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Di che vita morire
di Giuseppe Galasso
È bello, nel libro di Antonio Del Pennino, innanzitutto il titolo. Bello non solo letterariamente, ma anche perché in una breve frase dice l’essenziale del tema che vi è trattato. È, peraltro, soltanto l’intelligente e semplice inversione o modificazione di un modo di dire conosciutissimo: “di che morte morire”. Qui il titolo è: Di che vita morire.
Naturalmente, è in gioco il valore della vita, o, meglio, la vita come valore prioritario nella considerazione delle cose umane. È stato sempre così. Non occorre mettere in campo particolari ragioni religiose, siano pure quelle, particolarmente alte, che sono proprie del Cristianesimo. Uno dei tratti più commoventi e più alti della poesia omerica è quando Achille, visitato agli Inferi da Ulisse, che ne ricorda e ne esalta la gloria immortale e la memoria del suo insuperabile valore militare, esprime invece il suo sincero rincrescimento per la vita perduta e per la pallida sopravvivenza nel Regno delle Ombre: qualsiasi vita, dice, anche la più modesta e meno nobile, val più di qualsiasi più gloriosa condizione agli Inferi, spenta la luce della vita. Alla vita è stata sempre connessa la misura ultima, suprema dei valori in generale: come quando si dice che “l’onore vale più della vita”, o come quando Dante parla della libertà, «ch’è sì cara – dice – come sa chi per lei vita rifiuta» (e si riferiva, come si sa, a Catone, suicidatosi per non sottostare ai trionfali successi di Giulio Cesare, considerato quale soppressore della libertà repubblicana di Roma). Il sacrificio della vita è pure, in tutte le religioni, la misura della fede, la testimonianza della fede, che contempla ed esalta, da questo punto di vista il martirio (e “martureìn” significa, come è noto, per l’appunto, “testimoniare”), ma lo è altrettanto in innumerevoli casi che riguardano la sfera politica e i suoi valori. Questo riferimento alla vita come massima misura dei valori è, anzi, – e bisogna notarlo – molto più forte del riferimento inverso ai valori come misura della vita. Quando si chiede: “questa vita vale la pena di essere vissuta?”, si evoca, appunto, una tale inversa misura. I Latini avevano, per loro conto, risolto radicalmente il problema in una delle loro più conosciute massime di sapienza, insieme, popolare e filosofica: “primum vivere, deinde philosophare”. La priorità della vita era evidentemente stabilita, qui, in quanto precondizione assoluta di qualsiasi condizione o attività umana. Se c’è la vita, si può parlare dell’uomo e dei suoi problemi; se non c’è, ogni discorso al riguardo diventa superfluo, ancor più che inutile.
Nel libro c’è pure un capitolo interessante, e anche sorprendente per chi di Del Pennino ha l’idea di un uomo tutto terrena concretezza e joie de vivre, molto alieno dai cupi pensieri del “destino ultimo”, come egli lo definisce, dell’uomo, e forse ancor più alieno dagli otia letterari: che è un’idea su di lui, me lo si lasci dire, non solo inattendibile, ma anche piuttosto volgare. Egli è, invece, in queste cose come in politica, uomo di molte e molto meditate e coltivate passioni e convinzioni, vissute con una grande serietà interiore, malgrado la patina di epicureo e libertino incallito che egli stesso si compiace di esibire con gli stessi amici che più lo conoscono: figuriamoci nei privati conversari e in feste o festini.
Il capitolo ripercorre il tema della morte dell’uomo nei classici greci e romani, ai quali è data una breve appendice sul pensiero contemporaneo, tutta accentrata, però, sul problema del suicidio, e con una prevalente concordia dei testi qui citati nella difesa del suicidio come libera possibilità dell’uomo di sottrarsi a eventualità sgradite o indegne. Che, però, sia detto per inciso, non è la soluzione più entusiasmante o più facilmente accettabile del problema riguardante la considerazione che si deve o si può avere della morte. Inserito nel contesto del libro, anche questo capitolo ha un suo ufficio convincente. Ricorda che quella materia dell’alternativa tra la vita e la morte è una materia, come noi stessi abbiamo accennato, antica, e, fin dall’antichità, opinabile.
Il forte del libro è, comunque, nella delicatezza, ma anche perentoria chiarezza con cui vi è affrontato, da parti e voci diverse, il problema della decisione di porre fine alla vita, da parte dell’interessato o da chi per lui, nei casi in cui si può parlare di “chi per lui”.
