibattito che ha coinvolto gli operatori della scuola – si limiterebbero, ignorando completamente la questione, a trattare gli alunni come recipienti da colmare il più possibile di nozioni, trasmettendo in modo pigro il loro bagaglio culturale, ignari che esso è totalmente inutile nell’attuale fase storico e socio-economica:
altro è, infatti, trasmettere conoscenze, altro favorire lo sviluppo di competenze […] in un mondo nel quale le professioni tradizionali subiscono radicali trasformazioni, vecchi mestieri spariscono e nuovi continuamente nascono, l’unica cosa durevole nella quale la formazione può investire è l’apprendimento. […] Il tema delle competenze prende consistenza all’interno di questo nuovo orientamento focalizzato sull’apprendimento. Non si tratta, pertanto, semplicemente di una ‘moda’, ma di un passaggio cruciale per l’azione formativa23.

Il carattere autoriflessivo della definizione ne denuncia la vuotezza di contenuto, finalizzata però a un preciso obiettivo: la perdita di centralità, nella comunicazione didattica, del sapere disciplinare. È evidente, però, ad attenta lettura, la contraddittorietà implicita in tale idea della formazione, laddove non si capisce, in una ambiguità probabilmente voluta, se siano i saperi comunicati (attraverso i tradizionali programmi) ad essere inutili, oppure se siano i contenuti a non essere comunicati efficacemente.
Uno dei punti di forza dei teorizzatori delle competenze, sta nella definizione che delle stesse ha offerto l’OCSE, a testimonianza di come tale rivoluzione formativa sia condivisa ben oltre l’ambiente di pochi specialisti24. In realtà la presa di posizione dell’organizzazione non sembra preludere a una radicale rimozione delle conoscenze ma, soprattutto, non sembra implicare che l’acquisizione di competenze non avvenga attraverso le conoscenze stesse. Questo il testo dell’OCSE:
Fronteggiare efficacemente richieste e compiti complessi comporta non solo il possesso di conoscenze e di abilità, ma anche l’uso di strategie e di routines necessarie per l’applicazione di tali conoscenze e abilità, nonché emozioni e atteggiamenti adeguati a un’efficace gestione di tali componenti. Pertanto la nozione di competenze include componenti cognitive ma anche componenti motivazionali, etiche, sociali e relative ai comportamenti. Costituisce l’integrazione di tratti stabili, risultati di apprendimento (conoscenze e abilità), sistemi di valutazione e credenze, abitudini e altre caratteristiche psicologiche25.

Al di là delle perplessità suscitate anche da questo testo, non mi pare si possa dedurre da esso che le competenze si creino a prescindere dalla conoscenza disciplinare, né che rappresentino obiettivi formativi estranei dalla tradizionale pratica didattica, e frutto di scoperte recenti. Di conseguenza, non si vede perché debbano rappresentare una sorta di leva con cui stravolgere la comunicazione del sapere, secondo una logica iconoclasta. L’aleatorietà di questa nozione, che implica conoscenza e psicologia, capacità teoriche e comportamentali, permette di affermare la loro non insegnabilità26; è la chiave per scardinare completamente la professionalità docente, per dichiarare l’impreparazione degli insegnanti a un siffatto compito, in quanto la preparazione richiesta prescinderebbe dalla specifica competenza disciplinare; il controllo dei processi formativi e della selezione docente sarebbe dunque tutto in mano ai pedagogisti.
Non sfugge il fatto che l’articolo offra dei docenti e della loro pratica lavorativa un’immagine stereotipata e di comodo, per valorizzare le nuove pratiche formative tese a potenziare le competenze. Florin prosegue in questo proposito indicando approcci alla didattica per opposizioni, la prima delle quali è «esecutività vs creatività»27; si tratta di un’opposizione fittizia tra due diversi livelli di operatività dei quali è consapevole qualsiasi docente, e che deve essere valorizzata e risolta nell’ambito dello stesso sapere disciplinare e, soprattutto, nel confronto tra i vari curricola, attraverso una collaborazione tra i componenti del consiglio di classe (alcune discipline, del resto, prevedono di per sé l’uso «creativo» – meglio, pratico o rielaborativo, comunque da applicarsi in contesti diversi – della norma, o regola o nozione). Non esiste una scuola, al di là di casi singoli, che comunque non rappresentano la pratica didattica nella sua effettività, che si concepisca come puramente nozionistica28 e non ritenga la questione del contenuto insegnato finalizzata ad accrescere le capacità in grado di risolvere problemi più complessi e originali. La seconda opposizione proposta è quella «sapere accademico vs. sapere autentico»29, dove solo il secondo sarebbe produttivo per la vita30; va da sé che questa antinomia implica un completo discredito della cultura in sé, sottolineandone l’inutilità pratica (come se le finalità formative trovassero il loro compimento esclusivamente nel contesto pratico). In pratica l’inutilità – e la conseguente impossibilità degli studenti ad accedervi – di un vero sapere critico31.
Il saggio di Florin è forse l’esito finale di una lunga letteratura specializzata che si è intensificata nel corso degli anni Novanta. Contemporaneamente, però, non meno numerose e tutt’altro che prive di argomento sono state le posizioni critiche verso questo nuovo modo di intendere l’insegnamento, il valore della cultura, la trasmissione del sapere fra le generazioni, in vista anche di una possibile (e necessaria, peraltro) riorganizzazione della scuola.


5. Opposizione e sostegno al pedagogismo

Il testo che con maggiore impegno ha cercato di risolvere l’evidente debolezza teorica di queste posizioni, cercando di giustificarle sulla base di evidenti acquisizioni scientifiche, è quello pubblicato da Vittorio Campione e Silvano Tagliagambe32. I due autori sono stati motivati, probabilmente, dalla consapevolezza che le idee dei pedagogisti, nonostante il largo credito da esse goduto presso le diverse autorità ministeriali, di entrambi gli schieramenti, hanno trovato un’altrettanto trasversale e radicale opposizione da parte del più disparato mondo intellettuale. In alcuni casi, addirittura, l’imporsi delle nuove teorie ha dato l’impressione di uno sconvolgimento così drammatico, per i potenti effetti negativi che avrebbe potuto generare, da dare luogo a prese di posizione di forte intensità discorsiva, e generalmente condivise da autorevoli opinionisti della grande stampa. Si tratta di prese di posizione non politiche, ma di interventi del mondo intellettuale (per lo più, ma non solo, dell’insegnamento universitario o liceale) che hanno constatato con forte preoccupazione, qualora tali idee di rinnovamento della didattica si fossero imposte, la svalutazione della cultura quale sistema di valore per la formazione delle nuove generazioni che ne deriverebbe, prospettando delle conseguenze nefaste, per l’intero futuro sociale33. Questi studi manifestano un’evidente ostilità, o quantomeno perplessità, verso i due progetti di riforma più rilevanti presentati in Italia nell’ultimo decennio. Presa di posizione opposta a quella dei sostenitori del pedagogismo, ben disposti sia verso la riforma del ministro Berlinguer, sia verso quella del ministro Moratti, di cui coglievano la sostanziale continuità relativamente alle impostazioni teoriche; semmai, l’unico rilievo critico era riservato alla prassi della classe politica, che con la sua lentezza avrebbe impedito una rapida applicazione del progetto riformatore.


6. La ricerca (debole) di fondamenti scientifici

Abbiamo visto come una caratteristica rilevante della letteratura pedagogista è la creazione, come capita spesso nella polemica priva di argomenti fondanti, di avversari di comodo; ci si contrappone a teorie artatamente ridotte a caricatura, che poco mantengono di rappresentativo e di articolato delle originarie argomentazioni. Nel nostro caso, ciò vale sia nella considerazione della professionalità docente, sia in quella della scuola come istituzione, nelle sue finalità e obiettivi. Forse l’esempio meno elegante lo si trova nella prefazione scritta da Roberto Maragliano34 al volume di Campioni e Tagliagambe, dove lo studioso appare visibilmente risentito per il notevole successo di uno studio realizzato da una docente di scuola media superiore, Paola Mastrocola35, del resto in linea con tante pubblicazioni antipedagogistiche di quegli anni.
L’intento di Maragliano è quello di umiliare l’interlocutore, tacciando le tesi espresse di dilettantismo, di vuote formule retoriche, cui si contrapporrebbe il carattere inesorabilmente scientifico del saggio che egli va a presentare, dove non si procede per formule, «ma per problemi e concetti (concetti-problemi – problemi-concetto), cose decisamente più scomode e impegnative»36. Tale impostazione scientifica, si contrapporrebbe alla pedagogia «“spontanea” che si trova riflessa e amplificata nei soggetti a vario titolo implicati nelle faccende scolastiche: docenti, amministratori, studenti in primo luogo, ma anche le famiglie e più in generale l’opinione pubblica»37. E così, tutti gli operatori della scuola sarebbero personaggi dequalificati, che agirebbero secondo procedure spontanee ed empiriche, senza neanche che si registri una differenza tra la posizione autorevole dei docenti e quella dei discenti, che dai primi dovrebbero apprendere.
Dall’intero contesto, risulta agevole comprendere come tali argomentazioni rappresentino un classico caso di falsa coscienza: sia perché Maragliano fa finta di non sapere che dietro le argomentazioni dell’autorevole professoressa vi è una letteratura critica portata avanti da docenti universitari di assoluta rilevanza, pari sicuramente alla sua; per cui il giocare la carta dello scienziato che si confronta con semplici divulgatori non corrisponde al vero.
In secondo luogo perché le qualità scientifiche del pedagogismo moderno vengono contrapposte agli artifici retorici degli interlocutori polemici ma poi, come vedremo, di tali artifici il testo in esame ne fa largo uso38. Lo studioso infatti, sempre prendendo un unico avversario di comodo, ironizza persino sul titolo del fortunato libro della professoressa, per dimostrane la scarsa serietà degli intenti. Ancora una volta sembra di essere davanti a una reazione ingiustificata dovuta forse alla consapevolezza della debolezza delle proprie argomentazioni: è indubbio che Maragliano sia cosciente del plauso e del gradimento che lo studio di Mastrocola ha avuto nel più vasto ambiente intellettuale; nondimeno, non vi fa riferimento e demolisce il libro con argomenti pretestuosi39.
Non è dunque un modo elegante per presentare le proprie argomentazioni un attacco così fuori luogo e così sleale nel metodo; è interessante però, perché denuncia un senso di superiorità intellettuale, un atteggiamento fastidiosamente spocchioso verso la professionalità docente – che il libro non a caso invita a stravolgere.
Ma diamo per scontato che si tratti solo di un infelice inizio, che seguano subito dopo le argomentazioni filosoficamente fondate, epistemologicamente ineccepibili, in grado di realizzare una svolta rivelativa rispetto alla prassi della didattica. Non c’è dubbio che, da questo punto di vista, lo studio rappresenti una totale delusione e riproponga le ambiguità dei saggi citati in precedenza. È giusto tra l’altro, vista l’asprezza e la gratuità delle accuse rivolte a chi con efficacia ha speso le proprie energie intellettuali nella scuola italiana, rispondere con altrettanta franchezza e denunciare un’impostazione dogmatica di carattere sostanzialmente positivista. La maggior parte dello studio, infatti, non tratta affatto delle problematiche relative alla didattica; i capitoli sono dedicati, per la quasi totalità delle pagine, alla descrizione di teorie cognitiviste. Al termine di accurate analisi, nelle ultime pagine del capitolo, se ne propone – invero in modo quasi sempre frettoloso – un’applicazione didattica. I due autori sottolineano, anche in maniera iperbolica, il carattere definitivo delle teorie cui fanno riferimento, che rappresenterebbero un’autentica innovazione sul piano scientifico. Non a caso il capitolo XI inizia con una proposizione particolarmente enfatica: «Mentre la rivoluzione descritta nelle pagine precedenti aveva luogo [...]40.
Innanzitutto le teorie descritte nei capitoli che vanno dal IV al IX, per quanto interessanti, non trovano consensi unanimi, non tanto nei loro contenuti particolari, quanto nell’eventuale applicazione pedagogica. Vi sono studiosi che pure auspicano una riforma della scuola molto simile a quella proposta dai due autori, che pure esprimono un parere critico verso le degenerazioni prodotte dall’applicazione in pedagogia del cognitivismo: «Il dibattito attuale sulla philosophy of mind ha messo un po’ la sordina a quest’aspetto di complessità interattiva, dominato com’è dal paradigma cognitivistico, che riconduce la mente al solo intelletto e l’intelletto alla logica, se pure allargate alle logiche, plurali e asimmetriche fra loro»41. Ciò che però più sorprende in un testo che intende presentare le proprie argomentazioni in modo apodittico, forte com’è delle basi scientifiche del suo dire, è la debolezza delle inferenze che vengono proposte tra teoria cognitiva e pratica didattica. Il rapporto di causalità, generalmente istituito alla fine dei capitoli, è per lo più debole; sembra quasi che la “montagna” della complessa teoria cognitivista non riesca altro che a produrre “un topolino”, in merito alla prassi didattica. Francamente, più che di un’argomentazione scientifica, sembra di trovarsi di fronte a uno stratagemma retorico, né più né meno di quelli che Maragliano denunciava nella prefazione. Per esempio, gli autori propongono, in appena una pagina, una dotta osservazione sull’innovazione di Gutenberg, citando un umanista del XV secolo, Aldo Manuzio, per ricordarne la massima «Festina lente», per passare, poche righe dopo, a un’analisi del tempo nei mammiferi superiori (con un esempio fenomenologico della percezione di una frase musicale). Immediatamente dopo la conclusione in merito alla didattica:
Perché si manifesti quella capacità di sintesi, in cui consiste la percezione della successione, è dunque necessario che vi sia un qualche appiglio per stabilire un minimo di continuità tra eventi successivi e per sistemarli all’interno di un quadro coeso. C’è da chiedersi se il passaggio rapido, con lo stacco del solo suono della classica campanella, da un’ora di italiano a una di matematica o fisica sia in grado di fornire questo appiglio e di fare in modo che lo studente riesca a dare quel minimo senso di continuità alla mattinata in classe42.

E poco più avanti:
[…] in questo orario non c’è alternanza di ritmo, lento veloce, un ritmo variato in funzione dei contenuti, dei metodi, delle attività e dei bisogni degli studenti, per cui l’asserito e tante volte sbandierato spostamento del baricentro della scuola dai processi d’insegnamento a quelli di apprendimento sembra trovare qui un limite insormontabile, dato che l’orario scolastico, più che sulla base dei tempi d’apprendimento, è costruito in modo da rispondere, soprattutto, alle esigenze dei tempi d’insegnamento e all’organizzazione complessiva dell’istituto43
.
Notiamo subito, in poche righe, un riferimento plurimo a momenti di storia della cultura distanti e diversi, per arrivare a isolare un’analisi di carattere percettivo, strumentalmente applicata all’organizzazione scolastica, mantenendo peraltro il linguaggio di tipo metaforico: il tempo scuola dovrebbe essere una sorta di «tempo musicale», dove ogni disciplina ha il suo ritmo. Lo studente non può passare rapidamente da un tempo all’altro se, per farlo, ha come riferimento il suono meccanico della campanella scandito secondo gli inflessibili tempi oggettivi della fisica. L’abituarsi a questa scansione impiegatizia (utile solo ai fini organizzativi) ne ridurrebbe il potenziale cognitivo in modo irreparabile, non ponendolo in grado, un domani, di applicare competenze plurime in ambito lavorativo (pensato forse anche questo come un ambiente in cui il tempo assume un carattere di danza, dalle diverse tensioni). Questa sarebbe un’inferenza necessitante, che gli insegnanti (dalla Mastrocola in giù, non riuscirebbero a capire); un’argomentazione scientifica che si opporrebbe allo spontaneismo docente!
Un’ulteriore perplessità in merito alle relazioni causali proposte sorge alla lettura del capitolo V, dove la relazione tra il “prospetto KahnemannTuersky” e la necessità di riforma della scuola appare esclusivamente pretestuosa44; nel capitolo VI45, a partire da considerazioni sui neuroni canonici e neuroni specchio – e pur ammettendo che tali teorie godono di uno statuto ipotetico46 – ne deriva la conseguenza che ne sarebbe distrutta l’intera architettura cognitiva su cui si regge la scuola oggi in Italia.
In altre parole, sembra di trovarci di fronte ad un’abile costruzione retorica, che utilizza espressioni pseudoscientifiche (almeno le relazioni causali che vengono suggerite) per denunciare un presunto dilettantismo di chi sperimenta quotidianamente la complessità del lavoro didattico, che non può ridursi all’applicazione certa e garantita di una teoria.
Il linguaggio della pedagogia associa spesso in frullati turbinosi materiali letterari, tecniche desunte dalle più varie scienze, gerghi massmediatici, anglismi di vario tipo desunti da trattati di pedagogia e di psicologia, formule politico-burocratiche: i termini più diversi assumono nell’argomentazione pedagogica un’aura tecnico-scientifica che spesso copre ed esalta riferimenti a realtà piuttosto semplici e banali. Ecco ad esempio un gran parlare di “ottimizzazione” dell’apprendimento e un vario schierarsi di funzioni quali “amplificazione, implementazione, distanziamento, globalizzazione, individualizzazione”. A leggere molti testi di questo tipo si ha proprio l’impressione di essere presi nella rete di una ovvietà che si presenta come complessità […]47
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Proviamo però a superare questa contrapposizione alle teorie pedagogiste sul piano puramente teorico, dove pure dimostrano la loro totale insufficienza, per valutare nel concreto la pratica suggerita, per stabilire una sua eventuale efficacia. Sempre Campione e Tagliagambe ritengono sia il modo di concepire l’istruzione da loro criticato a produrre gli storici problemi della scuola italiana, quale un decisa dispersività scolastica e, soprattutto, a spiegare i risultati deludenti della scuola in Italia nei confronti internazionali, sulla base delle note indagini OCSE-PISA. In realtà i risultati di queste indagini, se esaminati con attenzione, propongono una valutazione differenziata della scuola italiana, replicando in ambito formativo le diverse opportunità tra il Nord e il Sud del paese. Buona parte delle scuole del Nord Italia ottengono risultati non distanti da quelli delle nazioni scandinave, ai vertici di questa indagine. Inoltre i dati complessivi dell’Italia sono ulteriormente abbassati dai risultati degli istituti privati, la cui resa è molto al di sotto di quella di tutti gli altri paesi, persino di quelli a più tarda alfabetizzazione. In modo sorprendente, i due autori cercano di sottovalutare questo dato che scardinerebbe la loro impostazione teorica («Questi dati, pochissimo citati, riducono l’effetto consolatorio che qualche commentatore ha cercato di trovare nell’articolazione territoriale della performance degli studenti, che sembravano evidenziare la presenza di aree di qualità, soprattutto per quanto riguarda il Nordest e il Nordovest»48); questi fondamentali dati statistici vengono innanzitutto riportati con il verbo all’imperfetto («sembravano») come se non fossero dati ma ipotesi, in secondo luogo si dà un’impostazione retorica all’argomentazione in modo da non doverla discutere nel merito. Che i dati siano reali lo si comprende subito dopo: «Naturalmente questo non significa che, per quanto riguarda l’Italia, il tema della differenza tra i diversi territori non abbia un’effettiva rilevanza. Certamente i dati del Centronord estrapolati come tali darebbero un “piazzamento”ben diverso da quello modestissimo che l’Italia nel suo complesso raggiunge»49. Se ne potrebbe dedurre, quindi, che il difetto non sta tanto nell’organizzazione della scuola italiana, o nell’articolazione dell’insegnamento che vi è praticata; questo, in contesti definiti, ottiene risultati più che ragguardevoli. Invece, come vedremo, i due autori ne teorizzano una distruzione radicale, eliminandola non solo dove non dà risultati soddisfacenti, ma anche laddove essa permette di raggiungere standard di assoluto rilievo. Un vero salto nel buio, sulla base di argomentazioni scientifiche dove il nesso tra la teoria e la pratica didattica – come abbiamo mostrato poc’anzi – è tutt’altro che scontato. Ma i due se la cavano con una battuta che aggira il problema senza discuterlo: «Ma l’Italia è, appunto, “nel suo complesso” e non una porzione da scegliere di volta in volta a seconda delle tesi da dimostrare»50; si tratta, come si può constatare, di cattiva retorica, dove sono gli autori a scegliere la prospettiva che più fa a loro comodo. È in fondo un classico caso in cui, già all’inizio della ricerca, si vogliono ignorare e non discutere i dati falsificanti. Ancora illuminante a proposito Ferroni: L’osservatore esterno resta davvero sorpreso dal fatto che questa pedagogia si pone ormai quasi come l’unica scienza umana che evita di sottoporsi a critica, che si sottrae al dubbio epistemologico che insidia oggi ogni sapere: se le scienze (anche quelle naturali) e le arti vivono sempre in una più lacerata e lacerante dimensione autocritica e contraddittoria, si proiettano in una conoscenza “sospesa”, tanto più rigorosa quanto più sospesa […], la pedagogia sembra ancora del tutto presa da un empito imperialistico, da una spinta interna a proporsi trionfalmente come la disciplina guida del presente e del futuro, a regolare tutti i modi di trasmissione e di comunicazione del sapere e della cultura51.


