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Parità scolastica. A dieci anni dall’approvazione della legge n. 62 del 2000
di Eugenio Mazzarella
Dieci anni fa (10 marzo 2000) giungeva all’approvazione, Ministro Luigi Berlinguer – secondo Governo D’Alema – la Legge n. 62/2000: Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione. Era una legge molto attesa, da decenni; fin dai rapporti che tra scuola statale e scuole non statali – di enti e privati – nella cornice costituzionale della libertà di insegnamento, si erano definiti nell’art. 33 della Costituzione. E, al di là dei forti, e per certi aspetti scontati, posizionamenti ideologici su un tema del genere, molto anche temuta: da quanti pensavano potesse portare pregiudizio all’impegno dello Stato per la scuola pubblica statale, per le “sue” scuole.
La legge aveva avuto una lunga, quanto controversa, maturazione di condivisione di previsioni costituzionali da attuare, e non è un caso che la legge sia potuta nascere, e sia in effetti nata, in “ambiente” di governo di centro-sinistra, elettivamente più sensibile alle ragioni “laiche” della scuola pubblica statale.
Questo percorso di condivisione legislativa era stato nei fatti preparato dall’affermarsi di una cultura dell’autonomia nella gestione della cosa pubblica, di cui la politica, certo con i suoi tempi, si faceva interprete, anche in questo ambito e con questa legge. In effetti, fin dalla Conferenza nazionale della scuola tenutasi a Roma tra la fine di gennaio e i primi di febbraio del 1990, si era levato l’autorevole ammonimento di Sabino Cassese che fosse dovere costituzionale del potere centrale «non gestire, ma fissare gli obiettivi, valutare i processi, correggere le disfunzioni» del sistema scolastico.
In questa direzione un passo avanti decisivo era rappresentato dall’articolo 21 della Legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni e agli Enti locali e per la riforma della pubblica amministrazione e la semplificazione amministrativa), che conteneva i presupposti per la concessione alle istituzioni scolastiche statali di quell’autonomia didattica e gestionale («autonomia funzionale») da tanto tempo attesa e che sarebbe stata elevata a dignità costituzionale dalla riforma dell’articolo 117 della Costituzione (Legge costituzionale 3/2001, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, 24.10.2001).
Ne risultava che: a) lo Stato sarebbe stato l’esclusivo titolare dell’emanazione dei principi generali dell’istruzione pubblica, dai quali sarebbero scaturite le linee fondamentali dell’ordinamento scolastico e gli standard dell’offerta formativa; b) che i poteri delle regioni in materia scolastica (poteri legislativi esclusivi e concorrenziali) avrebbero incontrato un limite là dove entravano in gioco le prerogative dell’autonomia scolastica delle singole istituzioni educative.
La razionalizzazione della rete scolastica, richiesta per rendere praticabile l’autonomia scolastica prevista dalla Legge 59/1997, trovava il suo strumento nel D.P.R. 18 giugno 1998, n. 233 e nel regolamento del D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275. Com’è stato scritto, con una certa enfasi, ma non senza ragione, questa razionalizzazione portò ad una “strage” di scuole minimali (è la stagione degli accorpamenti “orizzontali” e “verticali”); ma alle “sopravvissute”, cioè al sistema messo a regime, era richiesto di farsi “maggiorenni”, di uscire cioè nella direzione dell’autonomia funzionale dalla tutela dello Stato nella loro finalità di assicurare nell’ambito dell’istruzione pubblica la libertà di insegnamento, ed educativa, e il pluralismo culturale.
Per il punto che qui ci interessa e di cui ricorre il decennale, l’autonomia in regime di sistema si estendeva anche alle istituzioni scolastiche parificate pareggiate e legalmente riconosciute «in coerenza con le proprie finalità» e «il loro ordinamento», purché disposte ad «armonizzare» i propri curriculi con il nuovo ordinamento autonomistico (era la previsione dell’art. 2). Erano mature, tutte, le condizioni, nell’attuazione dell’autonomia scolastica, della fine dell’emarginazione sospettosa, e qualche ragione ve ne era, dell’apartheid, come è stato detto, delle scuole non statali; che puntualmente arrivava con la Legge del 1° marzo 2000, n. 62: Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione.