Facile sarebbe puntare su questa diversità di voci e di parti: da un lato i credenti, dall’altro i non credenti, tra i quali lo stesso Del Pennino si annovera; gli uni a dir sempre vita, gli altri a dir sempre non già morte, bensì libertà di morte.
All’epoca in cui il presidente F.D. Roosevelt fissò il quadro delle “quattro libertà” fondamentali per l’uomo, nessuno avrebbe pensato che si sarebbe potuto un giorno rivendicare, tra le altre libertà civili, quella di scegliere di morire, magari debitamente assistiti da istituti e personale medico. Poi le cose sono mutate, e sono mutate essenzialmente non tanto per una spontanea evoluzione nella concezione dei diritti civili e personali, che pure negli ultimi decennii c’è stata, ed è stata notevolissima, quanto per il fatto che si è determinata una condizione, al tempo stesso, sociale, scientifica e tecnica totalmente diversa anche da quella di un passato molto vicino a noi.
Lo rileva nel libro di Del Pennino, con parole ineccepibili, il cardinale Martini. Che un esponente così autorevole del mondo cattolico, il quale sulle posizioni cattoliche basa, ovviamente, tutto il suo pensiero, pronunci parole di questo genere è, di per sé, un fatto significativo, ancor prima e ancor più che importante. «Tanti problemi – ha detto il Cardinale – si pongono adesso per l’uomo perché la medicina ha avuto uno sviluppo tecnologico immenso; può fare quasi tutto, la gente pensa che possa fare miracoli. Quindi ci si trova di fronte a una nuova coscienza del malato, del morente e della morte. Perciò i problemi sono nuovi, e sono problemi a cui non è facile trovare risposta». Nuovi, cioè, anche rispetto alla considerazione cristiana della morte e al debito morale dell’assistenza senza limiti alle persone inferme e deboli, che nel Cristianesimo sono di ascendenza addirittura evangelica, ma erano finora diversi, perché fondati unicamente sul dovere della cristiana caritas verso il prossimo, non sulle situazioni determinate dal progresso tecnico e scientifico, al quale giustamente si richiamava il cardinale Martini.
Questa genesi di una così complessa problematica nuova sotto la sollecitazione di una serie di svolte profonde sul piano scientifico-tecnico prima e più che sul terreno delle rivendicazioni contemporanee di un allargamento pressoché illimitato delle libertà personali e civili ha una importanza particolare. Toglie qualcosa, se vogliamo, alla spontaneità della tensione umana e morale, personale e sociale della richiesta di una inedita “libertà di morire”, ma nello stesso tempo conferisce a questa richiesta il peso di un portato oggettivo di circostanze storiche di eccezionale rilievo. Le quali circostanze sono poi anche quelle che danno al problema della “libertà di morire” il suo senso nuovo.
Una tale libertà, che si concreta nella possibilità del suicidio o nella decisione di sacrificare la propria vita in battaglia o in altri modi per una causa o per una bandiera, e in tutte le possibilità affini o difformi rispetto a questi casi topici, c’è sempre stata, in effetti, e può essere stata apprezzata o deprecata, ma si è da sempre imposta come una eventualità sempre aperta sull’orizzonte dell’esperienza e della vita dell’uomo.
Oggi, però, non si tratta più di questo. Del Pennino ha colto bene la maturazione del problema nuovo della morte, oggi. Oggi si tratta della morte che la scienza può evitare in quanto interruzione totale e definitiva delle attività fisiche vitali, perché le possibilità tecnico-scientifiche al riguardo sono enormemente cresciute, ma che può anche spingere a procurare, invece, in un qualsiasi momento, sulla base di una diagnosi di definitiva inalterabilità della condizione di una vita ridotta a pura vegetazione incosciente di un corpo senza più attività minimamente riconoscibili di una qualsiasi elementarissima percezione non solo del proprio reale status fisico, ma, ancora di meno, di esserne il soggetto, il paziente.