7. Guerra alle discipline

La preoccupazione principale di Campione e Tagliagambe è quella, totalmente condivisibile, che la comunicazione didattica venga il più possibile individualizzata. Si tratta di un problema pedagogico ovvio, che nella scuola italiana, mano a mano che, sul piano storico, sono caduti i presupposti per una esagerata selettività, è sempre stato oggetto di riflessione da parte dei docenti. Si tratta di un obiettivo al contempo irrinunciabile ed estremamente difficile da raggiungere; non è giusto sacrificare la logica del gruppo classe, ma nello stesso tempo bisogna permettere a tutte le individualità dello stesso di esprimersi al meglio, con particolare riguardo – che va di volta in volta esaminato in modo appropriato – alle personalità più deboli, dal punto di vista sia dell’impegno di studio, sia di quello relativo ai rapporti con i propri compagni. Senza l’attenzione individualizzante non sono possibili le strategie di recupero, l’insieme di quelle pratiche finalizzate ad assistere lo studente che non riesce a raggiungere un profitto soddisfacente, a partire dalle personali difficoltà. Di per sé l’enunciazione dei due autori è piuttosto generica, laddove si prospetta «un’effettiva personalizzazione dei processi di insegnamento/apprendimento, che sappia tenere nel debito conto la domanda sociale e dare l’opportuno risalto alla funzione dell’utenza e della società civile in tutte le sue componenti e articolazioni»52. I docenti attuali, manco a dirlo, «non devono solo ripetere stancamente lezioni sempre uguali ma verificare con i ragazzi il raggiungimento degli standard educativi concordemente definiti, per gli allievi che, partendo da sé e dalle proprie esigenze anziché da un astratto dover sapere, possono sviluppare percorsi per cui sono motivati e disponibili […]»53; va da sé che alcuni termini usati («stancamente») sono caricaturali, offensivi in riferimento ai docenti, e di nessuna credibilità. Per il resto, il docente verifica ogni giorno, proprio a partire dai contenuti comunicati, gli obiettivi realizzati da ciascun allievo. Non provata, e francamente difficile da prendere sul serio, e la trasformazione degli alunni in soggetti motivati e disponibili ad onta del rifiuto (tutto da provare, del resto) che proverebbero oggi verso i loro docenti. Ben ha scritto a proposito Ferroni:
per esso [il pedagogismo] la conoscenza è sempre, in qualsiasi momento, proiezione verso uno sviluppo ottimale, verso un nuoto tipo di scambio tra docente e discente, verso una trasformazione dei modi di acquisizione del sapere, verso un’identificazione tra sapere e felicità. La società della pedagogia è spesso una società del tutto ideale, in cui le regole e le pratiche definite dalla scienza sembrano magicamente poter dar luogo a un rapporto trasparente tra le generazioni e a una gratificante acquisizione del sapere. […] In questa trasparenza il valore essenziale non è mai quello dell’acquisizione dei saperi, non si identifica mai con i punti di vista interni delle discipline da insegnare, ma si risolve nel benessere dell’allievo, o meglio in una proiezione ideale di questo benessere, di ciò che secondo l’ideologia del pedagogista viene identificato come benessere: e in ogni caso esso si basa sulla comprensione, sulla disponibilità del docente ad acquisire il punto di vista dell’allievo, di far sì che lo stesso corpo disciplinare si adegui alle richieste, ai desideri, alle tensioni, alle difficoltà dell’allievo54.

La prosa più avanti si carica addirittura di giustificate tonalità ironiche: «Il configurarsi di questa situazione può dare agli esperti una tale ebbrezza, un tale compiacimento auto gratificante, da suscitare ottimistiche e trionfali profezie, che per il normale lettore possono risultare addirittura esilaranti»55. Senza pietà prosegue l’autore:
E poi un proliferare di entusiastiche metafore in cui si afferma l’aspirazione totalizzante di questa scienza del fare-scuola, […] per sciorinarci tutto il suo bagaglio di parole d’ordine, dalla riprovazione della vecchia “istruzione scolastica di marca trasmissiva-riproduttiva-nozionistica: in una parola “pappagallesca”, alle aperture verso un “ecosistema disciplinare”, costruito con il “gioco del ‘meccano’” della trasversalità curricolare”, con “tre strategie didattiche: multidisciplinare, interdisciplinare, transidsciplinare”; e poi programmazioni, collegialità, scuola dei laboratori, aule didattiche decentrate, alfabetieri ecologici, contratti cognitivi e pacchetti orari […] ecc. Il linguaggio della pedagogia associa spesso in frullati turbinosi materiali letterari, terminologie tecniche desunte dalle più varie scienze, anglismi di vario tipo desunti da trattati di pedagogia e di psicologia, formule politico burocratiche: i termini più diversi spesso assumono nell’argomentazione pedagogica un’aura tecnico-scientifica, che spesso copre ed esalta riferimenti a realtà piuttosto semplici e banali56.

È interessante notare come Ferroni faccia seguire questa sua analisi dopo avere dedicato pagine del suo studio alla tradizione della “pedagogia democratica”, ovvero quel permissivismo formativo che ebbe la sua fortuna alla fine degli anni Sessanta e che in parte è alla base del parziale fallimento della riforma sulla scuola media unica. Totalmente l’opposto di quanto sostengono Campione e Tagliagambe, quando affermano, contraddicendo ogni evidenza, che alla base di tale decadenza delle scuole medie vi è «la mancanza […] di un decente supporto in termini di preparazione psicopedagogica per i docenti, la scelta pigra della discorsività dei curriculi e soprattutto la mancata esplicitazione della radicale rottura rispetto all’impianto gentiliano della vecchia scuola media»57; non un eccesso di teoria pedagogista, come suggerisce Ferroni, ma un deficit culturale degli insegnanti, che ne disconoscono sostanzialmente i principi.
Questo legame tra il pedagogismo degli ultimi venti anni e la tradizione della “pedagogia democratica”, così bene evidenziata da Ferroni58 comporta ciò che abbiamo già constatato più volte, ovvero un’immagine caricaturale della scuola attuale, addirittura da alcuni ritenuta – contro ogni evidenza empirica – fondata sul criterio della selettività: «Oggi la scuola, infatti, non ha più il compito di selezionare le future classi dirigenziali, bensì quello di fornire a tutti i soggetti, non uno di meno, gli strumenti necessari per l’esercizio di una cittadinanza attiva e consapevole»; e ancora: «la scuola, da agenzia della selezione è diventata agenzia per la promozione dell’apprendimento diffuso»; ciò comporta il superamento della «programmazione» che pure «in altri momenti storici, in cui diversi erano i bisogni sociali e formativi, abbia dimostrato comunque di poter assicurare alle scuole risultati soddisfacenti in termini di istruzione»59. Parlare dell’attuale organizzazione scolastica come un’istituzione che ha per fine la selettività vuol dire ignorare tutto il dibattito, nonché la pratica professionale effettiva – e aggiungiamo anche gli interventi legislativi –, che hanno coinvolto i docenti negli ultimi quarant’anni. Diventa in questo modo molto più agevole, sul piano retorico, far apparire le proprie formulazioni, in realtà nient’affatto nuove, anche se riproposte con linguaggio tecnocratico, decisamente più avanzate.
Valutiamo nel concreto il motivo per cui tutta questa serie di aleatori obiettivi richiederebbero un sacrificio dello studio dedicato alle singole discipline; la motivazione di fondo, in genere esplicitata all’inizio di ogni trattato di questo genere, è che la società post fordista richiede un tale nuovo bagaglio di abilità e competenze, che non può essere più trasmesso dalla scuola tradizionale. Questo ragionamento presenta diversi punti deboli, che dobbiamo esaminare separatamente: in primo luogo dà per scontata la definizione di «competenza» che invece, abbiamo detto, rimane tutt’ora confusa60; in secondo luogo bisogna motivare le ragioni per cui la conoscenza disciplinare non è in grado di raggiungere tali competenze; in ultimo bisogna valutare (nel tentativo che ogni studioso dovrebbe fare di falsificare la propria teoria) se le esperienze attualmente a nostra disposizione incoraggino queste pretese teoriche.
Per i due autori è un fatto indiscusso: «Certo è difficile spingersi molto avanti nella personalizzazione se si insegna una specifica disciplina. Molto più facile invece in un insegnamento unitario che può anche prevedere professionalità diverse e complementari»61. Affermazione ambigua, laddove già oggi il soggetto centrale nella comunicazione didattica, in sede sia di programmazione sia di valutazione, è il consiglio di classe, dove proprio deve giungere a sintesi unitaria, sul piano formativo, il lavoro svolto dai singoli docenti in riferimento alla loro particolare specializzazione. Come si nota la strategia gioca, in modo volutamente ambiguo, nel mettere in contrasto la trasmissione del sapere disciplinare con la giusta esigenza, che in ambito didattico si è andata via via imponendo con la scuola di massa (anche se può tranquillamente affermarsi che ha incontrato più di una resistenza tra molti docenti, soprattutto di passate generazioni), di individualizzare il più possibile il rapporto tra docente e alunno, pur all’interno del gruppo classe, per permettere un successo formativo soprattutto a chi trova delle difficoltà, oggettive ma superabili, nel confronto con le discipline. Come provano i sistemi scolastici le cui nazioni più investono risorse nell’istruzione, è la capacità di offrire una didattica di recupero all’altezza che rende credibile e possibile il recupero dello studente e il potenziarsi delle sue capacità cognitive. Occorrerebbe che la scuola potesse rimanere aperta l’intera giornata (come in Svezia, ad esempio), che gli studenti potessero affrontare il loro studio con personale alternativo preposto proprio a questa funzione didattica, in modo da isolare nel modo più esatto, e conseguentemente affrontarle, le problematiche dello studente. Invece il pedagogismo, sulla base di vacue argomentazioni di tipo cognitivistico, propone di abolire sostanzialmente i contenuti disciplinari, con esclusione di alcuni argomenti forti, isolati da qualsiasi contesto, i quali non possiederebbero un valore culturale in sé, ma avrebbero la funzione di facilitare l’acquisizione delle competenze, secondo però quell’ambigua definizione su cui ci siamo soffermati sopra. In realtà in questo modo il successo scolastico si raggiungerebbe non per il fatto di avere risolto le problematiche cognitive del discente, quanto per avergli eliminato le difficoltà. Un’impostazione di corto respiro, i cui risultati, nell’arco di qualche anno, sarebbero probabilmente disastrosi, com’è già accaduto per alcune sperimentazioni impostate negli anni 60 sugli stessi criteri. Proviamo a leggere le seguenti affermazioni di Franco Cambi, e domandiamoci per quale motivi tali obiettivi individualizzanti presuppongano la riduzione del sapere disciplinare; ma chiediamoci anche se la funzione docente (ricordiamoci che l’insegnamento nelle scuole secondarie superiori presuppone la conoscenza di contenuti con cui lo studente è per la prima volta a contatto e, di conseguenza, la problematica di ordine cognitivo è ben presente all’insegnante anche quando si concentra sulle nozioni disciplinari), non comprenda già in sé da sempre tali obiettivi, senza bisogno che li teorizzassero i pedagogisti:
L’elasticità mentale vale come capacità di dislocarsi su registri diversi del sapere, su fronti disomogenei, vivendone il conflitto e la reciproca tensione, anche e soprattutto la dialettica. Elasticità è anche criticità e meta criticità. […] Elasticità mentale è pensiero divergente, è pluralismo, è dialettica del pensiero. […] Ma significa anche assumere dentro uno o più saperi un’ottica critica, che ne ridiscuta i presupposti e i confini, facendosi meta riflessione. […] La conoscenza personale (come gusto, come elasticità, come allargamento) produce attitudini a fare domande, a passare i confini, a stabilire relazioni, in modo che l’universo dei saperi non sia mai in quiete, bensì in cammino, come di fatto lo è da sempre e come lo è, sempre più, nel tempo attuale62.

Non si capisce perché siano i programmi a dover essere messi in discussione, anche se qualcuno ha tentato di spiegarlo, utilizzando strumentalmente il problema della dispersione scolastica, che ha ben altre cause:
Il “famigerato” programma ministeriale era un documento normativo in cui venivano fissati i contenuti disciplinari da trattare e gli obiettivi didattici da raggiungere in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale; da esso dipendeva la natura unitaria della formazione scolastica. […] Questo bastava per sostenere che la scuola pubblica era equa ed egualitaria, poiché offriva a tutti gli alunni le medesime opportunità di crescita e di sviluppo, garantendo a tutti la stessa offerta formativa. Purtroppo la storia degli abbandoni scolastici che hanno accompagnato, e accompagnano tuttora, il nostro sistema d’istruzione, soprattutto per la fascia degli studi secondari, hanno messo in luce la scarsa efficacia ed equità di tale principio, per il semplice fatto che i background socio-culturali e i livelli iniziali di apprendimento dei ragazzi che frequentano le scuole non sono mai gli stessi, anzi sono il più delle volte assai diversificati fra loro, e pertanto se l’offerta formativa delle istituzioni scolastiche rimane una e una soltanto, difficilmente potrà essere di utilità per coloro che presentano già in partenza difficoltà e ritardi nell’apprendimento63.