A chiare lettere l’impegno dello Stato per l’espansione dell’offerta formativa trovava il suo strumento di attuazione nel «sistema nazionale di istruzione [...] costituito dalla scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali». Erano definite scuole paritarie «a tutti gli effetti degli ordinamenti vigenti, in particolare per quanto riguarda l’abilitazione a rilasciare titoli di studio aventi valore legale, le istituzioni scolastiche non statali, comprese quelle degli enti locali, che, a partire dalla scuola per l’infanzia, corrispondono agli ordinamenti generali dell’istruzione, sono coerenti con la domanda formativa delle famiglie e sono caratterizzate da requisiti di qualità ed efficacia», (art. 1, § 2). Svolgendo «un servizio pubblico» le scuole paritarie sono aperte a «chiunque, accettandone il progetto educativo, richieda di iscriversi, compresi gli alunni e gli studenti con handicap; il progetto educativo indica l’eventuale ispirazione di carattere culturale e religioso; non sono comunque obbligatorie per gli alunni le attività extra-curriculari che presuppongono o esigono l’adesione ad una determinata ideologia o confessione religiosa» (art. 1. §3).
La parità era riconosciuta alle scuole non statali che ne facessero richiesta e che fossero in possesso dei requisiti di qualità e di efficacia previsti dalla legge (art.1,§ 4), tra cui mette conto di rilevare il requisito di «un progetto educativo in armonia con i principi della Costituzione». La legge ci teneva a far sapere che il finanziamento era «a favore delle famiglie» e non «a favore delle scuole», cosa che avrebbe rappresentato, nella corrente interpretazione restrittiva, una violazione dell’art. 33, § 3 della Costituzione.
Sono significativi, a futura memoria delle richieste che sarebbero emerse e dei problemi di attuazione che sarebbero sorti, gli ordini del giorno a corredo della legge con cui il Governo si impegnava:
– a sostenere le scuole istituite e gestite dagli enti locali, sì da prevenire le eventuali difficoltà che sarebbero potute derivare dalla legge;
– a garantire l’esistenza anche delle scuole private che non intendessero accedere al sistema paritario (materia del resto protetta dalla Costituzione ex art. 33, § 3, senza oneri per lo Stato);
– a ricercare nuove convergenze, nuove soluzioni a sostegno di una parità effettiva, anche in armonia alle forme e ai modi adottati nell’Unione Europea;
– a stabilire un tetto minimo di spesa scolastica per la fruizione dei benefici previsti.
Con questo raggiungimento legislativo, la frequenza alla scuola paritaria era riconosciuta a pieno titolo come assolvimento del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione protetto dalla Costituzione, ed è importante notare che la previsione molto gridata che le scuole dei privati sarebbero prosperate a danno della scuola pubblica governativa, sul piano dei grandi numeri, è stata smentita dai fatti. Se nell’anno scolastico 1971-72 gli alunni iscritti a scuole non statali legalmente riconosciute erano oltre 2 milioni, nell’anno scolastico 2005-06 il loro numero era pressoché dimezzato. Il che vuol dire che il combinato disposto «legislazione dell’autonomia-parità scolastica», nonostante il cammino che resta da fare, ha funzionato non solo nel razionalizzare l’offerta scolastica della scuola “statale”, ma anche nell’asciugare realtà formative private non consone agli standard di sistema richiesti all’esercizio della così riarticolata funzione pubblica dell’istruzione, e nell’innalzare il livello complessivo dell’offerta formativa, i cui persistenti limiti non hanno certo qui, nei principi ispiratori dell’autonomia e della parità scolastica la loro genesi. Piuttosto a generare questi limiti è la loro incompiutezza sotto il profilo della qualità complessiva delle loro linee di attuazione, legata per un verso a insufficienze normative e per altro, cosa che molto mette conto di sottolineare, all’insufficiente impegno dello Stato in termini di spesa per l’istruzione pubblica, anche come efficienza nell’allocazione delle risorse.