Che vita è questa? La domanda antichissima risuonata a proposito dei più diversi stati e condizioni o esperienze di vita, e che, è facile prevederlo, continuerà a risuonare domani, e finché l’uomo ci sarà, e sarà quello che noi conosciamo, assume qui un significato del tutto nuovo. Si tratta ora di una vita che può essere presidiata e prolungata indefinitamente dai medici e dalle possibilità che ad essi fornisce la scienza medica in tutte le sue ormai innumerevoli specializzazioni, da quelle biologiche e biogenetiche a quelle protesiologiche e farmacologiche. Si tratta, però, anche di una vita privata di ogni, anche minima, autonomia fisica, senza più possibilità di dialogo e di comunicazione umana non solo a livello sociale, bensì anche a livello soggettivo, a livello del rapporto del vivente con sé stesso, e soprattutto, in misura ancora maggiore e più impressionante, privo di qualsiasi discernimento o facoltà volitiva.
Vivente? È su questo punto che si è innestata la grande discussione – una di quelle umanamente, teoricamente e socialmente più impegnative del nostro tempo – della quale il libro di Del Pennino è un’acuta e validissima versione. Da una parte ci sono coloro che ritengono che quel corpo sopravvivente a livello delle funzioni fisiche elementari e indispensabili solo col sussidio di un’assistenza completa e ininterrotta, oltre che molto complessa, non viva più di una vita naturale, bensì solo di una vita artificiosamente mantenuta in essere dalla scienza e dalla tecnica, ma senza più significato umano e sociale: pura vegetazione che ha un significato ormai essenzialmente tecnico e artificioso.
Ed è, appunto, in rapporto prima di tutto, anche se non esclusivamente, a condizioni di questo tipo che viene ora rivendicata una nuova e inedita “libertà di morire”. Dall’altra parte ci sono coloro, quasi sempre, ma non soltanto ispirati da ragioni religiose, per cui qualsiasi tronco umano, la cui vita non sia interrotta dalla morte naturale clinicamente accertata, è sempre un vivente a pieno titolo e a ogni effetto; lo stato di miseria fisica, anche spinto all’estremo, le sofferenze più dure e insopportabili, l’insufficienza vitale giunta ai massimi livelli, la impossibilità materiale di ogni e qualsiasi ragione di comunicazione sociale, la nessuna riconoscibilità di una qualsiasi forma o misura di soggettività attiva non cambiano minimamente né la radice, né la realtà, né i diritti della condizione umana del soggetto; soprattutto non cambia il diritto alla vita di quel soggetto e la impossibilità di riconoscere ad alcuno il diritto o il mezzo giuridico e sociale di porre fine a una vita che la natura non abbia, essa, interrotta e spenta; e, in definitiva, la dignitas hominis, il massimo valore che da qualsiasi parte si possa invocare in materia di umanità, non è in nulla e per nulla toccata dalle condizioni fisiche del soggetto, che è homo pienamente dignus fino all’ultimo respiro consentitogli dalle sue possibilità vitali.
Posta in tali termini, la questione diventa irresolubile, nel senso che essa consente solo l’uno o l’altro corno di una alternativa inconciliabile. Sennonché, come traspare anche dalle già citate parole del cardinal Martini, i problemi che oggi si devono affrontare sono realmente nuovi, inediti, e non sono neppure tutti quelli che, nella scia del progresso tecnico-scientifico, potrebbero porsi anche di qui a pochi o pochissimi anni. Arroccarsi e chiudersi a riccio sulle posizioni dei cosiddetti laici o su quelle fideistiche, di qualsiasi stampo o credo esse siano, non porta molto lontano. Si prenda, ad esempio, l’abisso di vuoto legislativo che, come molto giustamente nota Del Pennino, è stato rilevato dai casi Welby ed Englaro. Quel vuoto dev’essere riempito, e non alla bell’e meglio, ma con disposizioni legislative umane, liberali, rispettose quanto più si può di tutte le istanze morali e religiose, civili e costituzionali, private e pubbliche, ideali e tecnico-scientifiche, teoriche e pratiche, che una così grave questione implica. E come si pensa di arrivare a un tale fine, o, almeno, di avvicinarvicisi, senza una qualche mediazione, senza qualche reciproca concessione tra i contendenti, senza un po’ di spirito di pace tra gli opposti campi?
La domanda non è banalmente empirica. È imposta anche e soprattutto da quel che finora si è visto. Quel che si è visto è, infatti, che molto difficilmente, tanto difficilmente da far considerare una tale eventualità del tutto improbabile, si riuscirebbe a imporre l’uno o l’altro orientamento. Si è visto, anzi, tanto da far credere estremamente probabile, invece, che, se anche a livello normativo si riuscisse a far passare l’una o l’altra posizione nei suoi termini più schietti, ne potrebbe venire alimentato un fenomeno macroscopico di disobbedienza civile da parte dei fautori della tesi che rimanesse soccombente nel dettato legislativo.