Il punto di partenza di Campione e Tagliagambe è invece un documento redatto dalla Commissione Berlinguer del 1997: «si deve sviluppare una nuova modalità di organizzazione e stesura dei programmi che preveda l’indicazione dei traguardi irrinunciabili e una serie succinta di tematiche portanti. È necessario operare un forte alleggerimento dei contenuti disciplinari»64. Nella conclusione del loro lavoro, Campione e Tagliagambe presentano un nuovo elenco delle competenze; è un momento importante della loro argomentazione, poiché le competenze, presentate all’inizio in modo nebuloso, sono andate precisandosi, secondo l’intenzione degli autori, mano a mano che si procedeva ad esporre la nuova presunta «rivoluzione cognitiva» che si sarebbe realizzata negli ultimi anni. L’elenco riportato delle competenze65 sorprende per ingenuità, nel senso che si tratta di obiettivi da sempre presi in considerazione dal lavoro didattico66, previsti in ogni programmazione così come in ogni relazione finale del lavoro di un docente. Semmai il problema è stabilire se una diminuzione del carico orario possa favorire la loro acquisizione, e quindi se non sia il caso di ripensare i programmi alla luce di quest’esigenza.
Per discuterlo, è ovvio, non c’è bisogno di postulare alcuna rivoluzione cognitiva.
Quanto subito dopo esposto dagli autori, altro non descrive che la normale attività di qualsiasi consiglio di classe degno di questo nome:
L’acquisizione e la padronanza di ciascuna di queste competenze richiedono il contributo di più discipline, e, reciprocamente, una singola disciplina contribuisce all’acquisizione di più competenze: l’insegnamento di ciascuna disciplina deve quindi essere diretto all’assimilazione del maggior numero possibile di queste ultime. Tutte le discipline insegnate a scuola hanno allora un ruolo specifico in questo processo di assimilazione: ma solo insieme, cioè attraverso il loro inserimento in un quadro organico e coerente, con obiettivi fissati sulla base di un progetto elaborato con piena consapevolezza, consentono uno sviluppo equilibrato degli allievi67.

Da quanto detto, sembrerebbe utile una nuova formulazione dei programmi, più attenta a scansioni coerenti e parallele sul piano temporale, capace dunque di favorire una corretta pluridisciplinarietà. Sempre però a partire dalla valorizzazione delle discipline, le uniche in grado di comunicare contenuti qualificanti in grado di realizzare il confronto con l’ignoto, con il non conosciuto e, quindi, di potenziare le eventuali competenze68. I due autori, infatti, approfittano di questa elementare constatazione non per valorizzare la collegialità del consiglio di classe, favorendo lavori di progetto disciplinare o la pratica delle compresenze69, ma sottolineando l’impreparazione a riguardo del singolo docente il quale, insegnando una sola disciplina, non può per principio favorire queste competenze trasversali. Come vedremo, questa strumentale interpretazione della pluridisciplinarietà è la base per considerare marginale il ruolo del docente quale esperto nella propria disciplina. Ma è anche un modo – e qui l’impostazione ideologica degli Autori si fa palese – per difendere, dei recenti progetti di riforma in Italia, il fatto che avvengano a costo zero, cioè che non vi sia impegno di risorse aggiuntive, come, a quanto pare inspiegabilmente, accade negli altri paesi d’Europa. Questa mutazione metodologica infatti, provocherebbe quel miracolo – sul quale abbiamo visto ironizzava giustamente Ferroni – di rendere improvvisamente lieto di apprendere l’alunno scarsamente motivato nei confronti degli argomenti di studio. Per cui non servono più soldi, basta solo eliminare la vecchia pedanteria legata alle discipline tradizionali: «Occorre che si traduca rapidamente in un generale cambio di mentalità relativamente al ruolo del sistema educativo. La riforma di quest’ultimo, infatti, e la sua centralità non possono ridursi né al tentativo di avere più risorse per fare meglio quanto è stato fatto male, né all’ennesimo sforzo di produrre un provvedimento legislativo che modifichi l’assetto del sistema ridisegnandolo sulla carta»70.


8. Ignorare le falsificazioni

Ma quali dati possiedono i due autori per affermare con sicurezza che la loro teoria – perché solo di quello si tratta –, con tutti i limiti inferenziali che abbiamo già sottolineato, applicata alla didattica, produrrebbe quei risultati auspicati? In realtà nel testo, più che l’elenco di qualche progetto assolutamente non documentato nei risultati, nient’altro si trova. Tanto più che si tratta di progetti che si affiancano ai curricoli tradizionali, il cui beneficio dunque sarebbe tutto da verificare se li sostituissero totalmente. Abbiamo notato, del resto, come Campione e Tagliagambe evitino abilmente quei dati che potrebbero falsificare le loro osservazioni.
È possibile invece sollevare legittime perplessità, sulla base di evidenze empiriche che contestano le qualità di questa rivoluzione pedagogica. Il punto di partenza è la continuità – rilevata come abbiamo detto da Ferroni – con la tradizione della pedagogia democratica; essa era caratterizzata da un’impostazione molto simile a quella del pedagogismo attuale, soprattutto per la contrapposizione tra la dovuta necessità di dedicarsi con approccio individuale al singolo alunno e il valore attribuito al sapere disciplinare. Ovvero, se vi è difficoltà nell’allievo ad assimilare i contenuti, sono questi che vanno sacrificati.
Sia chiaro che non si intende sottovalutare la ragione di un tale convincimento, ovvero la volontà di opporsi a una eccessiva selettività, non ragionata, che all’epoca finiva per escludere inevitabilmente dalla scuola, in una delle fasi più delicate della carriera scolastica degli alunni, i meno favoriti, contravvenendo a qualsiasi logica liberale sull’eguaglianza di opportunità. Soltanto che la soluzione a questo problema non sta nel semplificare i contenuti, ma nel riorganizzare in modo più efficace la pedagogia di recupero e il riorientamento.
Recentemente Adolfo Scotto di Luzio, in una sua magistrale storia della scuola in Italia, ha ricordato come lo scopo precipuo dell’azione pedagogica deve essere quello di «superare le fedeltà originarie del fanciullo»71; senza quest’obiettivo, non esiste reale emancipazione, la quale si realizza solo nella possibilità di partecipare al dibattito culturale72. È difficile d’altra parte contestare l’idea che la scuola, senza più finalità di ordine culturale, si limiterebbe ad assicurare la semplice riproduzione economica, preoccupandosi solo di formare un possibile soggetto-consumatore. Le discipline, per opporsi a questa possibile deriva, risultano insostituibili: «il formalismo che punta sui metodi contro i contenuti, sulle abilità contro le nozioni, si trova paradossalmente a fallire nell’acquisizione delle capacità metodologiche»73.
Sembra dunque, secondo tali autorevoli opinioni, che sia stata proprio una politica scolastica improntata ai criteri del pedagogismo, ad avere causato alcuni dei problemi più vistosi della scuola di massa. Questa ideologia pedagogica, d’altronde, continua a svilupparsi imperterrita contro tutti i fallimenti, rifiutando qualsiasi ipotesi di falsificazione:
Queste critiche diverse ma convergenti verso un’ortodossia pedagogica che domina, quasi incontrastata, in tutti i paesi avanzati non inquietano comunque gran che l’orizzonte disciplinare, accademico e istituzionale della pedagogia, che sembra spesso sfuggire alla “prova della realtà”, al confronto con il mondo esterno, con le mutazioni che in esso sono avvenute negli ultimi decenni, con la nuova sostanza antropologica delle giovani generazioni, con le derive che costituiscono la comunicazione culturale, con la stessa caduta del prestigio culturale della scuola74.

Le argomentazioni di Ferroni rappresentano, a nostro parere, un punto fermo dal punto di vista teoretico, e nessuna teoria pedagogista è riuscita nel merito a scalfirle; esse non sono affatto fondate su un approccio educativo «spontaneo» (accusa inconsistente e, come abbiamo visto, sovente ripetuta dai pedagogisti), ma fanno riferimento a una letteratura scientifica e critica che su questi temi – e sui loro catastrofici risultati – ha già potuto confrontarsi; in particolare alcuni studi sull’effetto dei processi educativi «formalizzanti» realizzati negli Stati Uniti. Al di là dei risultati di questi studi, sui quali tra poco torneremo, tali valutazioni smentiscono l’idea che ci troviamo di fronte a una «rivoluzione scientifica» ormai affermatasi e in quanto tale incontestabile, e dimostrano come nello stesso ambito pedagogico le posizioni siano numerose e, dal punto di vista delle argomentazioni probanti, nonché delle verifiche empiriche, diano maggiore affidabilità le valutazioni che contestano le teorie pedagogiste.
Già da tempo, negli Stati Uniti, si è proposto un superamento della trasmissione tradizionale del sapere che ha condotto a coniare l’espressione «fine dell’istruzione»75; Ferroni si riferisce in particolare allo studio di Eric Donald Hirsch jr., The Schools we need, che rappresenta una critica anticipata alle affermazioni di Tagliagambe e Campioni. I due autori, attraverso un uso piuttosto comodo dei dati (come abbiamo notato a proposito della considerazione dei risultati OCSE PISA), affermano che i principali problemi della scuola italiana contemporanea, in particolare quello della dispersività scolastica (anche in questo caso analizzata senza alcun confronto territoriale, ma come fenomeno generico), deriverebbe dalla pesantezza e dall’inutile difficoltà dei programmi attuali e dalle modalità consuete di comunicazione didattica.
Snellire i programmi, ridurre al minimo le discipline e i contenuti, trovare modalità di comunicazione accattivanti non solo riuscirebbe miracolosamente a motivare studenti diffidenti verso l’impegno di studio ma soprattutto – ed è risultato di ben maggiore valore sul piano sociale – realizzerebbe una vera eguaglianza di opportunità, con tutti ben più ignoranti ma – non si sa per quale miracolo – decisamente più «competenti» e dunque più adatti all’attuale mercato del lavoro.
Come invece riferisce Ferroni, lo studio di Hirsch jr. «ha messo in luce tutta la responsabilità delle teorie pedagogiche democratiche e progressiste nel generale collasso dell’istruzione, nella perdita di quei saperi culturali di base il cui possesso è sola garanzia di una autentica eguaglianza fra i cittadini: Hirsch mette in evidenza il legame tra il successo e la diffusione di quelle teorie (con tutti i miti riformistici da essa scaturiti), e l’approfondirsi, sempre più evidente nella società americana, dell’ingiustizia e dell’ineguaglianza sociale»76. Ma quali sarebbero gli errori metodologici compiuti dal pedagogismo, che conducono ad un’eterogenesi dei fini così lampante? Essi fondano le loro teorie su due concetti pseudoscientifici, il «formalismo» (ovvero l’insistere sul metodo a prescindere dalle nozioni, la cui trasmissione viene interpretata come inutile vessazione verso lo studente) e il «naturalismo» (che sarebbe poi la radicalizzazione della giusta esigenza di individualizzare la comunicazione didattica, la quale deve però agire come se fosse il soddisfacimento di un desiderio naturale del discente, che assorbe il sapere in quanto soddisfa un suo desiderio e un suo piacere, ricacciando come inutile ogni tentativo di costringere la propria volontà a soffermarsi con fatica sull’apprendimento di saperi specifici). Ferroni nota giustamente l’assurdità di valorizzare unicamente dei contenitori (che presi in sé rappresentano delle giuste esigenze), ignorando ciò che contengono, la concretezza dei saperi che soli possono condurre un individuo ad emanciparsi. Ma non si tratta solo di una contraddizione formale, bensì, come rivelano, sulla base di dati probanti, gli studi di Shrimps jr., di una contraddizione foriera di gravi conseguenze sul piano formativo. Difatti, senza una puntuale conoscenza nozionistica è impossibile acquisire delle abilità (o competenze) metodologiche: «così il formalismo che punta sui metodi contro i contenuti, sulla abilità contro le nozioni, si trova paradossalmente a fallire proprio nell’acquisizione delle capacità metodologiche»77.
Vorrei far notare la convergenza, sul piano della teoria didattica, con quanto compare nel testo già citato di Scotto di Luzio, quando identifica l’autentica emancipazione con lo sviluppare le «infedeltà del fanciullo», ovvero costringere l’alunno a confrontarsi, anche attraverso lo sforzo di assimilazione di quanto non conosciuto, con ciò che non gli è famigliare, verso il quale può provare diffidenza, in grado però di fargli compiere un salto di qualità nella preparazione, superando i limiti linguistici, di ristrettezza culturale della propria, pur non negativa, formazione78. Queste considerazioni non negano la necessità di individualizzare il processo di apprendimento, di individuare strategie comunicative di volta in volta modificabili a seconda delle situazione vissuta con il gruppo classe o con il singolo alunno; ma sempre tenendo presente la centralità disciplinare, poiché è solo il sapere disciplinare affrontato con merito, continuità cronologica e specificità contenutistica che, oltre ad offrire un bagaglio culturale indispensabile, produce la formazione di abilità di carattere formale e metodologico.


9. Le nuove tecnologie sono contro le discipline?

La riflessione appena svolta permette di chiarire come deve essere affrontata l’importante questione dell’utilizzo degli strumenti informatici e multimediali; secondo le linee più pronunciate di pedagogismo, essi possiedono un valore indipendentemente dai contenuti che veicolano e, in quanto apprezzati dagli studenti, devono diventare il principale, se non l’unico, strumento di comunicazione. Solo attraverso le nuove tecnologie si potrà stimolare l’interesse dei discenti, altrimenti destinato – in modo più che giustificato – a diffidare di tutti i contenuti in diverso modo divulgati.
Va da sé che la possibilità di utilizzare questi strumenti rappresenta un’occasione epocale per rendere più ricca la trasmissione del sapere pluridisciplinare, soprattutto grazie all’interattività, alla possibilità di collegarsi a siti esterni, di riprodurre in modo tecnicamente fruttuoso immagini, di fare riferimenti a materiali video e documentari facendoli interagire con la spiegazione tradizionale (senza più dividere la lezione frontale, da quella in cui la classe è costretta a trasferirsi in aula video). La competenza che gli insegnanti devono acquisire rispetto a queste tecnologie, sul piano della preparazione specifica oltre che nell’applicazione nel loro specifico ambito disciplinare, deve diventare un bagaglio pressoché scontato.
Nulla a che vedere, però, con l’idolatria fine a se stessa della tecnologia informatica auspicata dai pedagogisti, e giustamente contestata da Ferroni: «Le svariate e bislacche, ingenue o sofisticate utopie alimentate dal diffondersi dell’informatica e delle reti, sottoscritte spesso in modo indiscriminato dalla cultura di sinistra, sono fatte proprie in modo ancor più acritico dalla pedagogia “progressista”, certi esponenti della quale sembrano riconoscere rivoluzioni epistemologiche, soli dell’avvenire, nuovi felici possibilità esistenziali, perfino dalle applicazioni più pedestri ed alienanti dell’informatica stessa»79. Il riferimento che ha in mente Ferroni viene precisato in nota, e si tratta di una boutade, al limite del grottesco, di Roberto Maragliano il quale, in un’intervista, dopo avere difeso a proposito dei videogames quanto abbiamo appena letto criticato da Ferroni, aggiunge: «Lei preferisce che un pilota d’aereo abbia fatto videogiochi o che abbia letto la Divina Commedia80?» Ferroni fa seguire a questa citazione un commento dal tono sconsolato, quasi allargasse le braccia di fronte a tanta banalità. A mio parere è necessario intervenire un po’ più nel merito, per svelare una retorica che si ammanta di scientificità ma che altro non è che superficialità. Sia nelle considerazioni di Maragliano, sia in quelle di Bertagna ricordate all’inizio di questo saggio, possiamo notare un tono d’emergenza, dall’indubbio effetto retorico, che fa del problema della didattica una questione relativa alla sicurezza. Se Bertagna propone come esempio addirittura la tragedia dell’11 settembre, Maragliano si preoccupa dell’incolumità fisica di chi viaggia in aereo; a tali tragedie non sarebbe estranea l’errata impostazione della didattica tradizionale, a favore della nuova tecnica di sviluppo delle competenze. Sulla debolezza argomentativa a proposito dei vigili del fuoco di New York ci siamo già espressi; per quanto riguarda l’esempio di Maragliano, è bene andare più in profondità. Posto che le scuole piloti debbano dare la massima garanzia di affidabilità in merito agli allievi che escono dai loro istituti, è molto dubbio che una preparazione culturale di ampio livello possa nuocere alla qualità della professione. Potrei pensare che un pilota che legge Dante, e che abbia una sensibilità culturale superiore alle media, possegga un maggiore senso di responsabilità rispetto ai rischi connessi al proprio mestiere; mentre, per esempio, il pilota americano cha ha causato la tragedia del Cermis ha giocato con la vita di individui inermi, sacrificandola, come se si trovasse in un videogame e non nella realtà effettiva. C’è da aspettarsi maggiore propensione al rischio gratuito in chi frequenta i videogames piuttosto in chi legge Dante.
Conviene allora ribadire il valore della cultura legata alle discipline, comprendere la loro insostituibilità e guardare con preoccupazione al tentativo odierno di renderle sostanzialmente marginali nella carriera scolastica degli alunni:
[…] si postula l’inutilità di ogni richiamo a corpi culturali globali, di bagagli di conoscenze definite, oggettive, sistematiche, e si afferma la necessità di far incentrare la scuola sulla disponibilità metodologica, sull’educazione a “costruire”: non sull’acquisizione di poteri organici, ma sull’addestramento a individuare problemi, a fare, a esplorare punti di vista su un orizzonte sperimentale rivolto a spostare continuamente i propri oggetti. Nella pratica reale queste istanze conducono a un metodologismo astratto, a una perdita di saperi e delle competenze di base, a una fluttuazione continua delle coscienze in direzione di una problematicità indeterminata, indifferente al confronto con la resistenza della realtà: ci si crede flessibili, pronti a passare da un sapere all’altro, dato che il rapporto con ogni sapere diventa puramente performativo e non sembra più necessario dominare dei campi organici, avere un diretto controllo delle loro gerarchie interne. […] E in definitiva sembra proprio che questo metodologismo e il problematicismo fluttuanti mettano in pericolo proprio i quadri mentali e conoscitivi da cui può scaturire il senso critico, l’apertura metodologica, la problematicità più autentica: cose queste che probabilmente possono svilupparsi solo a partire dal confronto e dallo scontro con oggetti solidi, dal senso della difficoltà, dalla coscienza della resistenza e dell’irriducibilità del reale81.