Di qui la legittimità dell’istanza «dalle parole ai fatti: completare la legge 62/2000» ancora avanzata dal Consiglio Nazionale dell’AgeSC (Asssociazione Genitori Scuole Cattoliche) nel gennaio 2010, parte in causa tra le più attive sulla questione.
Come hanno risposto le forze politiche, e i Governi di segno diverso che si sono succeduti in questo decennio della parità scolastica, a quest’istanza dell’AGeSC, che, se posta, evidentemente sottende la convinzione che non tutto è stato fatto per dar corso alle previsioni della legge 62/2000, neanche dai governi di centrodestra elettivamente “amici” in Italia della scuola cattolica e delle sue richieste? E dico elettivamente amici perché è del tutto evidente che le finalità del sistema scolastico enunciate all’art. 1 della legge Moratti 28.3.2003 n. 53, nel condiviso richiamo alla «persona umana» come centralità educativa, nei vincolanti orizzonti dei «principi della Costituzione», con la legge Berlinguer 10.2.2000 n. 30, pur tuttavia nel richiamo espresso alle «scelte educative della famiglia» (art. 1) e alla «formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione, e (al)lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale e alla civiltà europea» (art. 2), espongono una sensibilità diversa, ed una differenziazione ideologica, e ideale, effettiva, rispetto al simmetrico richiamo all’art.1 della Berlinguer dei «principi stabiliti dalla Costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», che vira evidentemente verso l’ancoraggio del personalismo educativo all’universalismo della cittadinanza, più che al radicamento culturale (storico, spirituale, valoriale) dell’istituto familiare come nella Moratti, più prossima – sul piano delle finalità dichiarate – alla richiesta delle scuole paritarie di ispirazione cattolica che l’attuazione della parità scolastica sia intesa, e debba essere intesa, nel senso di un’implementazione del carattere di sussidiarietà dell’impegno dello Stato nell’istruzione pubblica; il che oggettivamente dovrebbe rappresentare se non un favor del Legislatore verso la scuola paritaria quanto meno il venir meno degli ostacoli all’attuazione effettiva della parità scolastica, e dell’idea che la sussidiarietà sia considerata «un principio astratto non adattabile alla scuola»; idea che fin che domini di fatto comporta, per i fautori della sussidiarietà dello Stato all’impegno educativo della famiglia, che «la libertà di educazione continuerà ad essere negata» e «la famiglia e i genitori vengono considerati entità residuali» nel processo educativo. In quest’ottica, la pienezza del diritto costituzionale alla libertà di educazione si fa effettiva con il venir meno di questi pregiudizi, ed un segno di questo venir meno sarebbe l’effettività del sostegno ad un diritto costituzionale garantito da finanziamenti adeguati e ordinari dello Stato alle scuole paritarie private. Sul che anche i Governi “amici” del centrodestra avrebbero delle mende.
Non per scusare i Governi di centrodestra, che si scusano benissimo da sé, ma il punto è che le aspettative ideologiche di una sussidiarietà “dura e pura” richiesta allo Stato nell’impresa sociale della funzione pubblica dell’istruzione tengono fino ad un certo punto.
Potrà anche dispiacere a chi come l’AGeSC da sempre perora la causa delle scuole paritarie private, ma è un fatto che, in effetti, il principio della sussidarietà è adattabile solo fino ad un certo punto alla scuola, e questo spiega i limiti intrinseci di attuazione della “parità” scolastica in un sistema pubblico dell’istruzione quale è quello previsto dal nostro ordinamento costituzionale (il che non significa negare la libertà di insegnamento né tanto meno considerare la famiglia e i genitori entità residuali nel diritto-dovere all’educazione che l’impegno dello Stato deve garantire, ovvero sottrarsi all’impegno non derogabile di rendere effettiva la parità scolastica garantendole le opportune risorse in via ordinaria alle sue esigenze nel quadro della funzionalità piena del sistema pubblico dell’istruzione inclusivo della scuola paritaria). E questo spiega perché i comportamenti dei Ministri della pubblica istruzione come ministri dello Stato alla fine divergano meno del previsto, né possano proporsi di farlo, nell’attuazione della parità scolastica.
