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Asterischi
di Giuseppe Galasso
L’ETÀ DELL’ITALIA UNITA

Tra i motivi delle innumerevoli critiche, revisioni, rinnegamenti e nelle meno frequenti esaltazioni e difese dell’Italia unita ricorrenti per il compimento dei primi centocinquant’anni dell’unità, l’elemento temporale non è mai presente, se non per ricordare, appunto, questo rotondo anniversario. Eppure, la cronologia richiederebbe una ben diversa considerazione. La durata di una formazione politica, di una entità istituzionale, di una realtà sociale e culturale costituisce, infatti, una dimensione di primo piano per un giudizio storico su di essa. Vediamo allora che cosa nel quadro della storia contemporanea rappresenta l’età dell’Italia unita.
Poche, a ben vedere, sono le realtà politiche che negli ultimi due o tre secoli hanno avuto la stessa longevità. Esempio massimo, forse, la Germania, che, unitasi nel 1871, appena dopo l’Italia, ha perduto fin dal 1945 quasi una metà del suo territorio di allora, dopo di essere rimasta divisa dal 1949 al 1989 in due Stati. Un caso di non minore importanza è quello dell’Unione Sovietica, fondata nel 1922 e durata un po’ meno di settant’anni, lasciando alla sua erede Russia un territorio e una popolazione nettamente minori di quelli di dopo la seconda guerra mondiale e di quelli storici della Russia zarista. Poco più di settant’anni, dal 1918 al 1992, sono anche durate la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, formate con tante aspettative e pretese alla fine della prima guerra mondiale, e ora divise la prima in cinque o sei Stati, la seconda in due. L’Italia presenta, invece, oggi un territorio nazionale ridotto rispetto a quello del 1940 (310.000 kmq.) per la perdita della Venezia Giulia e di Zara, ma che, tuttavia, è tuttora più esteso (301.000 kmq.) non solo di quello del 1861, ma anche di quello del 1866, dopo l’annessione del Veneto, e del 1870, dopo l’annessione di Roma (286.000 kmq.).
Se poi si guarda ai regimi, le cose non cambiano di molto. La Terza Repubblica, una delle più brillanti esperienze politiche europee, durò in Francia settant’anni; la Quarta meno di quindici anni; la Seconda quattro anni; la Prima dodici anni; e solo la Quinta ha pressappoco superato il mezzo secolo. Dal 1792 ad oggi la Francia ha poi trovato il modo di darsi più di una quindicina di costituzioni, con esperienze di regime diverse, fra le quali quelle dei due Napoleoni, il grande (una quindicina di anni) e il piccolo (una ventina di anni). In Germania l’orgogliosissimo e potentissimo Secondo Reich non riuscì a completare il mezzo secolo di vita; la Repubblica di Weimar e il regime nazista durarono un dodici o tredici anni ciascuno; e solo con l‘attuale Repubblica Federale si è oltre il mezzo secolo. Nello stesso periodo di tempo altri paesi europei, come quelli iberici e come quelli dell’autentico “ventre molle” del continente costituito dalla grande area tra il Mar Baltico e il Mare Egeo, hanno avuto vicende ancora più travagliate (e la Spagna, fra l’altro, con una guerra civile che in tre anni, 1936 -1939, fece più di un milione di morti). L’Italia al confronto non sfigura: più di sessant’anni la monarchia liberale sotto la quale si unì nel 1861, una ventina di anni il regime fascista, e altri più di sessant’anni la Repubblica attuale.
L’età politica e storica dell’Italia è, insomma, rispettabile. Oggi l’unità sta per tirare le cuoia? Molti, si sa, lo auspicano o lo giudicano inevitabile. Ma la prudenza, che si nutre, se non altro, di memoria e di riflessione storica, induce a una certa perplessità. Anche altri grandi paesi sono apparsi a volte sull’orlo di divisioni o scissioni fatali, che poi non ci sono state. E anche perciò la considerazione della durata dell’unità italiana è importante. Nella storia (ma non è lo stesso nella vita?) ciò che dura a lungo acquista fatalmente legittimità e validità, e, per lo più, solo violenze e colpi dall’esterno lo pregiudicano. Non è, certo, un’assicurazione assoluta, ma pure ha il suo peso.