Lette queste affermazioni, risultano francamente poco credibili, e pure irritanti nel loro presentarsi con una presunzione scientista fuori luogo, le parole di Malinverno, secondo cui la didattica tradizionale «non solo non istruisce, nel senso che le conoscenze/competenze fatte acquisire si dimostrano sempre più spesso, superate ed inattuali, quindi inservibili, oltre che di modesto spessore, ma soprattutto non educa ad essere cittadino, persona, produttore»82.


10. Un attacco alla libertà d’insegnamento

Le critiche al pedagogismo, per quanto prese in alcuna considerazione dalla letteratura di genere, sembrano maggiormente confortate da un’analisi seria e obiettiva; e non c’è dubbio che numerose figure intellettuali hanno più volte espresso le proprie perplessità, o più spesso decisa contrarietà, nelle diverse fasi in cui, nell’ultimo quindicennio, i processi di riforma hanno tentato di prendere corpo. Eppure il mondo politico, e in particolare le personalità che hanno occupato il Ministero dell’istruzione, sono rimaste sorde a tali opinioni, hanno tirato dritto come se queste autorevoli obiezioni rappresentassero solo posizioni di retroguardia. È difficile pensare che ciò sia dovuto unicamente a profonde convinzioni di carattere personale da parte delle autorità politiche; si può ipotizzare che le riforme pedagogiste suscitino interesse per il fatto che rendono più agevole una riforma della scuola a costo zero e un ridimensionamento della classe dei docenti, sul piano economico ma anche su quello genericamente culturale. Non è un caso che la letteratura pedagogista che abbiamo citato cerchi più volte, nell’esporre le proprie considerazioni, il consenso della sponda politica. Sono proprio tali autori, del resto, a riconoscere l’omogeneità di fondo dei progetti di riforma Berlinguer e Moratti, ad onta di tutti coloro che ancora vorrebbero leggerli come contrapposti.
La rivoluzione pedagogista, implicando una riduzione drastica del sapere disciplinare, e considerando la competenza nelle singole materie un accessorio non determinante per la riuscita della relazione didattica, non si preoccupa affatto della diminuzione delle risorse impegnate nell’istruzione, ritenendo la questione organizzativa decisamente superiore. Mentre in altre nazioni tali spese sono decisamente aumentate83, soprattutto nell’ottica di un recupero reale delle condizioni di difficoltà, nel caso del pedagogismo, eliminando alla radice le difficoltà e la stessa nozione di sforzo intellettuale nel processo di studio, cade anche la necessità di ripensare in termini di efficienza la didattica di recupero (il che è impossibile senza investimenti).
Non è un caso che la maggior parte del corpo docente – e non certo per fini corporativi, come malignamente e comodamente affermano Tagliagambe e Campione84 – si opponga a tale strategia didattica; una convergenza di idee tra molti esponenti della docenza universitaria e quella delle scuole secondarie superiori che appare assai significativa. Al di là di generiche quanto retoriche prese di posizione, secondo cui nella nuova scuola la figura del docente guadagnerebbe dignità e prestigio intellettuali, laddove l’insegnante non farebbe che applicare schemi didattici, tassonomici, comunque semplificanti e prestabiliti, calatigli dall’alto e sostanzialmente concepiti da una docenza universitaria “esperta” di problematiche pedagogiche.
Si noti la contraddizione palese tra una tale proposta e la volontà, più volte ribadita, di favorire quanto più possibile un approccio individuale all’istruzione, per far venir meno le sconfitte formative. Con la motivazione che ciò che conta sono le competenze, si avrebbe una trasmissione del sapere puramente standardizzata, identica nelle varie esperienze didattiche, e l’eventuale successo formativo deriverebbe dalle modalità incredibilmente semplificate della comunicazione e non da una maggiore capacità acquisita dal discente nel corso della sua esperienza scolastica.
Sul piano professionale, questo implicherebbe un controllo dall’alto dell’attività docente, che sarebbe tenuta, in modo nient’affatto creativo e totalmente opposto a qualsiasi criterio individualizzante, ad attenersi a identici contenuti, senza più la possibilità di personalizzare (disciplinarmente, metodologicamente, didatticamente, umanamente – cioè sul piano delle relazioni interpersonali con gli alunni) i contenuti (ammesso che di contenuti si possa ancora parlare).
Gli insegnanti sarebbero in possesso di una formazione «ancora impostata secondo una tradizione cognitivistica e disciplinaristica»85, mentre «tenuto conto del fatto per cui, nella produzione e gestione di un servizio alla persona nel postmoderno, si dimostra soprattutto produttivo determinare le dimensioni e le caratteristiche delle conoscenze necessarie agli operatori, piuttosto che dedicarsi a costruire percorsi di formazione e specializzazione basati sui compiti»86. Il nuovo profilo del professore deve essere caratterizzato «dai nuovi attributi della collegialità e della corresponsabilità di scelta e decisione, mentre a livello di configurazione della missione del servizio l’elemento centrale finisce per essere rappresentato dal diritto alla riuscita»87. Si potrebbero proporre molteplici osservazioni su questa prosa francamente non attraente, dove concetti filosoficamente impegnativi vengono risolti in modo poco convincente, per affermare un’idea della didattica la cui mancanza di fondamenta epistemologiche evidenti abbiamo già sottolineato. Quel che ci preme adesso è invece sottolineare la ricaduta pratica che ci si auspica per realizzare quanto appena scritto, che equivarrebbe ad annullare qualsiasi autonomia docente (nonostante l’autore, all’inizio del suo studio, capovolga la realtà auspicando il passaggio dei docenti da una condizione «dalle caratteristiche impiegatizie» ad una «più consapevolmente connotata da tratti di professionalismo»88), necessaria per semplificare al massimo i contenuti disciplinari e ottenere quel «diritto alla riuscita» citato sopra.
Agli insegnanti, in quanto soggetti costituenti il corpo professionale […] sarebbe riconosciuto il diritto-dovere alla libertà di pianificazione e progettazione flessibile, multiforme ed assoggettabile a continue messe a punto. A tale dimensione strategica […] fanno riscontro momenti attuativi (programmazione, validazione delle azioni e verifica, controllo, valutazione dei risultati). I quali, a differenza di quanto normalmente avviene, non possono non conformarsi nella dimensione della pratica alle linee di strategia precedentemente definite. Ne deriva una determinazione della libertà della funzione docente in forma di un potere finalmente abilitato a manifestarsi come possibilità di giocarsi a livello della proposta mentre nelle fasi di lavoro con gli allievi avrebbero modo di esprimersi quei vincoli e regole di aderenza alle direttrici di quadro progettato atte a coordinare i singoli comportamenti quali azioni professionali sganciate dai condizionamenti riduttivi dell’agire soggettivistico89.

Francamente questa proposta, presentata con una notevole artificiosità retorica, sembra preludere alla fine della libertà d’insegnamento, laddove il momento più qualificante della professionalità docente, il lavoro in classe (ma è proprio questo momento che i pedagogisti hanno ansia di sottoporre a rigido controllo), diventa una meccanica applicazione di decisioni collegiali90, dettate per lo più da logiche burocratiche, quando – e i casi diventano sempre più frequenti – non imposte dall’esterno con modalità autoritarie.
Nell’ambito della scuola pubblica l’autonomia che è oggi all’ordine del giorno ha un’accezione e un valore praticamente opposti a quelli che a lungo sono stati attribuiti all’autonomia dell’insegnante, legata al principio liberale, sancito dalla Costituzione della Repubblica italiana, della libertà d’insegnamento. […] Questo desiderio di autonomia viene sottoposto “dalle esigenze intrinseche di burocratizzazione del sistema scolastico a una serie di controlli normativi e amministrativi” che lo limitano notevolmente: “autonomia e controllo burocratico sono nella scuola in tensione dialettica”91.

Adempimenti burocratici a volte «essenziali», «altri evanescenti e rivolti a spostare l’impegno del docente dal piano specifico della disciplina a quello della modalità di rapporto, della problematica pedagogica e organizzativa»92.
I corsi di aggiornamento, che costituiscono un’ampia selva con ramificazioni di vario carattere e valore, che si sviluppano continuamente per iniziativa pubblica e privata, rappresentano comunque un sostituto del tutto subalterno ed assolutamente inadeguato rispetto all’incapacità della scuola di disporre di docenti di grande preparazione e di grande cultura e di lasciare loro il tempo (anche economico) per tenersi “aggiornati” nell’unico modo davvero produttivo, cioè partecipando in prima persona alla vita e alle esperienze della propria disciplina93.

Per altri invece, non ci si può accontentare, nella selezione dei docenti, «di verificare, in ingresso, il possesso di elementi di cultura in quanto fattori strumentali all’esercizio della professione»94. Per cui i corsi d’aggiornamento dovrebbero liberare l’insegnante da questo bagaglio di cultura tradizionale per «puntare su quella dimensione della professione che potrebbe offrire garanzia sufficienti affinché i soggetti coinvolti possano disporre degli attributi di competenza idonei a sostenere il confronto con le dimensioni del cambiamento continuo, della complessità, della flessibilità e della creatività richieste e pretese dagli utenti di qualsivoglia agenzia educativa»95.


11. Proposte

Il lavoro critico fin qui svolto verso gli esiti recenti della ricerca pedagogica non sarebbe credibile se non si concludesse con argomentazioni propositive, nel tentativo di mostrare in quale modo debba riaggiornarsi la scuola (e ovviamente la funzione docente) per ottenere al meglio gli obiettivi formativi che ne costituiscono le finalità. Un aspetto che testimonia la debolezza teorica delle argomentazioni sopra riportate, nonché un’artificiosità retorica tesa a nascondere, sofisiticamente, la debolezza epistemologica delle proprie affermazioni, era il ritratto caricaturale proposto della funzione docente, già a priori negata come pura professione intellettuale, e ridotta a semplice tecnicismo, ovvero a una pratica tesa unicamente alla trasmissione di nozioni, che l’alunno dovrebbe introiettare mnemonicamente senza alcun apporto critico. Si tratta, come è facile comprendere, di una immagine simbolica, che corrisponde a una concezione dell’insegnamento ormai distante decenni dall’esperienza attuale della didattica e, tra l’altro, da sempre oggetto di critica seppure, soprattutto nell’immediato secondo dopoguerra, non sempre superata. In fondo il puro nozionismo era proprio solo della tradizione positivista dell’insegnamento, che venne messa in discussione già alla fine del XIX secolo. Indubbiamente il passaggio dalle conoscenze alle più complesse capacità rielaborative è delicato, e non sempre facile da realizzare. Si pensi alla riforma Gentile96, laddove l’aspetto critico era talmente valorizzato, nella volontà del ministro di farla finita con il nozionismo di matrice positivista, che, nella sua vacuità, finiva poi per riproporre, paradossalmente, proprio quella mnemonicità che si cercava di combattere, anche se l’alunno imparava a memoria non i fatti (e, come osservava giustamente Croce97, sarebbe stato meglio) quanto le interpretazioni degli stessi. La difficoltà del passaggio dalle conoscenze alla rielaborazione è sempre stata, quanto meno negli ultimi trent’anni, al centro del dibattito sulla didattica, ed è impegno ovvio per il docente quando si accinge a trasmettere il sapere. È evidente che l’insegnante di scuola media superiore deve essere in possesso di una professionalità ben distinta da quella del docente universitario, pur se, dal punto di vista della competenza disciplinare, dovrebbe avvicinarsi a quest’ultimo il più possibile. Ma se l’insegnamento universitario, per come è strutturato, rende per forza di cose meno intenso il legame tra docente e discente, tale relazione diventa decisiva nella scuola pre universitaria. Gli studenti universitari dovrebbero essere in possesso di discrete capacità sul piano intellettuale e di una conoscenza, seppur di carattere generale, della disciplina cui hanno scelto di dedicare un corso di studi specifici. Devono in qualche modo produrre lo sforzo di comprensione verso i contenuti in modo autonomo, contando proprio sulle capacità di studio individuale apprese nella scuola superiore. Non a caso, il rapporto personale tra docente universitario ed allievo si valorizza in modo particolare verso gli studenti migliori e maggiormente motivati, destinati a diventare un gruppo di discepoli e continuatori dell’opera del docente. Lo studente che non riesce autonomamente a seguire i corsi e lo sforzo di studio, difficilmente troverà all’interno dell’istituzione universitaria la possibilità di un recupero delle proprie capacità, e sarà costretto all’abbandono. Il problema dunque del recupero dei meno capaci è, per forza di cose, secondario per un docente universitario, ed è probabilmente giusto che sia così.
Il docente di scuola superiore (e ancora di più i colleghi dei precedenti anni di corso) non può permettersi alcun distacco verso l’allievo; direi addirittura che la più importante dimostrazione di positive capacità professionali si manifesta proprio in quei casi in cui il lavoro didattico riesce a valorizzare le capacità degli alunni più problematici, quel lavoro anonimo per cui si riesce a far sì che un alunno dal profitto didattico modesto realizzi un miglioramento delle sue capacità in modo deciso, anche se non raggiunge poi posizioni di eccellenza. Mentre infatti gli studenti particolarmente dotati, che pure possono inorgoglire il singolo docente, hanno una capacità autonoma nell’affrontare l’impegno di studio tale che potrebbe manifestarsi al meglio con qualsiasi insegnante, è proprio nel miglioramento parziale, ma decisivo per le possibilità future di competere nella vita e di affrontare in modo autonomo le difficoltà, che i docenti possono offrire un contributo significativo. Si tratta di risultati decisivi, destinati a dare un apporto fondamentale a livello sociale, producendo un miglioramento medio delle capacità intellettuali determinante per la crescita di un paese. Si tratta peraltro di un risultato non quantificabile né verificabile, che proprio perché ha ad oggetto risultati di profitto medi, non può essere più di tanto osservato, se non dagli stessi attori in gioco nel processo formativo (ed è per questo che il legame personale tra alunno e docente è così decisivo, spesso destinato a durare negli anni. E si capisce quanto sia deleteria la svalutazione gratuita del lavoro docente, di ampie ripercussioni sociali, destinata a sconvolgere questo rapporto e a creare facili alibi agli alunni); nessuna tecnica di valutazione, se non seria, ma per questo dispendiosa98, potrà mai valutarlo.
Il docente deve essere cosciente del fatto che porge dei contenuti disciplinari a chi vi accosta per la prima volta, a partire da storie scolastiche e personali differenti da individuo a individuo; deve saper quindi cogliere le difficoltà di comprensione, dovute al fatto che alcuni prerequisiti non sono a tutti presenti, trovare strategie di volta in volta differenti per permettere di superare queste difficoltà tenendo conto che la capacità di accostarsi ai contenuti è diversa tra gli individui del gruppo classe99; e quindi deve continuamente passare da un approccio collettivo a un altro individuale, modificando il proprio linguaggio di volta in volta, tenendo presenti i rapporti che si istituiscono tra gli alunni stessi, curandone la continuità, valutando strategie differenziate che tentino un recupero già nel lavoro in classe100. Inoltre bisogna fare attenzione che la distanza avvertita dall’alunno (e che deve giustamente avvertire, per cogliere nel docente una figura autorevole) verso l’insegnante non impedisca la spontaneità dell’approccio comunicativo, da perseguire in modo costante, pur nella consapevolezza della differenza dei ruoli (il che può significare anche l’esercizio dell’autorità di cui l’insegnante dispone). Non è facile rendersi conto di quanto possa essere complessa la comunicazione, poiché non sempre gli alunni intervengono spontaneamente per esprimere la propria difficoltà; la capacità di coinvolgimento, e la ricerca costante di favorire una motivazione per i contenuti proposti (anche quando questi dovessero risultare ostici), rappresenta un compito primario degli insegnanti. Se si identifica in questa pratica la funzione docente, è chiaro che il lavoro dell’insegnante non si può ridurre solo alla ricerca disciplinare (comunque fondamentale), ma comprende anche la riflessione su come comunicare a un destinatario specifico quegli stessi contenuti. Non basta il sapere, ma anche la capacità di coinvolgere rispetto a quel sapere. Ora, se si visiona qualsiasi verbale di un consiglio di classe, si vedrà come gli obiettivi formativi e disciplinari (nessun insegnante dirà mai che l’aspetto formativo è estraneo al suo dovere professionale, e che il suo lavoro è comunicare semplici nozioni) si preoccupano soprattutto di realizzare l’equilibrio tra le problematiche cui sopra si è accennato. E, di conseguenza, risulta evidente quanto sia poco credibile il ritratto docente da parte degli autori dei testi che ci è capitato di citare finora101.
Se in questi testi valutiamo quali sono gli obiettivi che, a parere dei diversi autori, la scuola dovrebbe porsi nei confronti degli studenti, constatiamo che sono quasi tutti condivisibili, ma già presenti agli insegnanti. Quindi: 1) non sono il risultato teorico di alcuna presunta rivoluzione scientifica o cognitiva; 2) non necessitano affatto della soppressione del sapere disciplinare, né tanto meno quella del gruppo classe. Campione e Tagliagambe sostengono come «il contributo principale che viene dalla scuola secondaria superiore […] consiste […] nel dare stimoli culturali, nel presentare una molteplicità di punti d’osservazione della realtà fisica, culturale e sociale del mondo, nell’accompagnare insomma la crescita degli allievi»102. Tutto molto ovvio, ma non si capisce il motivo per cui tale risultato sarebbe vanificato dalla volontà di raggiungere «obiettivi specifici di apprendimento». C’è da domandarsi come, senza questi obiettivi, si possano semmai raggiungere le finalità sopra auspicate103; come abbiamo visto, sensate controargomentazioni portano a conclusioni opposte.