La pari dignità nel sistema pubblico dell’istruzione riconosciuta dalla legge 62/2000 nei diritti e nei doveri nell’assolvere la funzione pubblica riconosciuta alla scuola privata paritaria, e tra questi diritti c’è certamente il sostegno effettivo all’assolvimento della funzione riconosciuta, non può tradursi, neanche in linea di principio, nella rivendicazione “secca” della mera sussidarietà dello Stato – una sorta di ideale regolativo – nell’attuazione del dirittodovere, dell’“obbligo” dell’istruzione dei cittadini. L’obbligo “universale” all’istruzione nasce nello spazio pubblico della statualità, ed è sua funzione non sussidiabile, ma al più entro certi limiti surrogabile da sfere sociali sottordinate. E per quanto riguarda il nostro paese, quest’obbligo è una missione di cittadinanza repubblicana dello Stato democratico liberale sancito dalla Costituzione che può essere devoluta solo in parte; e per ragioni di limiti empirici, storico-fattuali, all’azione e alla capacità dello Stato; limiti già presenti nella nostra tradizione unitaria, che sia la legge Casati del 1859 sia il Testo Unico 22 gennaio 1925 n. 23 (ministro fascista Pietro Fedele) registravano, “scaricando” su o “consentendo” a enti locali, comuni, e privati, oneri e impegni di pubblica istruzione. Insomma la scuola non statale (di enti e privati) nasce da una devoluzione di compiti dello Stato che sussume sotto di sé, normandola, e così “riconoscendola” una realtà preesistente; e questo per motivi di opportunità sia politica che amministrativa, che la Costituzione repubblicana riconoscerà poi anche nei loro presupposti valoriali. E tra questi presupposti valoriali, di cui è stata data prova storica nei decenni più bui del Novecento europeo, c’è certo la tutela, prima ancora della libertà di insegnamento, del culto della libertà in generale, quando lo Stato vi sia venuto meno, tralignando nell’illiberalità autoritaria. Anche il buon senso e la vicenda storica hanno giustamente consigliato e consigliano la tutela «democratico liberale» della scuola privata orientata a valori confessionali preminenti della nostra tradizione.
Se di devoluzione di compiti si tratta, e non di sussidiarietà come ideale regolativo da implementare nella realtà dell’erogazione di una prestazione essenziale dello Stato, il diritto-dovere all’istruzione, il controvalore di questa devoluzione è la funzione surrogatoria della scuola non statale all’esercizio statale diretto della funzione pubblica dell’istruzione. E questa devoluzione anche storicamente, nel nostro paese, si è espressa, per ovvie ragioni (innanzi tutto la diffusività della rete scolastica da coprire) soprattutto nella scuola dell’infanzia ed elementare.
Questo effetto di sistema, al di là delle sue pur incidenti preesistenze storiche, è strutturale e spiega ad esempio la condivisione, a parità conseguita, di governi di opposto segno politico del sostegno alle scuole paritarie soprattutto per quanto attiene alle scuole della primissima infanzia: ne fa fede l’istituzione di Fioroni delle classi primavera, destinate agli enti locali e al volontariato, sostenute con 10 milioni di euro messi a disposizione dal Ministero della solidarietà sociale; e l’impegno che vi conferma la Gelmini con 30 milioni nel 2008-2009 e con 50 milioni nel 2009-10 per zone disagiate e montane.