* * *


BRIGANTAGGIO E DINTORNI

È duro, ormai, leggere certe cose sul Risorgimento e sull’unità italiana. Lasciamo stare le tante amenità sentite sull’identità italiana; o le riduzioni ideologistiche del Risorgimento a una cortina fumogena di tutt’altre cose che la nazione italiana e la sua unità; o le manie e le smanie revisionistiche che rimpiangono la vecchia Italia e i suoi vecchi Stati (tranne, meno male, lo Stato della Chiesa). Il punto è un altro.
Voi credevate al Risorgimento fatto contro l’Austria, contro la Curia romana, contro le dinastie e contro le classi dirigenti legate all’assetto italiano di prima del 1861? Vi sbagliavate. Il Risorgimento fu fatto contro i contadini, contro il popolo e (ora si è scoperto) contro tutti: lombardi, veneti, toscani, gli stessi piemontesi, e, in specie, contro i meridionali. Non parliamo poi dei lager sabaudi, del milione di morti della “guerra nazionale” napoletana nel Sud (con totale disprezzo per tutte le statistiche demografiche dal 1860 al 1870), delle rapine piemontesi (specie al Sud) e di tanto altro. Ma come si fa a credere che tutte queste siano “scoperte” e coraggiose “rivelazioni” che ora finalmente vengono fatte emergere?
Non c’è, infatti, molto di ciò che si gabella oggi per nuovo e inedito che non abbia dietro di sé una rispettabile anzianità. Il Risorgimento non era neppure terminato, e già si iniziò a processarlo, in storia e in letteratura. La “conquista regia”? il peso marginale delle classi popolari nel moto e nella sistemazione finale? La natura borghese dell’ordine sociale uscito dal 1861? L’assorbimento finanziario e l’unificazione tributaria a danno del Mezzogiorno? La scelta del centralismo anziché del federalismo o dell’autonomismo? L’indiscriminata unificazione legislativa? Ebbene, proprio questo e altro è ciò di cui si è parlato con successivi approfondimenti e con grande varietà di racconto e di giudizi in un secolo e più di studi, come sa chiunque abbia letto Cattaneo e Nitti, Oriani, Gobetti, Rosselli, Salvemini, per non parlare dei “soliti” Chabod o Romeo, o del grande lavoro di storia sociale del Risorgimento e dell’unità svolto dagli storici “gramsciani” e da quelli “cattolici” dopo il 1945.
Prendete il caso del brigantaggio. Se ne è parlato sempre. Esso non nacque affatto nel 1861. Era un grave problema, endemico e storico, del Mezzogiorno. Nel 1817 e nel 1821 con dure campagne di guerra il governo borbonico ne attenuò la portata, e in seguito cercò di controllarlo, ma non riuscì mai a eliminarlo, come dimostrano le sue cronache giudiziarie fino al 1860. Giustino Fortunato raccolse al riguardo un’enorme quantità di materiale. Ne discussero negli anni ’30 Omodeo e altri. Dopo la guerra un libro di Franco Molfese ne fissò alcuni tratti fondamentali. Convegni e seminari, talora di alto livello, ne hanno via via riproposto il tema. Ora sembra che tutto si scopra come una terra vergine, sempre nascosta dal solito imputato di tali misfatti, la “storiografia ufficiale”, un monolite inesistente.
Dopo la guerra si parlava di Bronte e dei relativi, tragici e crudeli massacri. Oggi si parla molto di Pontelandolfo, altra storia di tragici e crudeli massacri. Scoperte? Colpevoli silenzi? Di Bronte si fece un film di forte efficacia rappresentativa quanto discutibile in punto di storia. Di Pontelandolfo si parlò molto già al tempo dei fatti, e non se ne è mai taciuto. Sia a Bronte che a Pontelandolfo non si ebbe un semplice caso di brigantaggio, bensì, piuttosto, di questioni di altro ordine, come quelle poi inviperite dallo spregiudicato uso politico antitaliano del brigantaggio da parte borbonica e clericale dopo il 1860. Ma tant’è. Il giudizio sul Risorgimento, nel caso migliore, è quello, inverosimile, espresso in un romanzo (per me) di assoluto fascino, Il Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare nulla.
Perché tutto ciò? Bisognerà parlarne a parte. Per ora, indulgo a un sogno. E se, fra tante scoperte e rivelazioni, qualcuno scoprisse e rivelasse di nuovo il grande senso di rivoluzione e di modernizzazione politica, culturale e morale del Risorgimento e dell’unità? Se si scoprisse che non è stato il Risorgimento a inventare l’Italia e la nazione italiana, bensì la nazione italiana a fare il Risorgimento e l’unità? Se si rivelasse il mondo dei “nobili affetti” e delle “generose passioni” proprio al Risorgimento e al moto nazionale? Se qualcuno riscoprisse il grande e faticato travaglio che ha portato l’Italia da realtà marginale nell’economia mondiale a paese dei dieci o dodici oggi più avanzati?
Anche queste cose, come quelle dette di sopra, hanno dietro di sé un secolo di studi, ma gli studi vi sono per essere proseguiti, approfonditi e rinnovati, non per essere sostituiti da “scoperte” e “rivelazioni”, che non apportino ad essi, come è auspicabile, ma accade di rado, effettivi, nuovi contributi.