12. Un esempio del pedagogista

Proviamo ad articolare questa nostra posizione proprio a partire da un’esigenza cui abbiamo appena accennato, quella di «dare stimoli culturali». Esiste una proposta, contenuta in uno degli scritti che abbiamo più volte citato, per certi versi sorprendente: l’autore intende suggerire una modalità di comunicazione didattica su un argomento considerato per gli studenti “ostico” (in questo caso Dante), proponendo modalità alternative di trasmissione delle informazioni le quali dovrebbero sollecitare in modo spontaneo l’interesse dello studente. Sono pagine interessanti, in quanto nella maggior parte degli scritti dei pedagogisti si evita il tentativo di concretizzare le proprie teorie, anche per il fatto che il contenuto disciplinare in sé non possiede, secondo quelle letture, nient’altro che un valore strumentale. In questo caso l’Autore ha il coraggio di una proposta concreta, che ritiene sia la prova di quanto il pedagogista possa essere d’aiuto all’insegnante il quale, per l’insufficiente sua preparazione pedagogica, non potrebbe autonomamente concepire nulla di simile. Ebbene, come vedremo, la proposta non solo è di una assoluta banalità, ma descrive attività già concepite dagli insegnanti proprio in ragione della strategia implicita nella loro professione. Non si può non ripensare, allora, alle affermazioni di Ferroni, che denuncia il pedagogismo quale scienza priva di contenuti specifici, sostanzialmente parassitaria, e che ha acquisito però un ruolo politico e accademico così rilevante, da condizionare l’attività dei ministeri, senza invero offrire alcun contributo significativo.
Una volta concesso che è utile leggere i classici (ovviamente non per il loro valore intrinseco, ma per le abilità che dalla loro lettura conseguono104), scatta immediatamente la trappola retorica attraverso una falsa descrizione di come si realizzerebbe la didattica della letteratura: essa sarebbe «grammaticizzata» e «retorizzata», sulla base di una tradizione che risalirebbe a Marsilio Ficino (niente meno! La storia da allora non avrebbe compiuto passi in avanti. E certo non da parte degli insegnanti che non si aggiornano!); inoltre «lega i classici a una didattica del commento, della parafrasi, della contestualizzazione, lasciando ai margini – del tutto margini – ogni didattica della ricezione, che solo oggi si afferma come variante significativa del lavorare scolasticamente sui classici, come dimostra, ad esempio, l’intervento di Pennac in Come un romanzo»105. Ma «oggi si aprono non solo spazi per una critica della didattica della letteratura, bensì anche di sperimentazione di altri approcci al testo, alla sua dimensione di universo virtuale, di esperienza possibile, che contiene proprio nella virtualità/possibilità un’alta potenzialità formativa, la capacità di parlare più direttamente al soggetto. La cura di sé è un dispositivo che si colloca su questa lunghezza d’onda e può favorire in tal senso il rinnovamento/integrazione della didattica»106. Lascerei perdere ogni commento sul linguaggio molto formale e povero di contenuti – sebbene nobilitato con l’implicito riferimento a Foucault –, già ampiamente analizzato da Ferroni; è bene però valutare l’esempio concreto che viene fornito nelle pagine successive, a proposito della Commedia, dei Promessi Sposi e di Montale. Riportiamo per intero solo le argomentazioni, brevi, di applicazione della «cura di sé» all’analisi della Commedia. Ciascuno giudichi se, al di là del consueto vocabolario pedagogista, non si suggeriscano pratiche di lettura proprie di ogni docente: la Commedia è «un testo che è arrivato alla scuola carico di filologia/conte stualizzazione/interpretazione107, reso “sacrale” e “sublime”, non personalizzabile108. Eppure109 è possibile trovare in quel testo piste capaci di renderlo più intimo, più personale, anche senza dissolverne struttura e significato, senza accogliere quell’operazione crociata (ma già, in parte, desanctisiana110) della opposizione tra poesia e struttura che isola gli episodi più vitali, più umani del testo e lascia in ombra quelli più intellettuali, pur centralissimi. Si, certo, può essere accolto anche questo suggerimento: la Commedia come “commedia umana”, come tipologia di esistenze, di profili, di esperienze, e in tal modo può parlare al sé. Ma sono possibili anche altre piste, più trasversali: il richiamo alla memoria, le figure della memoria e le esistenze filtrate attraverso la memoria (la Pia, Cacciaguida), e qui siamo a una quota poco distante dalla precedente; il tema politico, quello delle città (l’«odiosamata Firenze», in particolare) e dei suoi conflitti, delle sue passioni-fazioni, delle sconfitte, dell’esilio che è posto nel testo con grande evidenza e che può parlare (ed ha parlato) ai soggetti in ogni tempo; la fenomenologia dell’amore, che va dallo stilnovismo alla teologia dell’amore del Paradiso, che costituisce un iter di alto valore nella lettura della Commedia, ma anche per la sua ricezione. Sono solo indicazioni di massima, ma – credo – capaci di farci sentire e percorrere la stessa, ardua, Commedia “come un romanzo”»111. Ribadire che qualsiasi insegnante di letteratura approfondisce da sé i temi sopra esposti è quasi banale; ma sarebbe atteggiamento ingenuo non voler capire che cosa effettivamente intende l’autore con questo suggerimento didattico. In che modo si realizzerebbe in questo caso quel miracolo su cui, abbiamo letto, ha ironizzato Ferroni, per cui l’atteggiamento suggerito dai pedagogisti crerebbe un entusiasmo verso contenuti ostici, appassionando lo studente? Da quanto abbiamo letto, attraverso un continuo paragone fra il contenuto del testo e la propria esperienza personale, calandosi ingenuamente il lettore quale personaggio del testo e paragonando, ad esempio, le proprie esperienze e pulsioni sentimentali a quelle presenti in diverse parti dell’opera.
Ovviamente, ogni insegnante minimamente credibile fa questi riferimenti (per esempio, quando si affronta l’eros platonico in filosofia è inevitabile coinvolgere gli studenti sulla più generale tematica erotica, valutando la capacità di Platone di poter rispondere anche alle domande del nostro tempo), ma lo fa per proporre una comprensione maggiore dell’opera, non per umiliarla considerandola semplice accessorio per l’acquisizione di competenze che, come abbiamo visto, rimangono poi sulla carta. Quale cultura potrà mai formarsi se l’atteggiamento interrogativo verso i classici verte solo sulla loro possibilità di rivelarsi utili a livello personale, e non favorisce l’attenzione di uno sguardo oggettivo, meravigliato e interessato all’oggetto di studio per il suo valore universale? Dalla mia personale esperienza, ho potuto notare come il coinvolgimento degli studenti, e la loro ammirazione per i temi trattati, si realizza quando li si mette nelle condizioni di decodificare un messaggio (relativo a un testo filosofico, letterario o più generalmente estetico) che a loro risultava di difficile decifrazione; quando possono scoprire altri mondi da cui si sentono attratti e di cui constatano l’infedeltà alle loro abitudini. Non invece compiacendoli, facendo ruotare ogni contenuto intorno alle loro pratiche.
Al di là di queste preoccupazioni, ovviamente avvertite da quei docenti che si dedicano con passione alla trasmissione del sapere di cui sono in possesso, risulta francamente poco credibile che il nuovo atteggiamento suggerito all’insegnante possa ottenere quei risultati mirabolanti in merito all’acquisizione di competenze, che abbiamo descritto all’inizio del presente saggio. Semmai dimostra la mancanza di fondamenti di quelle argomentazioni.


13. La lotta contro la storia

Nella contestazione avanzata da Cambi verso la didattica letteraria corrente, è presente una considerazione che costituisce una vera e propria “perla”, e dimostra l’estrema pericolosità che il pedagogismo contiene se dovesse trovare larga applicazione nella scuola. La didattica letteraria accoglierebbe «una visione formale, istituzionale della cultura e, insieme, riassorbita attraverso il Moloch storicistico, per cui i testi significano per la storia, valgono nella storia, vanno studiati dentro la storia e attraverso la loro storicizzazione»112. Emerge da queste riflessioni uno degli aspetti più qualificanti del progetto pedagogistico: il rifiuto della storia, l’accusa alla prospettiva storica di essere quella che crea demotivazione presso gli studenti, allontanandoli da quella sfera personale in cui troverebbero le proprie motivazioni. Vorremmo concludere il presente saggio proprio su questa riflessione: che ne sarebbe della storia se si affermassero le teorie pedagogiste? Nel rispondere criticamente a questa domanda, vorremmo mostrare come non si dà acquisizione di competenze o, visto che verso tale termine siamo critici, emancipazione e crescita culturale se non entro la dimensione della storicità.
Il discorso specifico presentato da Cambi sulla storia è piuttosto scontato, nel senso che ne pone in evidenza caratteristiche metodologiche ovvie, enfatizzandole come se fossero una conquista di recente consapevolezza e, soprattutto, utilizzandole per negare la priorità della storia politica. Già l’incipit del paragrafo dedicato alla disciplina («Dentro e sullo sfondo delle lingue e delle letterature si colloca la storia»113), pone in rilievo le due caratteristiche della dimensione storica che a scuola dovrebbero essere valorizzate: da una parte quella propria della materia intesa nella sua autonomia; dall’altra il suo richiamare il contesto che produce il continuo mutamento storico delle altre discipline. Va da sé, e lo capiamo da tutto ciò che abbiamo esposto sino ad ora, che la storia nel primo senso va, per i pedagogisti, adeguatamente limitata in ragione del sacrificio richiesto alle discipline in quanto tali; ma anche la seconda accezione, presupponendo una continuità narrativa dei diversi saperi, metterebbe in crisi l’impostazione pedagogistica. Non a caso questo secondo aspetto viene considerato «più sottile e più complesso, più sfuggente anche. Il primo attiene alla teoria della storia, alla teoria della storiografia e, nella scuola, alla didattica della storia. Il secondo è un obiettivo transidisciplinare e attiene a quel lavoro inter/trans-disciplinare che nella scuola (superiore) è tutto da costruire e che si contrassegna – appunto – per la sua trasversalità»114. In realtà le premesse dell’argomentazione – come avviene spesso in questa letteratura – sembrano condivisibili:
La ricerca storica si è radicalmente trasformata negli ultimi cinquant’anni: si è articolata e si è interpretata in modo più consapevole […] offrendosi, invece, come un sapere sui generis, a forte statuto problematico incardinato sui processi di interpretazione. Si è rinnovata la nozione di tempo storico, che si è aperta a molteplici accezioni; si è maturata quella di evento storico, che si è caratterizzato sempre più al plurale (avvenimento, congiuntura, lunga durata) e ha coinvolto frontiere di divenire storico finora inesplorate (la mentalità, l’immaginario, ma anche l’erotismo, gli odori, i sentimenti, ecc.); si è articolata una contrapposizione tra spiegare e comprendere che è stata funzionale a un approfondimento del lavoro dello storico e della sua “logica”, che è contrassegnata dallo spiegare per comprendere e dal comprendere in funzione dello spiegare, secondo un iter intensamente dialettico già fissato da Weber come “principio regolativo”115.

Il riferimento a Weber dimostra come le ovvie valutazioni sulla disciplina storica qui elencate non riguardano un rinnovamento degli ultimi cinquant’anni; inoltre compare una forzata «contrapposizione» fra lo «spiegare» e il «comprendere», utile all’Autore per fare un riferimento implicito alla povertà della didattica contemporanea, che si limiterebbe a spiegare, lasciando da parte la comprensione (la comunicazione didattica della storia a scuola si rivelerebbe, se effettivamente avvenisse così, una povera caricatura). Creata questa contrapposizione artificiosa, che ovviamente non viene dibattuta all’interno della relazione dialettica tra storia e storiografia (la quale rientrerebbe nello specifico disciplinare e non potrebbe creare abilità trasversali), è facile capire qual è l’intenzione dello studioso, identica a quella proposta per la letteratura. La storia non deve essere narrazione degli eventi, ovviamente spiegata in modo critico e problematico, secondo una logica narrativa e cronologicamente consequenziale, bensì organizzata in una serie di moduli116 indipendenti che riguardano diverse settorialità. Bisogna, nella considerazione storica, «passare dal politico al sociale»117 (e in realtà si capisce che lo studioso appartiene a coloro che intendono negare autonomia epistemologica alla storia e subordinarla alle altre scienze sociali) per cui bisogna considerare della storia «ogni aspetto, ogni dimensione, ogni attore e fattore e lo faccia secondo un’ottica comprendente che non vuole riportare la classe di fenomeni studiati a un’altra superiore da cui vengono a dipendere, secondo la logica dello spiegare118; la quale, nel vincolarsi all’idea di legge, tende a privilegiare l’universale, il generale, il ricorrente, oscurando lo specifico il locale, l’individuale»119. L’intenzione è quella di proporre una comunicazione del sapere storico che, analogamente per quanto suggerito a proposito della letteratura, non apra il mondo al discente – quella che abbiamo chiamato «infedeltà» – ma lo conforti nel proprio limitato orizzonte, vedendo sempre in ciò che si studia un riferimento a se stesso. Ne viene fuori un suggerimento piuttosto scontato, che può anche essere un’utile esercitazione parziale ma che, se applicato in modoesaustivo, rappresenterebbe la fine del sapere storico e l’impossibilità di comunicare i potenziali formativi della disciplina: «Apprendere la storia deve significare anche farsi un po’ storico, saper usare concretamente i metodi della storia (sia pure per accenni) e sapersi disporre a “fare storia” (sia pure a livello elementare)»120.


14. Il valore critico dell’applicazione scientifica

Vorrei a questo punto mostrare come alcune abilità possano essere ottenute con maggiore efficacia proprio a partire dal sapere disciplinare e, nel caso delle competenze storiche, proprio a partire da un proficuo scambio tra storia e storiografia, che implica la loro ovvia integrazione e collaborazione (e non certo contrapposizione – sarebbe questa una pretesa paleopositivista). L’importanza della storiografia sembra ai pedagogisti limitata ai documenti e alle fonti storiche, forse perché è possibile, attraverso queste, la simulazione del «giocare alle storico» cui si è accennato prima. Non vi sono nei loro scritti riferimenti ai materiali storiografici in quanto tali, che dovrebbero rappresentare il più consueto strumento interpretativo, per lo studente che studia storia.
In questa lunghezza d’onda della “nuova storia”, problematica, complessa, interpretativa, anche il documento muta. Si offusca l’assoluta centralità del documento scritto e si lavora su tracce diverse, lasciate anche con altri linguaggi. Si apre lo statuto stesso del documento, privilegiando ora quello seriale (in vista di una storia quantitativa) ora quello unico e irripetibile (guardando a una storia qualitativa) e dando vita a una dialettica aperta all’uso dei documenti. Documenti che si intrecciano, si richiamano, si integrano, si accavallano, dando corpo a una continua innovazione di prospettive nella lettura dell’evento storico e della sua ipotesi interpretativa/esplicativa121.

Come ho detto sopra più volte, l’elenco degli obiettivi proposti dalla letteratura pedagogista è, per la sua ovvietà, anche condivisibile. Vorrei partire da quanto Cambi scrive, con terminologia quasi sempre fumosa secondo quel tipico stile pedagogista che potremmo definire “pseudoscientifico”, a proposito delle «competenze formali» e della loro capacità di avvicinare il discente al «sapere critico»122. È interessante notare come al sapere scientifico, caratterizzato da «uno stile di conoscenza sperimentale e “provata” sui fatti, attenta ad usare un metodo rigoroso e controllato, rivolta a fissare conoscenze oggettive, se pure assai spesso interpretative della stessa oggettività»123, caratteristiche che, a mio parere, dovrebbero essere proprie anche del più autentico sapere storico, non viene riconosciuta, incredibilmente, alcuna possibilità di stimolare la capacità critica, limitato com’è all’accertamento nozionistico. La «critica è invece esercizio del dubbio e della ricerca, è riflessione metascientifica, è metaconoscenza, è contrassegnata da divergenza, asimmetria, distacco e dissenso, svolti in funzione di una retroazione sui saperi, sui loro statuti, sul loro ruolo cognitivo e sociale; è la riflessione che ha sì saperi specifici – la filosofia, in primis, e le epistemologie – ma che, anche e soprattutto, emerge dall’intersezione dei vari saperi e dal contrasto dei loro “blocchi cognitivi”, come accade tra scienza e storia, tra scienza e arte, ecc.»124. Da questa premessa, ne deriva la riduzione del peso specifico delle discipline, l’attenzione per ciascuna di esse non alla trasmissione di un quadro organico ma di singole sezioni autonome (per. es., l’Autore propone non di svolgere le vicende politiche del Novecento ma piuttosto un compendio di “storia del ruolo femminile nella società”), dove più che la competenza individuale del docente125 conta la capacità di connettere tali moduli, come abbiamo già visto, al vissuto individuale dell’alunno, per favorire quella che Cambi chiama la «riflessività».
Secondo il nostro parere, invece, quelle competenze di carattere critico che Cambi cita, e che effettivamente devono essere l’obiettivo primario del lavoro didattico, non solo non sono in «contrapposizione» al lavoro scientifico, ma sono ad esso intimamente connesse; nessuna «contrapposizione» dunque, questa figura retorica che Cambi utilizza maggiormente per suffragare le proprie teorie, e nessuna subordinazione dell’una all’altra, o minor valore dell’una rispetto agli obiettivi didattici da raggiungere. E vorremmo mostrare come l’autentica applicazione disciplinare possa raggiungere gli stessi traguardi formativi, anzi in modo più efficace, perché concede agli alunni una solida base culturale per emanciparsi dalla condizioni di partenza. Il riferimento che proporremo è alla disciplina storica, proprio per contrapporci all’antistoricismo di fondo del pedagogismo e mostrare che è impossibile sviluppare competenze, se non si possiede una capacità di lettura storica della realtà, che nessuna didattica strutturata in schemi rigidamente modulari può offrire.