Il grande, forse il maggiore merito del libro di Del Pennino sta proprio nel rendere conto della estrema opportunità di cercare e trovare una soluzione non già, come banalmente ed erratamente si dice, di compromesso, ma altamente politica per uscire fuori dalle secche di una contrapposizione frontale e irrimediabile, che rischia o di perpetuare vuoti legislativi di vario genere o di imporre soluzioni che una metà del paese continui a respingere non solo nel foro interiore, ma in concreto e materialmente nella applicazione della legge, con danno gravissimo, oltre tutto, anche della disciplina civica in un paese che, per questo aspetto ancor meno che per altri, non brilla.
L’aver riunito intorno a un immaginario tavolo voci e coscienze diverse, di cattolici e di non credenti, di politici e opinionisti e di tecnici del ramo, è già in atto, almeno ai miei occhi, una indicazione di metodo. Si tratta di uscire fuori dalla drastica contrapposizione di accanimento terapeutico e di pura e semplice soggettività in materia di living will. Di legiferato c’è già, come è noto, più di qualcosa, e tuttavia il più essenziale e il più difficile aspetta ancora un’accettabile e quanto più possibile condivisa sistemazione normativa. E, per quanto ci riguarda, giungiamo a dire che qualsiasi, benché imperfetta e non del tutto omogenea, soluzione fosse possibile raggiungere col consenso di un arco amplissimo delle opinioni e delle coscienze degli italiani, andrebbe sen’altro auspicata e favorita. Non crociate laiche o confessionali sono qui possibili. Chi nutre l’idea della crociata farebbe bene a ricredersi al più presto. Sono possibili soluzioni umane, molto liberali quanto alle norme applicative, ma chiare nelle disposizioni di fondo. Il libro di Del Pennino è, se ho bene inteso, anche sulla base delle sue idee di laico e non credente, un vero e proprio appello agli uomini di buona volontà. E la buona volontà è proprio l’ingrediente umano e civile di cui in questa drammatica questione vi è più bisogno.
Aggiungo solo due notazioni.
La prima è per chiarire che lo spirito di conciliazione di cui abbiamo sopra accennato è proprio l’opposto dello spirito di compromesso inteso come logica del dare, come volgarmente si dice, una cosa a te e una cosa a me. La chiarezza delle idee è essenziale proprio ai fini della conciliazione. L’auspicio di Del Pennino – che per parte nostra condividiamo – è che prevalgano le ragioni sottintese nel titolo del volume: di che vita morire. Una conciliazione pasticciata non servirebbe effettivamente a nessuno, accrescerebbe soltanto le difficoltà di applicazione della legge e le probabilità di fenomeni massicci di disobbedienza civile. Una soluzione chiara, anche se spinta in una determinata direzione, purché senza eccessi e, meno che mai, estremismi è l’unico sbocco auspicabile della difficile questione.
La seconda notazione è per ribadire che a un tale sbocco può condurre solo un’azione, come abbiamo detto, altamente politica, dove, come dovrebbe essere superfluo precisare, la parola “politica”, una volta tanto, dovrebbe indicare ciò che etimologicamente ed elettivamente essa dovrebbe sempre indicare, e cioè qualcosa che riguarda la polis, la civitas, ossia, in ultima analisi, i cittadini, manifestazione del più alto impegno civico, di quell’impegno che deriva dalle ragioni per cui tantissimo tempo fa Aristotele definiva l’uomo come animale politico: una delle definizioni più belle che dell’uomo siano state mai date.
Alta politica qui non solo non significa bassa politica, ossia quel che comunemente si intende per politica e che per essa non è per nulla onorevole. E non allude nemmeno alle ragioni cosiddette di alta politica, nel senso di riguardare determinati interessi pubblici, magari della ragion di stato. Significa semplicemente una politica di alta qualità, una politica all’altezza delle questioni con le quali è chiamata a confrontarsi. Come quella che nella sua intervista a Gioielli Del Pennino più volte adombra, e adombra, tra l’altro, con una coraggiosa distinzione del credente e del non credente di fronte alla morte, apertura di una nuova vita per il primo e conclusione di tutto per il secondo, che pure si dovrebbe trovare un modo di far valere nel senso dallo stesso Del Pennino auspicato e al quale ci sentiamo senz’altro di aderire.
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