* * *


NORD E SUD: L’ECONOMIA AL 1860

Il recente e importante studio di Carlo Ciccarelli e Stefano Fenoaltea su aspetti dell’industrializzazione italiana dopo l’unità (Banca d’Italia, «Quaderni di storia economica», n° 4) ha sollevato molto interesse. Coloro per i quali è vangelo che il Risorgimento e l’unificazione italiana abbiano procurato al Mezzogiorno un danno enorme, stroncandone le prospettive di sviluppo e determinando il noto, gravissimo divario con il Nord, vi hanno visto una trionfale conferma delle loro tesi. Una più attenta considerazione del problema è, perciò, utile sia ai fini di una corretta prospettiva storica, sia al fine di non aggravare uno stato d’animo meridionale che non giova né all’Italia, né, soprattutto, al Mezzogiorno.
Intanto, la questione non è affatto nuova. Viene, infatti, dibattuta da più di un secolo, ossia da quando Nitti sollevò il problema e ne diede il primo, e tuttora essenziale, inquadramento storico e politico. Da allora vi sono state al riguardo due “scuole di pensiero”: l’una, per la quale il divario fra le due parti del paese era già in essere all’atto dell’unificazione italiana nel 1861; l’altra, per la quale a quel momento la situazione dell’economia al Nord e al Sud era pari. Si badi bene che queste non sono dispute del caseggiato o pollaio italiano, e questo perché il grande successo dell’industrializzazione italiana, per i suoi tempi e i suoi modi, è un grande problema della storia contemporanea. Entrambe le tesi indicate sono sostenute da importanti storici europei. La prima, ad esempio da A. Dewerpe, uno dei maggiori studiosi della protoindustrialiazzazione; la seconda da W. A. Cole, uno degli autori della “Cambridge Economic History”.
La conclusione principale dello studio di Ciccarelli e Fenoaltea è che «l’arretratezza industriale del Sud» rilevabile dopo cinquant’anni di unità «non è stata un’eredità storica dell’Italia pre-unitaria», perché è sorta dopo l’unità. E, anche se i due autori non dicono chiaramente che quell’arretratezza sia dovuta all’unità, chi legge può facilmente passare a una simile deduzione. Ma bisognava aspettare questa «verità rivelata» per farsi una tale idea? La sosteneva già, ad esempio, di recente, e con molto più largo argomentare, Luigi De Rosa, ossia uno storico economico di grande autorevolezza, in uno dei suoi ultimi libri. Ne parlammo a suo tempo anche in questa rubrica, polemizzando decisamente con lui, come per la nostra forte e antica amicizia potevamo fare senza tanti complimenti.
De Rosa era, però, anche molto prudente. Non imputava all’unità di aver colonizzato il Sud quanto di non aver lasciato ad esso il tempo di adeguarsi alla nuova condizione unitaria, data l’adozione immediata nella nuova Italia di una politica di liberalizzazione commerciale, rovinosa per un Sud, aduso, specie per l’industria, a un regime di stretto statalismo e protezionismo. Anche Ciccarelli e Fenoaltea sono, in fondo, prudenti. Lo si vede bene in chiusura del loro studio. Ma ciò che dovrebbe indurre a una lettura molto più meditata e non ideologica delle loro pagine sono alcuni loro dati statistici, sui quali tutti sorvolano.
Essi precisano, infatti, che al 1871, quando era davvero troppo presto perché l’unità producesse effetti, buoni o cattivi, di un qualche rilievo, il Nord superava il Sud nel prodotto pro capite del 10% in agricoltura e nei servizi, e addirittura del 15% nel settore industriale. Dicono pure che le sei regioni del Nord (Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto, Toscana ed Emilia), con il 53% della popolazione adulta maschile del paese (tenuta presente perché allora la manodopera industriale era nella massima parte maschile), realizzavano il 61% del valore aggiunto nella produzione industriale italiana, mentre le sei regioni del Sud (Campania, Abruzzi e Molise, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia), con un popolazione maschile adulta di circa il 36,5% del totale nazionale, toccavano appena il 30,5% di quel valore aggiunto.
Sono rilievi statistici molto importanti, e non del tutto congruenti con l’affermazione degli autori circa la genesi tutta post-unitaria del divario fra le due Italie. Solo uno sprovveduto potrebbe, infatti, pensare che le differenze ammesse fra Nord e Sud nel 1871 siano percentualmente esigue.
Non è così in assoluto, ma soprattutto non è così se si tiene conto del basso grado di sviluppo dell’Italia a quel momento, che rende quelle percentuali molto significative e comprova che lo sviluppo del Mezzogiorno nel 1860 era già inadeguato alle misure di allora, anche se si parla solo dell’Italia, senza confronti europei. Si aggiunga che anche chi ritiene maggiore lo sviluppo del Sud di allora aggiunge (come il citato Cole) che una differenza netta col Nord c’era già sul piano culturale e, soprattutto, sul piano sociale (e così ci sembrano dire pure Ciccarelli e Fenoaltea). E anche qui solo uno sprovveduto può credere che cultura e società siano trascurabili per la valutazione dell’economia (sarebbe come dire che, avendo la Cina raggiunto il Giappone in economia, Cina e Giappone siano oggi la stessa cosa, mentre il Giappone è un grande paese moderno e la Cina è ancora lontana dall’esserlo).
Morale: non entusiasmarsi mai troppo per presunte, più o meno fondate rivelazioni, in qualsiasi materia, se non si conoscono bene gli antecedenti e non si valutano appieno gli elementi disponibili. Fa male alla salute intellettuale e civile.
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