15. Un esempio concreto

Un programma completo ed esaustivo di storia universale è impossibile da realizzare a scuola, e sarebbe assurdo volerlo fare. L’esigenza di spingersi il più avanti possibile nelle vicende del XX secolo obbliga a trovare sintesi via via più efficaci nello svolgimento del programma negli anni precedenti, indipendentemente dalle decisioni ministeriali in merito. Nei licei, ad esempio, il programma del quarto anno, comprendendo argomenti decisivi (dalla rivoluzione inglese all’Indipendenza americana, la Rivoluzione industriale, la Rivoluzione francese e Napoleone, la Restaurazione e l’intero Risorgimento) non può che imporre agli insegnanti un’operazione di sottrazione, soprattutto per quanto riguarda gli argomenti di raccordo. Ma anche tematiche centrali, per necessità di sintesi, è meglio svolgerle in un’ottica comparativa, la quale permette di cogliere elementi comuni, produce migliore sapere in una maggiore economia di tempo; consente addirittura una trattazione unitaria pur in assenza di argomenti di raccordo in teoria fondamentali (come le guerre del Settecento o il dispotismo illuminato). D’altra parte – ma è storia vecchia, non sono certo i pedagogisti ad averlo scoperto – una conoscenza esaustiva sul piano dei fatti risulta inutile, in quanto la preparazione mnemonica è una delle più agevoli per molti studenti, ma è anche una preparazione di corta durata, che svanisce presto, e dunque inutile. Rispetto ad una specifica epoca storica, l’alunno deve ricordarne le caratteristiche principali, le più importanti innovazioni sul piano politico, economico, giuridico e culturale, in modo tale che, quando in futuro si troverà ad affrontare tematiche specifiche, sappia collocarle nel giusto contesto. È chiaro dunque che la storia – questa deve essere la prima fondamentale consapevolezza dell’alunno, soprattutto in una scuola superiore – non va conosciuta nozionisticamente, ma bisogna saperla discutere. Ovviamente lo studente, soprattutto nei primi anni di corso, tende a confondere il principio della discussione con quello di poter esporre pareri in libertà, senza riferimento specifico a fatti concreti. Un po’ quello che auspicherebbero le moderne teorie pedagogistiche, che mettono al centro della didattica l’attività in proprio (“da storico”) del discente, la ricostruzione da parte dello stesso di una storia locale, se non personale, senza la conoscenza dei contesti e delle problematiche storiche generali. Lo studente capirebbe le peculiarità del sapere storico da sé, miracolosamente, giocando a fare lo storico nel proprio orizzonte esistenziale (secondo una prassi che ricorda, sia pure in forma caricaturale, l’Emilio di Rousseau).
Invece, l’idea del saper discutere una tematica storica, di saperla cioè problematizzare, va fatta comprendere (lavoro che diventa decisivo soprattutto a partire dal triennio conclusivo) a partire dall’incontro tra la storia e la storiografia, tra la considerazione degli eventi e la consapevolezza della loro variabile interpretazione storica. Anche in questo caso l’alunno tenderà, di fronte a un dibattito storico, a ritenere corretto prendere posizione per l’una o l’altra delle letture; ma questa è una tentazione che bisogna evitare. Al di là delle opinioni specifiche che se ne possono trarre, il lavoro difficile, che l’alunno deve imparare, è quello di comprendere su quali basi argomentative uno studioso ha potuto ricavare, da identiche fonti documentarie, valutazioni diverse. Che cosa lega cioè un fatto alla sua possibile interpretazione: quindi distinguere, in un brano storiografico, la tesi che lo storico vuole sostenere, gli aspetti del tema trattato cui fa riferimento, le prove documentarie riportate a sostegno della propria posizione. Sulla base poi di una lettura che propone un’interpretazione diversa, da analizzare in modo identico, deve imparare a considerare i punti di forza e le eventuali argomentazioni contestabili di ciascuna lettura.
Tutto ciò è possibile, a mio parere, se si mantiene però una scansione cronologica abbastanza regolare, ovvero se la trattazione della Rivoluzione francese segue l’indipendenza degli Stati Uniti o la Rivoluzione inglese, in modo da permettere pratiche comparative. Va da sé che, in questo modo, e attraverso letture periodiche di approfondimento, parlare di lezione frontale in senso limitato non ha più valore; le esposizioni vengono realizzate con la collaborazione di alunni che hanno approfondito un tema, il docente fa riferimento a una continuità tematica (altra cosa, evidentemente, dai «temi» gentiliani, concepiti ancora secondo una logica da filosofia della storia) in grado di dare stimoli alla partecipazione. Solo così gli alunni possono conoscere le caratteristiche peculiari di una disciplina e decidere, eventualmente, il loro grado di partecipazione intellettuale alle stesse. È chiaro che in questa attività didattica l’interdisciplinarietà e la pluridisciplinarietà hanno un ruolo fondamentale: con riferimenti continui al mondo letterario, a quello estetico (arte, musica, poesia), e sarebbe bene pretendere dal docente una preparazione culturale ad ampio spettro e, soprattutto, al consiglio di classe di lavorare in questo senso126; solo a partire da queste considerazioni disciplinari ha senso inserire e fare riferimento anche al vissuto specifico degli alunni, al legame tra passato e presente, tra universale e locale, o addirittura singolare; in questo modo il proprio vissuto guadagna un significato pregnante, ignoto in precedenza, che lo colloca in una dimensione collettiva, cioè storica. E, sempre a proposito del rapporto tra passato e presente, un lavoro di estremo interesse è quello che concerne la lettura di editoriali tratti dai quotidiani, a partire dai diversi che i singoli alunni possono leggere nel loro ambito familiare, dove compaiono riferimenti a fatti storici studiati in classe127. Il lavoro consiste nel cercare di capire le ragioni di quel riferimento, nel valutare se ci siano o meno forzature, nello stabilire nel lontano passato le cause di fenomeni che fanno parte del proprio quotidiano.
Se non esistesse questa caratterizzazione disciplinare, se tutto fosse fondato su una attività relazionale dove i contenuti disciplinari non conoscessero limiti alla loro riduzione per venire incontro alle difficoltà degli alunni, ci domandiamo, – anche sulla base dell’esperienza attuale di insegnanti – attraverso quali criteri gli studenti potrebbero orientarsi per lo studio universitario128. Ma soprattutto – e in questo caso è il lettore delle seguenti pagine che deve giudicare – se è possibile raggiungere quegli obiettivi di «metaconoscenza» di «divergenza, asimmetria, distacco e dissenso»129, e gli altri che abbiamo citato sopra, con questa metodologia piuttosto che con quelle vacue argomentazioni (non si capisce su quali contenuti) su cui ci siamo soffermati sino ad ora. Chiaro che nessun risultato si può ottenere se l’alunno non compie uno sforzo autonomo, non si confronta con la fatica di acquisire sapere, con il sacrificio di un impegno che non sembra attraente, anche alla luce del fatto che quasi tutti gli altri mezzi comunicativi con cui il giovane entra in contatto nel corso della sua vita privata per lo più snobbano i contenuti culturali; impegno in grado però di ripagare una volta conseguiti i risultati. Certo, tra le capacità professionali dell’insegnante vi deve essere anche quella del motivare e rimotivare, impedendo la demoralizzazione, pure davanti agli insuccessi, prassi che è difficile da portare avanti al di fuori del gruppo classe e senza un’organizzazione seria della didattica di recupero.


16. La “riforma” Gelmini

Nelle presenti pagine abbiamo citato, nel proporre esempi di concrete iniziative legislative, i due principali progetti di riforma legati ai passati ministri dell’istruzione, Luigi Berlinguer e Letizia Moratti. In effetti, le due personalità politiche cercarono di realizzare una riforma strutturale della scuola di ampio respiro che, come ci era capitato già altre volte di scrivere, faceva proprie, sia nell’organizzazione generale della didattica sia in riferimento ai diversi curricola, le più affermate teorie pedagogistiche.
Archiviati quei progetti ambiziosi, la scuola oggi affronta una revisione dei quadri orari che è improprio definire riforma130, ma che sicuramente cancella una tradizione curricolare ormai consolidata, legata in particolare alla scuola superiore. La priorità dell’iniziativa ministeriale è invece stata quella di intervenire pesantemente sul monte ore complessivo, drasticamente riducendolo e cambiando, inevitabilmente, la fisionomia di molti indirizzi liceali. Non è questa la sede per soffermarsi sull’importanza di questo provvedimento, che meriterebbe un’analisi particolarmente attenta; la maggior parte dei commentatori ha riconosciuto che tali modifiche hanno obbedito a ragioni di bilancio, più che seguire una seria riflessione sulla didattica. Sorge spontanea allora la domanda se, con il ministro Gelmini, si sia interrotta la politica dei predecessori, che intendevano creare le condizioni per l’introduzione di procedimenti didattici di carattere pedagogistico.
Il criterio seguito dal gruppo di lavoro che ha proposto le recenti modifiche, al di là delle ragioni economiche, è stato quello di mantenere una quota oraria significativa e impegnativa esclusivamente per le materie di indirizzo, riducendo le altre, in modo a volte rilevante. Storia e filosofia, per esempio, ad esclusione del liceo classico, vengono ridotte di un’ora ogni settimana e perdono quello statuto di parità che fino ad oggi conservavano con le materie scientifiche o letterarie. Diventa necessario, per i singoli insegnanti, ripensare la programmazione annuale sulla base delle nuove disponibilità orarie.
Prima però di approfondire questo punto, è necessario notare come non per tutti gli indirizzi questo criterio sembra essere stato rispettato, in modo a volte sorprendente. Nelle scuole tecniche e professionali, le maggiormente colpite, alcune materie di indirizzo sono state incredibilmente ridotte, ed è facile immaginare le problematiche ricadute di una tale decisione131. Tra i licei, anche l’indirizzo linguistico (un indirizzo ancora sottovalutato in Italia, ma che permette una buona preparazione nella comunicazione linguistica – orale e scritta –, con risultati paragonabili a quelli di licei più blasonati) ha ricevuto una forte penalizzazione proprio nello strategico settore delle lingue straniere, tanto da diventare un liceo sul quale è difficile investire in futuro, non appena le famiglie si renderanno conto di questi limiti. Non si tratta solo delle riduzioni delle discipline di storia e filosofia, che anche nell’ultimo anno di corso non potranno superare le due ore settimanali132, ma dell’efficacia delle stesse lingue straniere che prevedono una delle ore settimanali in compresenza con lettore madre lingua, la cui preparazione, per le procedure di nomina133, è a volte approssimativa. Nell’abolire totalmente le compresenze, senza riflettere sulla loro efficacia didattica, sono state coinvolte anche quelle tra docente titolare di lingua straniera e lettore madre-lingua. In questo modo l’ora di conversazione sarà totalmente sganciata dagli argomenti e dal lavoro didattico svolto nelle altre ore della disciplina, causando una frattura molto grave; nel caso poi che il lettore, non mostri adeguata competenza didattica (o perché non abilitato, o perché alle prime esperienze), gli alunni non potranno più approfittare di quest’ora comunque significativa. La stessa conoscenza delle tre lingue straniere, a cui è da aggiungersi la scomparsa del latino negli ultimi anni, che non è una materia secondaria per chi approfondisce un indirizzo linguistico, creerà una forte lacuna nella preparazione, proprio laddove il liceo dovrebbe distinguersi. A dare un’ulteriore colpo alla credibilità del liceo linguistico è la decisione di abolire qualsiasi diaria per i viaggi d’istruzione, obbligando il docente a provvedere da sé alle spese di mantenimento e non tenendo conto di un servizio che si dilata tantissimo dal punto di vista orario e della responsabilità personale. La difficoltà conseguente ad accompagnare le classi in questi viaggi impedirà la realizzazione degli scambi con l’estero, per un liceo linguistico indispensabili.
Questa digressione voleva sottolineare come le decisioni ministeriali hanno tenuto pochissimo conto delle peculiarità didattiche di molti indirizzi, lavorando unicamente sul criterio dei risparmi dei costi; in alcuni casi con effetti – e non entriamo qui nel merito sindacale delle ricadute sull’organico – rimediabili sul piano disciplinare, in altri casi creando effetti irrazionali rispetto alla configurazione e all’indirizzo proprio del liceo.
Qualsiasi giudizio si voglia proporre su queste modifiche, esse, attuando una riduzione generica dell’orario per tutte le discipline, non sembrano volerle screditare nella loro specificità; il ministro pare non avere fatto proprie le esigenze pedagogistiche. Ha conseguito solo un risultato sul piano economico, lasciando inalterata, nei suoi principali assunti, la didattica disciplinare, abbandonando quindi le finalità proprie delle precedenti intenzioni di riforma.
In realtà però, se si analizza con attenzione la logica di alcune trasformazioni, viene il sospetto che qualche influenza delle teorie pedagogistiche vi sia
stata; e voglio portare ad esempio il liceo scientifico, in particolare per le discipline di storia e filosofia. In questo caso il quadro orario è rimasto, come totale del monte ore, identico, ovvero quindici ore settimali per le tre classi del triennio (senza dunque intervenire sull’organico); solamente che ne è stato alterato l’equilibrio. Rispetto al precedente, cui abbiamo già fatto cenno a proposito del liceo linguistico, il Ministero in un primo tempo aveva proposto di ridurre a sole due ore settimanali la disciplina di filosofia per gli interi tre anni, e di portare invece storia a tre ore settimanali per tutti e tre gli anni di corso. Questa modifica sembrava corrispondere a una seria intenzione ministeriale, sensibile a un’opinione diffusa che ha condotto a rivalutare la preparazione storica nella formazione del cittadino; inoltre era possibile guadagnare ore per la nuova disciplina di «Cittadinanza e Costituzione», che il Ministero ha promosso in questi anni. Con la pubblicazione degli ultimi quadri orari, invece, la soluzione è stata capovolta. Tre ore di filosofia tutti gli anni, e solo due invece di storia. Dal momento che in questo caso non vi sono ragioni di bilancio, poiché il quadro orario complessivo rimane il medesimo, è difficile cogliere le reali motivazioni di questa decisione improvvisa, se non in base a qualche teoria didattica.
Personalmente, in quanto docente di filosofia e storia, pur dolendomi della riduzione d’orario, ritenevo più facile affrontare l’impegno di riprogrammazione, a fronte di un minor numero di ore, nella disciplina di filosofia piuttosto che in quella di storia. Ovvero, in filosofia risulta più facile ridurre il programma senza sacrificare più di tanto le specificità epistemologiche della disciplina e raggiungere gli stessi obiettivi disciplinari e/o formativi. Molto più difficile appare per la storia; affrontare adeguatamente il periodo che va dall’età dell’imperialismo alla fine del secolo scorso in sole due ore settimanali, in presenza per di più di classi con un numero di alunni notevolmente accresciuto, e che quindi sottraggono tempo per le inevitabili operazioni di verifica, è decisamente più problematico.
A meno che non si sia insinuata tra i consiglieri del ministro una strategia che era già stata fatta propria durante il Ministero Berlinguer, e candidamente enunciata, sia pure in pubblicazioni settoriali. Costringere gli insegnanti, vista l’impossibilità di svolgere il programma in modo accettabile con un quadro orario così ridotto, ad adottare una didattica modulare134, facendo rientrare, senza dichiararlo esplicitamente, l’obbligo per una metodologia che, come abbiamo visto, mortifica la dimensione storicistica della realtà e dei saperi per far spazio a un vuoto formalismo.
Un ultimo accenno, per provare a esprimere un giudizio sulla legge elaborata dal Ministero Gelmini, sul tema della valutazione, cui abbiamo fatto cenno all’inizio del presente saggio. L’idea del Ministro è quella di far gestire la terza prova dell’esame di Stato, l’unica prova la cui formulazione era responsabilità della commissione, all’Invalsi; farne cioè una prova nazionale comune, totalmente formalizzata, la cui valutazione automatica avverrebbe sempre centralmente, guadagnando in oggettività. È chiaro come, una tale prospettiva limiterebbe ancora di più la libertà dei docenti e, soprattutto, impedirebbe un lavoro didattico durante l’anno teso proprio a conseguire quei risultati di criticità di cui si è parlato. L’insegnante dovrebbe infatti, in questo caso, uniformarsi a programmi comuni e, avendo a riferimento la prova d’esame, puntare solo a questa abilità mnemonica verso i concetti, per rispondere a quesiti formalizzati. Non solo ciò limiterebbe le capacità più creative dei docenti, ma spingerebbe gli alunni a studiare solo in ragione del superamento di questo tipo di domande nozionistiche. Sarebbe impossibile proporre una rielaborazione efficace dei contenuti, per esempio storici e filosofici, ma non solo.
Un caso in cui la deriva pedagogistica arriva a toccarsi, paradossalmente ma non troppo, col più arido nozionismo; un modo per mortificare le potenzialità critiche delle discipline e lasciare spazio alla valutazione delle «competenze».