«Le scelte educative della famiglia» e «la formazione spirituale e morale anche ispirata ai principi della Costituzione», ed è significativo quest’anche, certo si radicano nei presupposti di cui vive anche lo Stato liberale secolarizzato, e che esso non può garantire, giusto il noto paradosso di Böckenförde («Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire»); si nutrono dello «sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale e alla civiltà europea», e in questo sviluppo ci sono le «radici cristiane» e per quanto riguarda l’Italia l’educazione cattolica, giusto il richiamo delle finalità della legge Moratti, ma lo spazio pubblico dell’istruzione non vive solo dei presupposti del retaggio educativo familiare in questo senso, ma anche dell’educazione del cittadino ai valori della laicità repubblicana. Istanza che non è laicismo, ma educazione ad uno spazio pubblico condiviso dove possono e devono entrare in relazione, convivendo ordinatamente, presupposti culturali, spirituali e morali, e conseguenti scelte educative le più diverse. E quest’istanza è un orizzonte non dismissibile nelle problematiche dell’istruzione pubblica che lo Stato deve garantire quando la convivenza di presupposizioni di mondi vitali culturali e religiosi si fa plurima nel contesto delle società multietniche e multiculturali, ben più che per il passato, quando la dialettica era ristretta al segno più o meno di una singola credenza religiosa pervasiva dell’intera società, insomma alla dialettica post-unitaria laici-cattolici.
Insomma l’educazione pubblica statale è inclusiva di un elemento eticomorale, spirituale, oggi leggibile come aggiuntivo più che oppositivo come per il passato alle fonti storiche spirituali e culturali di cui come educazione statale vive, e che non può, né forse deve garantire; e questo elemento aggiuntivo, ma non secondario, last but not least è il caso di dire, arrivato per ultimo, ma non ultimo, è l’educazione ad un’area di consenso ai valori repubblicani dove possano liberamente vivere ed esprimersi nel reciproco rispetto diversi presupposti storico-spirituali, da cui discendono diverse e plurime sensibilità educative familiari. In definitiva nella società multiculturale, proprio a proteggere l’orientamento educativo familiare, il ruolo pubblico della scuola statale è destinato a crescere e non a diminuire, non per laicismo ma per la laicità necessaria ad una società plurivaloriale proprio nell’ambito familiare. Il che, come insegna la cronaca quotidiana, non sono solo rose, ma anche spine.
Non solo, ma oggi della scuola statale più che temere la capacità di avocare a sé le scelte educative delle famiglie, è da temersi il suo patire l’eclisse educativa in essa importata dall’essere affollata di giovani che hanno in gran parte perduto il sostegno educativo e i valori di una famiglia che non c’è. Un sintomo è il fenomeno del bullismo, su cui non a caso con accenti diversi si sono impegnati sia il Ministero Fioroni che il Ministero Gelmini. La propensione alla scuola paritaria, tendenzialmente confessionale, di molte famiglie, oltre che dovuta a legittime motivazioni ideologiche, è leggibile anche come timore della debolezza percepita dell’istituto famiglia nella società di oggi e del travaso di questo fallimento nella scuola pubblica, che i figli di quelle famiglie accoglie, e come esigenza di proteggersi socialmente aggregandosi con famiglie che abbiano un idem sentire del valore della famiglia in una scuola, quella paritaria confessionale, vissuta come meno dispersiva di valori già socialmente a rischio.
Il problema è epocale e non ha soluzioni in enclaves educative, per quanto “curate” dalla mano pubblica e dall’impegno generoso dei privati, ma in un ripensamento della famiglia cui la scuola può concorrere, ma che attende prese in carico di responsabilità sociali più ampie di quelle cui può assolvere la scuola in genere, ivi inclusa la scuola paritaria. Qui si tratta di pensare un investimento sociale sulla scuola poderoso, e che darà lavoro educativo per decenni tanto alla scuola pubblica statale che paritaria. Ma di quest’investimento si stenta a vedere le tracce nelle recenti finanziarie, e certo il problema non sarà risolto dal tirare la coperta già troppo corta da una parte o dall’altra.
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