NOTE
11 I due ambiziosi progetti di riforma presentati nel decennio precedente dagli schieramenti politici protagonisti del bipolarismo in Italia, sono stati oggetto di aspre critiche da parte di chi al momento ricopriva il ruolo dell’opposizione; probabilmente più per il generale clima politico con cui l’esperienza bipolare si è concretizzata nel nostro paese, che per la sostanza dei provvedimenti stessi. Il messaggio giunto all’opinione pubblica in seguito a tale contrapposizione era che l’alternativa tra i due progetti fosse effettivamente una realtà e che il destino della scuola italiana si giocasse tutto nel prevalere dell’uno o dell’altro. I mezzi di informazione – anch’essi quasi unanimi nel fornire una cronaca degli avvenimenti secondo questa visione dualistica – hanno di fatto disconosciuto un dato di per sé evidente ma, in riferimento a questa lettura dominante, sorprendente: i due progetti di riforma, dissimili per alcune modalità di organizzazione dei cicli scolastici, convergevano nell’assunzione della stessa linea pedagogico-culturale. Cfr. G. Carosotti, La falsa alternativa: Berlinguer, Moratti e il destino del Liceo europeo, in «L’Acropoli», 5 (2004), pp. 611-633.Top
2 Le Commissioni prevedono un numero limitato di insegnanti e, di conseguenza, non tutte le materie possono esservi rappresentate; se il ministero l’avesse consentito, i costi dell’esame avrebbero finito per superare le compatibilità finanziarie. È evidente che si creano condizioni di disparità fra le varie commissioni, di anno in anno; un docente presente in commissione può rappresentare una o due discipline, di maggiore o minore peso orario.Top
3 La possibilità di una reale pluridisciplinarietà nel quinto anno di corso si riduce a poche materie e ad argomenti limitati, vista la sfasatura cronologica dei vari programmi. Ciò prova ancora la superficialità di un provvedimento che andava eventualmente deciso dopo avere riformulato indirizzi e programmi, e non prima. A meno che la pluridisciplinarietà non si riduca ad accostamenti al limite della serietà, come mostra l’esempio di un video per la promozione del nuovo esame realizzato nel 1997 dal Ministero, in cui al candidato veniva richiesta una risposta relativa alla disciplina di scienze (i vulcani), per passare successivamente all’analisi della Ginestra di Giacomo Leopardi.Top
4 Va detto che se il nuovo esame di Stato possedeva ancora qualche significato durante il Ministero Berlinguer –prevedendo che almeno metà della Commissione fosse esterna – esso ha perduto, per tutto il periodo del Ministero Moratti, qualsiasi credibilità, in quanto la Commissione doveva essere composta solo dai docenti del consiglio di classe, che aveva giudicato gli alunni su tutte le discipline appena pochi giorni prima. Si trattava di un provvedimento – poi rientrato con il Ministero Fioroni – motivato unicamente da un risparmio dei costi e che tra l’altro – visto la necessaria compresenza di alcuni docenti su più Commissioni – non è riuscito a raggiungere neanche questo scopo.Top
5 In realtà questa prima parziale definizione che forniamo è tutt’altro che esaustiva, come dimostra il dibattito successivo, di cui daremo conto più avanti.Top
6 G. Bertagna, I pompieri, il terremoto… e le prove INVALSI, in «Tuttoscuola», n°453, giugno 2005, p.18.Top
7 Ibid.Top
8 Ibid.Top
9 Cfr. ivi, p. 19. Peraltro si potrebbero citare altri casi in cui, allo scatto effettivo del segnale di allarme, l’efficienza delle misure di protezione o di evacuazione è stata superiore a quella testimoniata dalla simulazione.Top
10 F. De Sanctis, Il problema delle competenze, in «Tuttoscuola», n°454, settembre 2005, p. 38.Top
11 G. Bertagna, art. cit., p. 20.Top
12 Ibid.Top
13 Cfr. G. Bertagna, art.cit., pp. 24-25. Torneremo alla fine sull’intenzione, da parte dell’attuale Ministro dell’istruzione, Maria Stella Gelmini, di voler realizzare, attraverso l’Invalsi, un’unica terza prova scritta nazionale per i prossimi esami di Stato.Top
14 Nel vecchio progetto di riforma del ministro Moratti vi era, tra gli stessi docenti, un’organizzazione gerarchica rispetto a questo delicato compito, al vertice del quale non stava l’insegnante responsabile della singola disciplina, ma il tutor. Cfr. G. Carosotti, La falsa alternativa, cit., pp. 629-630.Top
15 G. Bertagna, cit., p. 25; per l’identica idea recepita dal progetto Moratti confronta sempre G. Carosotti, cit., p. 628.Top
16 Ibid.Top
17 Ivi, p. 21.Top
18 Il riferimento, in questo caso, è al «portfolio delle competenze» previsto dal progetto di riforma Moratti, che sganciava sostanzialmente la valutazione dal profitto conseguito nelle singole discipline e che – e questo il caso che qui ci interessa – prevedeva l’intervento dell’alunno stesso nell’atto della valutazione. Cfr. G. Carosotti, cit., pp. 626-629.Top
19 L’esempio potrebbe essere quello dei pompieri di New York, ricordato da Bertagna, per quanto andrebbe affrontato in modo più rigoroso.Top
20 I. Forin, Diventare competenti, in «Tuttoscuola», n°494, settembre 2009, pp. 40-41. L’interesse dell’articolo, oltre alle riflessioni ora richiamate, sta nel datare l’avvio del dibattito sulle competenze all’inizio degli anni Novanta, confortando l’interpretazione politico-ministeriale richiamata all’inizio del presente testo.Top
21 Ivi, p. 41.Top
22 Ibid.Top
23 Ibid.Top
24 Nelle pagine seguenti faremo riferimento ad altre possibili definizioni di competenze, a riprova che il pronunciamento dell’OCSE non ha affatto contribuito a dirimere la questione. In particolare, alla distinzione tra «competenze di contenuto» e «competenze di forma» (in F. Cambi, Saperi e competenze, Roma- Bari, Laterza, 2004), rispetto alle quali il lettore noterà, ancora una volta, la decisa distanza dalle diverse proposte finora elencate.Top
25 Il passo è riportato da I. Fiorin, cit., p. 40. Per una conoscenza più esaustiva dei pareri dell’OCSE, cfr. il link: http://www.oecd.org/dataoecd/47/61/35070367.pdf.Top
26 Le competenze «non possono essere ‘impartite’ ma sono frutto dell’interazione tra soggetto che apprende e contesto. Le competenze non possono essere intese come superobiettivi da proporre, far perseguire, verificare e valutare. Sono, piuttosto, delle prospettive di sviluppo lungo le quali vanno indirizzate l’acquisizione e l’utilizzazione dei singoli apprendimenti». In ivi, p. 41, dove, come si nota, meno si riesce a fare chiarezza sul contenuto discusso, più si radicalizza la propria posizione metodologica.Top
27 Ibid. Da notare l’utilizzazione di «vs» che vuole enfatizzare l’opposizione radicale di due sistemi, uno conservatore l’altro illuminato, e dare un carattere quasi rivoluzionario alle proposte avanzate. Come vedremo anche più avanti, la figura retorica della contrapposizione è una delle più usate dai pedagogisti, nel tentativo di negare qualsiasi valore alla didattica disciplinare.Top
28 Per certi versi, non lo era neppure quella positivista, e men che meno la scuola italiana da Gentile in poi, anche se, in alcuni casi, il nozionismo si è imposto al di là delle intenzioni del legislatore.Top
29 Ibid.Top
30 L’autore non problematizza questa distinzione, dandola per scontata; in realtà è frequente, negli scritti dei pedagogisti, fare leva sul senso comune non problematizzato, anche quando le affermazioni si presentano come fondate su rigorose valutazioni epistemologiche.Top
31 Non mi soffermo sulla terza opposizione («specializzazione vs. trasversalità») la cui evidente debolezza teorica rispetto all’organizzazione del sapere nei nostri tempi appare evidente, e che forse esprime al meglio il carattere contraddittorio di queste proposte formative.Top
32 V. Campione, S. Tagliagambe, Saper fare scuola: il triangolo che non c’è, Torino, Einaudi, 2008.Top
33 Proprio perché dettate da preoccupazioni di carattere professionale e da passione civile, si tratta di argomentazioni poco politicizzate, di personalità riconducibili alle più varie aree politiche. Tra i testi più significativi: G. Ferroni, La scuola sospesa:istruzione, cultura e illusioni della riforma, Torino, Einaudi, 1997; F. Polacco, La cultura a picco: il nuovo e l’antico nella scuola, Venezia, Marsilio, 1998; L. Russo, Segmenti e bastoncini: dove sta andando la scuola?, Milano, Feltrinelli, 1998; P. Mastrocola, La scuola spiegata al mio cane, Parma, Guanda, 2004. Si potrebbero ricordare diversi interventi in questo senso su importanti quotidiani nazionali, come per esempio quelli di Mario Pirani o di Riccardo Chiaberge.Top
34 R. Maragliano, Presentazione al volume di V. Campione, S.Tagliagambe, op.cit., pp. VIIXVII. Roberto Maragliano ha collaborato con il ministero di Luigi Berlinguer in qualità di coordinatore della Commissione dei saggi incaricata di avanzare proposte per la riforma della scuola. Vittorio Campione è stato segretario dell’ex ministro Berlinguer; con la caduta del governo di centro-sinistra, ha sostenuto la necessità che la riforma della scuola si affermasse secondo un logica bipartisan; Silvano Tagligambe, in qualità di responsabile del progetto CSR4, ha collaborato con il ministero di Letizia Moratti.Top
35 P. Mastrocola, op. cit.Top
36 R. Maragliano, cit., p. VIII.Top
37 Ibid. Senza utilizzare il termine «spontaneo», un altro studio difensore del pedagogismo, che si fa portatore di nuove conquiste in ambito cognitivista, ha parlato del lavoro dei docenti come «artigianalità bene intenzionata […] alla base dell’insegnamento tradizionale» ma «che mantiene molto meno di quanto promette». A. Malinverno, Nuove dimensioni della professionalità docente, Milano, Ed. Unicopli, 2000, p. 119. Vedremo in seguito come l’inefficacia della didattica tradizionale non sia affatto dimostrata da questi studi, i quali invece ignorano volutamente i dati falsificanti le loro teorie.Top
38 Sullo scarso rigore delle inferenze proposte nello studio di Campione e Tagliagambe ritorneremo più volte in seguito. Anticipiamo solo l’abitudine, frequente nel testo, di interrompere il rigore logico del discorso per introdurre riferimenti letterari, o più generalmente culturali, con un puro effetto retorico; una pratica identica a quella che viene criticata allo studio della Mastrocola. Si veda la metafora organicistica di nessuna presa scientifica a p. 22; o la citazione di passi evangelici al di fuori di un contesto motivato; un riferimento molto banale e scontato a Gian Battista Vico per affermare il carattere mobile della cultura classica (p. 33), a partire dalla quale se ne propone un’interpretazione francamente caricaturale; e si potrebbero citare altri esempi.Top
39 Non a caso Maragliano afferma di voler riflettere sull’importante libro di Lucio Russo, op. cit., preso a riferimento dalla Mastrocola, ma poi non lo fa.Top
40 Ivi, p. 216.Top
41 F. Cambi, op. cit., p. 45.Top
42 Campione,Tagliagambe, op. cit., pp. 78-79.Top
43 Ibid.Top
44 Ivi, pp. 86 sgg.Top
45 Cfr. Ivi, pp. 104 sgg.Top
46 Ivi, p. 98: «quello che Edelman e Tononi ipotizzano […]».Top
47 G. Ferroni, op. cit., pp. 94-95.Top
48 Campione-Tagligambe, op. cit., p.14.Top
49 Ibid.Top
50 Ibid.Top
51 G. Ferroni, op. cit., p. 92.Top
52 Campione,Tagliagambe, op. cit., p. 247.Top
53 Ivi, pp. 221-222.Top
54 G. Ferroni, op. cit., p. 83.Top
55 Ibid.Top
56 G. Ferroni, op. cit., pp. 94-95. In queste pagine Ferroni fa riferimento a un altro importante studio critico nei confronti del pedagogismo: F. Fabbroni, La didattica, una scienza che già c’è, in B. Vertecchi (a cura di), Il secolo della scuola. L’educazione nel Novecento, Scandicci, La Nuova Italia, 1995.Top
57 Campione, Tagliagambe, op. cit., p. 221.Top
58 Altrove io ho suggerito l’espressione di «secolarizzazione del mito egualitario». Cfr. G. Carosotti, La Repubblica contro la scuola, in «L’Acropoli», 10 (2009), p. 311.Top
59 D. Capperucci, Dalla programmazione educativa e didattica alla progettazione curricolare. Modelli teorici e proposte operative per la scuola delle competenze, Milano, Franco Angeli ed., 2008, p. 8.Top
60 Niente di più convincente viene detto nello studio di Campione e Tagliagambe che stiamo prendendo in esame; il capitolo VII è tutto dedicato al passaggio auspicato, decisivo per i due autori, dall’insegnamento all’apprendimento; anche in questo però si propone serie disparata di riferimenti scientifico-filosofici (Kant e le teorie cognitivistiche), con cui si pretende di avere risolto il tema senza che gli autori osino proporre una definizione (Cfr. Campione, Tagliagambe, op. cit., pp. 125-6). Quando poi, molto più in là nel libro, la definizione viene proposta, si scade in obiettivi generici, patrimonio ovvio della professionalità docente: meta cognizione, capacità comunicativa, padronanza della «teoria del ragionamento», capacità di relazionarsi con sé e con gli altri (cfr. p. 231). D’altra parte lo stesso ministero dell’Istruzione non riesce ad essere più chiaro. Cfr. l’allegato tecnico in cui le competenze vengono così definite: «indicano la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale»; quando si tratta di elencarle, nello stesso documento, esse finiscono per identificarsi con abilità specifiche: «Le competenze chiave indicate dalla raccomandazione sono le seguenti: comunicazione nella madre lingua, comunicazione nelle lingue straniere, competenza matematica, competenze di base in scienza e tecnologia, competenza digitale, imparare ad imparare, competenze sociali e civiche, spirito di iniziativa e imprenditorialità, consapevolezza ed espressione culturale». Il documento è consultabile al seguente link: http://gazzette.comune.jesi.an.it/2007/202/1.htm.Top
61 Ivi, pp. 23-24.Top
62 F. Cambi, op. cit., pp. 33-34.Top
63 D. Capperucci, op. cit., p. 16. L’esatto contrario della «eguaglianza di opportunità» come la intende lo storico della scuola Scotto di Luzio (cfr. A. Scotto di Luzio, La scuola degli italiani, Bologna, il Mulino, 2007) per il quale è invece il distacco dal proprio background a produrre un’autentica emancipazione. Forse di Luzio sottovaluta la necessità, affinché non vi sia troppa dispersione scolastica, della didattica di recupero, ma in modo ancora più strumentale è sottovalutata dai pedagogisti. Capperucci sembra invece rifarsi a una strategia che era compresa nel vecchio progetto di riforma Moratti, ovvero le «unità minime di apprendimento»; laddove, per venire incontro all’alunno, era possibile agire sempre più per sottrazione dei contenuti qualificanti, senza che fosse stabilito un limite minimo degli stessi. Cfr. a proposito G. Carosotti, La falsa alternativa, cit., pp. 626-626.Top
64 D. Capperucci, op. cit., p. 256.Top
65 Ivi, pp. 257-8: «comunicazione nella lingua madre; comunicazione delle lingue straniere; competenza matematica e competenza di base in scienza e tecnologia; competenza digitale; imparare a imparare; competenze interpersonali, interculturali e sociali e competenza civica; imprenditorialità; espressione culturale».Top
66 L’unica novità sarebbe l’«imprenditorialità», doveroso omaggio al mondo globalizzato.Top
67 Ivi, p. 258.Top
68 Utilizzo il termine «eventuali» perché in nessuna definizione proposta ho trovato autentiche differenze con quegli obiettivi che gli insegnanti da anni hanno presente nella programmazione del loro lavoro.Top
69 Con la legge 169/2008, entrata in vigore nelle scuole secondarie superiori a partire dal 1° settembre 2010, le sperimentazioni che prevedevano compresenze sono state tutte abolite, interrompendo un lavoro di condivisione disciplinare che in molte realtà aveva prodotto apprezzabili risultati; cfr. più avanti la nota n°122.Top
70 V. Campione, S. Tagliagambe, op. cit., p. 24.Top
71 A. Scotto di Luzio, op. cit., p. 113. In questo caso Scotto di Luzio si riferisce all’alunno della scuola elementare, ma il concetto può benissimo estendersi anche ai processi di formazione più avanzati, soprattutto in un’epoca, quale la nostra, di evidente mediocrità e conformismo culturale, cui la scuola cerca di opporsi. Sul testo di Scotto di Luzio cfr. G. Carosotti, La scuola degli italiani, in «L’Acropoli», 10 (2009), pp. 539-535.Top
72 Cfr. anche le posizioni di Eric Donald Hirsch jr., ricordate da Ferroni (op. cit., p. 88), il quale «ha messo in luce tutta la responsabilità delle teorie pedagogiche e progressiste nel generare il collasso dell’istruzione, nella perdita di quei saperi culturali di base il cui possesso è la sola garanzia di autentica eguaglianza fra i cittadini». Cfr. E.D. Hirsch, The schools we need, New York, Doubleday, 1996.Top
73 G. Ferroni, op. cit., p. 90.Top
74 Ivi, p. 91.Top
75 Cfr. N. Postman, The end of education, New York, Alfred A. Knopf, 1995.Top
76 G. Ferroni, op. cit., p. 90.Top
77 Ibid.Top
78 Cfr. A. Scotto di Luzio, op. cit., p. 306: «Il rilievo che assume la riduzione della scuola a servizio sociale sposta l’equilibrio interno al modello pedagogico del maestro, che è idealisticamente il centro nevralgico dell’educazione, all’assistente sociale».Top
79 G. Ferroni, op. cit., p. 98.Top
80 R. Maragliano, La scuola ora si metta in gioco, intervista a «L’Unità», 5 febbraio 1997, cit. in ibid.Top
81 G. Ferroni, op. cit., pp. 143-144.Top
82 A. Malinverno, op. cit., p. 119. Anche in questo caso vediamo in uso un’inferenza assolutamente impropria.Top
83 In Germania, per esempio, nell’ultima manovra finanziaria, finalizzata alla riduzione della spesa pubblica, le risorse per la scuola sono state in ogni caso incrementate.Top
84 Cfr. Campione, Tagliagambe, op. cit., p. 29: «lasciarsi alle spalle la parzialità dell’approccio solo sindacale e il tecnicismo disciplinare». Notiamo anche in questo caso una scorretta confusione tra i campi sindacale e didattico; è evidente che, se si ritengono gli insegnanti incapaci di elaborare autonomamente una strategia didattica, la loro opposizione a tali vacue metodologie sarà solo di ordine corporativo; per cui viene giustificata l’incredibile equivalenza fra sapere disciplinare e politica corporativo-sindacale. Un altro, ennesimo modo, per evitare di confrontarsi con gli elementi falsificanti, svalutando all’origine le posizioni degli interlocutori.Top
85 A. Malinverno, op. cit., p. 9. In questo caso l’espressione cognitivista viene utilizzata come sinonimo di approccio nozionistico-disciplinare, in modo cioè completamente opposto agli altri testi che abbiamo sinora esaminati. A dimostrare la confusione, sul piano delle precisione concettuale, di queste teorie.Top
86 Ibid.Top
87 Ibid.Top
88 Ibid.Top
89 A. Malinverno, op. cit., p. 9. Già in altra parte del testo l’autore aveva parlato della necessita di introdurre, nei confronti dei docenti, «un più rigoroso condizionamento»; cioè «acquisire competenze in docimologia, in sistematica curricolare, nella progettazione programmazione e nell’adozione di metodologie di mastery learning e di problem solving». Ivi, p. 109. Nulla, come si vede, relativamente alle discipline insegnate.Top
90 Campione e Tagliagambe utilizzano un linguaggio più esplicito, riconoscendo il carattere autoritario degli eventuali nuovi organi collegiali, che «devono essere riformati da organi di partecipazione a organi di governo»; op. cit., p. 238.Top
91 G. Ferroni, op. cit., p. 100. Le citazioni interne al passo sono tratte da: A. Martinelli, L’immagine della professione, in Insegnare oggi, a.c. di A. Cavalli, Bologna, il Mulino, 1992.Top
92 Ivi, p. 109.Top
93 Ivi, p. 110.Top
94 A. Malinverno, op. cit., p. 16.Top
95 Ivi, p. 10.Top
96 Nei testi dei pedagogisti compaiono frequenti riferimenti alla riforma Gentile, anche in questo caso strumentali e deludenti sul piano analitico, che sembrano non tenere conto della numerosa bibliografia a disposizione su tale argomento. A titolo di esempio, cfr. sempre Campione, Tagliagambe, op. cit., pp. 46-49.Top
97 A proposito dei rischi che l’insegnamento della storia fosse affidato ai filosofi, Croce scrisse a Gentile: «a patto che i “filosofi” (intendo i professori di filosofia) non lo rovinino col somministrare, come si comincia a vedere da qualche tempo in qua nei loro libri, storie schematiche, astratte, incolori, tutte grandi movimenti di pensieri e grandi dialettiche, senza affetti e passioni, senza uomini, visi, atteggiamenti, parole, quasi un balletto d’idee. La pigrizia è pessima consigliera, e i “filosofi” facilmente guardano dall’alto quelle cose come estrinseche e prive d’importanza, aneddotiche: quelle cose che richiedono tempo e fatica per impararle, e ingegno e fantasia per riprodurle, e concreto e vigoroso pensiero e logicità per penetrarle e dominarle». B. Croce, Postille. L’abbinamento delle cattedre di storia e filosofia, in «La Critica», 21 (1923), pp. 319-320.Top
98 Una corretta valutazione degli insegnanti potrebbe essere svolta esclusivamente da una commissione costituita essa stessa da docenti passati a questa nuova funzione, che segua il lavoro del collega in tutte le sue fasi, in un arco di tempo sufficientemente ampio, per poter considerare l’efficacia della sua azione formativa nel contesto specifico della classe assegnatagli, nonché di altre variabili ambientali. Molto convincente mi sembra, a proposito, l’intervento di F. Lovascio, La valutazione degli insegnanti ovvero della complessità, in «Professione Docente», dicembre 2009, pp.10-11, consultabile al seguente link: http://www.gildaprofessionedocente.it/prd200912/.Top
99 Ne deriva l’importanza del gruppo classe, che permette di realizzare questa continuità del rapporto individuale pur nel contesto di un gruppo permanente. Va da sé che il recente aumento di alunni per classe, deciso dalla circolare n°37 del 13 aprile 2010, tende a dissolvere proprio il gruppo classe in quanto tale.
La circolare prevede infatti un numero minimo di alunni, per il primo anno di corso, di 27; solo 23 per il secondo anno, ancora di 27 per il terzo, di 23 per il quarto anno e di 10 per il quinto. È evidente che, con tale sistema, difficilmente un gruppo classe costituitosi nel corso del primo anno potrà rimanere stabile sino al quinto. Con questo non si vuole negare validità a singole sperimentazioni nel corso delle quali vengono costituiti gruppi differenti e trasversali, tenendo conto che la scuola stessa, e in particolare le classi parallele, sono una comunità. Ma pensare, come ritingono Campione e Tagliagambe, di rendere universitario il rapporto didattico farebbe venir meno proprio il conseguimento degli obiettivi formativi.Top
100 Come detto, manca una strategia adeguata del recupero, che sarebbe molto costosa, e l’attuale pratica, in base alla quale gli alunni sono tenuti a frequentare uno sporadico corso pomeridiano di sei o otto ore per quadrimestre, raggiunge raramente gli obiettivi prefissati.Top
101 Il fatto che singoli docenti possano disattendere i loro doveri professionali ritengo sia problema comune a qualsiasi categoria professionale, e semmai vanno potenziate le procedure di controllo o intervento, secondo le modalità sintetizzate nella nota 98.Top
102 Campione, Tagligambe, op. cit., p. 220.Top
103 Stesse considerazioni potrebbero farsi per le affermazioni di F. Cambi (cfr. op. cit., p. 9), quando parla di passare «da una didattica “trasmissiva” a una più critica».Top
104 La letteratura «reclama lettori, vuole “agire” sui lettori, vuole nutrirneorientarne l’immaginario e, da lì, il “sé”»; F. Cambi, op. cit., p. 134.Top
105 Ivi, p. 134.Top
106 Ibid.Top
107 Da notare in questa scrittura l’uso frequente delle slash, quasi a dimostrare l’integrazione continua tra gli elementi richiamati, contro l’artificiale divisione – dal punto di vista cognitivista- che eserciterebbero i docenti attraverso l’impostazione nozionistica del loro insegnamento.Top
108 Non si capisce in base a quale logica il carattere «sublime» del testo ne impedirebbe una «personalizzazione».Top
109 Di particolare ingenuità mi sembra l’uso, da parte dell’Autore, dei puntini di sospensione, come se si stesse anticipando una grande scoperta…. dell’ovvio!Top
110 Il richiamo a De Sanctis e Croce mi sembra acquisti nel testo un accento critico, obsoleto, quasi si trattassero di fossili inutilizzabili per la scuola; come del resto, e lo vedremo più avanti, l’intera categoria di storicismo.Top
111 F. Cambi, op. cit., p. 139.Top
112 Ivi, p. 135.Top
113 Ivi, p. 73.Top
114 Ivi, p. 27.Top
115 Ivi, p. 74.Top
116116 In realtà la didattica modulare, secondo il pedagogismo, dovrebbe essere estesa il più possibile a tutte le discipline. Cfr. anche Campione, Tagliagambe, op. cit., p. 13, secondo cui lo scarso successo della scuola repubblicana dipenderebbe proprio dall’avere disconosciuto tale metodologia in ragione di una didattica disciplinare: «Il fatto di aver mantenuto, e anzi accentuato, in tutti gli ordini scolastici, a eccezione della scuola elementare, un approccio marcatamente disciplinaristico, con conseguente segmentazione e frammentazione di un sistema del sapere sempre più refrattario a classificazioni rigide e caratterizzate da linee di demarcazione nette, non è a nostro giudizio, l’ultima fra le cause di degenerazione del sistema». Posizione opposta a quella sostenuta da Scotto di Luzio, per il quale l’elemento manchevole della scuola repubblicana nell’eccessivo peso dato al «concetto di differenziazione», il quale renderebbe possibile l’aumento eccessivo di importanza attribuito al momento comunicativo piuttosto che a quello disciplinare: esso «Vale non solo come riconoscimento del nesso tra la pluralità sociale e la molteplicità dei percorsi scolastici ma, soprattutto, come affermazione di principio di adeguatezza tra la scuola e le attitudini individuali dell’alunno. Vale a dire che il compito della scuola non consiste più, come nei modelli della nazionalizzazione ottocentesca, nella diffusione di un minimo di cultura comune, quanto nella possibilità fatta a ciascuno di accedere al massimo di cultura di cui è capace», A. Scotto di Luzio, op. cit., pp. 314-315.Top
117 F. Cambi, op. cit., p. 118.Top
118 Come già per la contrapposizione artificiosa tra «spiegare» e «comprendere», anche in questo caso viene attribuita, all’impostazione (già di per sé contestabile se considerata singolarmente) dello «spiegare» quella di creare una gerarchia per cui alcuni eventi (immaginiamo i fatti politici) sono considerati superiori alle considerazioni sociali, puro sfondo dei primi. Non è affatto così, come potrebbe dimostrare del resto la maggior parte della manualistica corrente, in cui ormai le problematiche giuridiche, economiche e culturali hanno pari rilevanza, sia pure – ed è questo che forse urta il nostro Autore – per meglio spiegare gli eventi del passato e coglierli nel loro giusto valore. Di conseguenza, non dovrebbe derivarne affatto l’abolizione a scuola della storia politica.Top
119 Ibid.Top
120 Ivi, p. 28.Top
121 Ivi, p. 74.Top
122 Ivi, p. 27.Top
123 Ibid.Top
124 Ibid.Top
125 In realtà Cambi, a differenza di altri autori, sembra sempre puntare sulla competenza disciplinare dell’insegnante, pur non facendone il momento centrale della sua professionalità; argomento, come ho detto sopra, in parte condivisibile, in quanto ogni attività d’insegnamento, tanto più quella liceale, non può non porsi la domanda di come trasmettere il sapere a seconda delle personalità e del grado di maturazione dei discenti. Altra cosa però è dare valore praticamente esclusivo alla competenza linguistica (e questo è l’esito della ricerca di Cambi stesso; si pensi che il capitolo in cui vi sono quei mediocri consigli di comunicazione disciplinare, cui sopra abbiamo fatto segno, si intitola «A partire dalla comunicazione»), tesi espressa con maggiore radicalità da Campione e Tagliagambe, i quali ritengono che la selezione dei docenti non debba affatto vertere sulla loro competenza disciplinare, bensì su queste abilità relazionali, immaginiamo da giudicarsi attraverso un esame d’abilitazione, in cui un pedagogista sottoponga il docente a particolari situazioni limite: «l’investimento su docenti e dirigenti deve essere massimo, fin dalla formazione e dalle procedure d’assunzione. Oggi entrambe queste fasi sono caratterizzate dal monopolio quasi assoluto degli aspetti disciplinari, mentre devono essere valorizzate assai di più le competenze relazionali e organizzative e deve crescere la possibilità di un uso flessibile delle risorse umane disponibili, da affidare alle decisioni collegiali sulla base delle scelte adottate di volta in volta», Campione, Tagliagambe, op. cit., pp. 229-230, dove ritorna, nei confronti dei docenti, la completa mortificazione della didattica individuale, a favore di scelte collegiali concepite in modo autoritario.Top
126 Una delle esperienze più interessanti verificatesi negli ultimi anni, nelle cosiddette “maxisperimentazioni”, è stata l’organizzazione di ore in compresenza, particolarmente interessanti anche perché concepite da iniziative dal basso degli stessi docenti; non programmate a tavolino secondo logiche ministeriali, hanno concepito un equilibrio tra l’autonomia delle singole discipline e le potenzialità critiche di un loro incontro. Questa possibilità, come del resto tutta la realtà delle maxisperimentazioni, non potrà più realizzarsi a partire dall’anno scolastico 2010-2011, solo per le classi del primo anno di corso, e negli anni successivi per scorrimento.Top
127 È all’insegnante che spetta, in primo luogo, la responsabilità della segnalazione. Nello scorso anno scolastico, per esempio, mi capitò di esaminare diversi editoriali, dedicati alla diffusione della corruzione in Italia, che richiamavano, a questo proposito, la differenza tra etica cattolica e protestante.Top
128 L’orientamento universitario è invero al centro dell’attenzione dei testi che abbiamo sottoposto ad analisi e aveva influenzato l’elaborazione del progetto di legge Moratti, laddove le scuole superiori erano strutturate in due bienni, e un ultimo anno di corso dedicato in modo specifico al passaggio universitario. Peraltro l’articolazione delle lezioni rimaneva tradizionale, e il disegno di legge non presentava altre precisazioni in merito. Non era però assicurato da nessuna parte del testo – e in questo caso la considerazione della figura docente coincide con i presupposti del pedagogismo – che la responsabilità di tale anno spettasse in via esclusiva agli insegnanti della scuola superiore. Per quanto riguarda l’università, la letteratura pedagogista difende con decisione l’attuale organizzazione degli studi universitari sintetizzabile nella formula 3+2: «Bisogna demolire l’opinione, radicata nel senso comune e alimentata dal cattivo funzionamento del mercato del lavoro, secondo cui il valore di una laurea magistrale è maggiore rispetto a quella di una triennale che a sua volta vale più di un diploma, e così via», in Campione, Tagliagambe, op. cit., p. 220. A distanza di qualche anno, le considerazioni disincantate sugli effetti del 3+2, confortate anche in questo caso da dati statistici probanti, sono numerose. Proporrei comunque la lettura delle amare considerazioni proposte in merito da A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 149-160. Nella stessa intervista e nelle pagine immediatamente precedenti, compaiono delle considerazioni sulla scuola che, pur limitate a poche e sintetiche osservazioni, esprimono a mio parere idee sulla professione docente tra le più consapevoli, cogliendo le concrete motivazioni che ogni insegnante degno di questo nome avverte nell’esercizio del proprio mestiere.Top
129 Ibid. Interpreto queste ultime due espressioni come la capacità dell’alunno di confrontarsi con pareri diversi dal proprio e accettarli, pur nella distanza dalle proprie opinioni; nonché nel sapere padroneggiare e riportare un dibattito critico in modo obiettivo, senza essere condizionato dalle personali convinzioni. Obiettivi disciplinari e formativi abitualmente segnalati nelle programmazioni dei consigli di classe.Top
130 La vera riforma della scuola che l’attuale esecutivo ha in mente è in realtà legata a un progetto di legge presentato dalla senatrice Aprea, in particolare dedicato allo stato giuridico sia della scuola sia delle categorie professionali che vi lavorano. Per la strutturazione gerarchica che prevede, permetterebbe in modo totale quella “libertà collettiva” a cui faceva riferimento Malinverno, e dunque l’imporsi delle impostazioni pedagogistiche.Top
131 Per le riduzioni d’orario delle materia d’indirizzo negli istituti tecnici e professionali, cfr. il parere del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione sul link: http://www.cgil.it/Archivio/formazione-ricerca/IstruzioneFormazione/ParereCNPI_Riduzione_orario_annuale_istituti_tecnici_e_professionali-26 agosto 2010.pdf. È indubbio che le scuole tecniche e professionali, che in passato avevano contribuito alla formazione di eccellenti figure professionali per l’industria italiana, attraversassero una crisi di organizzazione e di risultati; altrettanto indubbio è che la composizione dei consigli di classe fosse in alcuni casi anacronistica o oggetto di possibile razionalizzazione. Per razionalizzazione – pratica che sia il ministero dell’Istruzione sia quello dell’Economia si vantano di avere realizzato nei confronti del corpo docente – si dovrebbe intendere un intervento mirato, laddove la composizione del consiglio di classe si dimostri non adeguata o sovradimensionata rispetto alle esigenze didattiche; nulla di tutto ciò è stato fatto, anzi, nessun intervento ministeriale ha stabilito una riduzione diretta del numero dei docenti. La politica è stata invece un’altra: da una parte diminuire le ore dedicate alle diverse discipline, dall’altra aumentare gli alunni per classe; la conseguente riduzione dei docenti è avvenuta, per così dire, “a pioggia”, non interessando i settori dell’organizzazione scolastica dove era necessaria, ma tutti gli indirizzi in modo indiscriminato. Questi interventi però non sembrano affatto risolvere i problemi, ma aumentare le ragioni del dissesto, non affrontando le difficoltà strutturali ma addirittura andando a ridurre l’efficacia della didattica.Top
132 Nelle prime proposte ministeriali le due discipline mantenevano, nel liceo linguistico, lo stesso monte ore goduto in precedenza, che prevedeva due ore settimanali nel terzo anno per ciascuna, tre ore di filosofia e due di storia nel quarto anno, e tre ore per le due discipline in quinta, come al liceo scientifico. Successivamente, si è optato per una riduzione più drastica.Top
133 Si tratta di docenti alle prime armi, quando non addirittura di studenti che devono ancora completare un corso di studio, e che è sufficiente abbiamo una breve esperienza di studio all’estero.Top
134 Cfr. le osservazioni a proposito di S.C. Feliciani, La riforma dei programmi ministeriali di storia: lavori in corso, in Aa.Vv., L’insegnamento della storia nei nuovi cicli, cit., pp. 47-48, sulla nuova periodizzazione della disciplina di storia introdotta nel 1996 dal Ministro Berlinguer.Top
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