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Azionisti e «modello bonapartista»
di Valeria Sgambati


Nell’azionismo si sono generalmente individuate due principali correnti, quella “giacobina” e quella “girondina”: la prima più orientata verso il socialismo, il proletariato, le statizzazioni, la seconda verso il liberalismo democratico, i ceti medi, il rinnovamento dei tradizionali istituti politici e amministrativi. L’analisi del fascismo e della storia italiana, invece, sembra far sfumare molto di più le differenze fra le due correnti; per l’Italia questa crisi è stata fatta risalire alle tare originarie della sua storia, caratterizzate dalle inadeguatezze della classe dirigente e dal ridotto sviluppo delle istituzioni liberali e democratiche. Il fascismo come “autobiografia della Nazione” è una definizione comune a Gobetti, Salvemini, Carlo Rosselli e tanti altri antifascisti democratici; ma il fascismo fu anche visto da altri “giellisti” e azionisti come totalitarismo di destra, come soluzione bonapartista, come “contravveleno” al bolscevismo. L’interpretazione “bonapartista” del fascismo maturò tra gli intellettuali che erano stati più vicini a Giovanni Amendola, come Mario Vinciguerra e Guglielmo Ferrero. Quest’ultimo individua il segreto della storia del XIX e XX secolo nell’avventura “metafisica” della Rivoluzione francese e del bonapartismo, considerati in modo unitario e interdipendente, accomunati dallo stesso abuso della forza. Luigi Salvatorelli separa invece l’esperienza rivoluzionaria da quella napoleonica, perché il Corso getta definitivamente alle ortiche la democrazia. L’analisi degli azionisti sul ruolo dei capi e delle masse proseguì nel secondo dopoguerra sulla rivista di Mario Paggi Lo Stato moderno, stimolata dagli eventi storici italiani e francesi in corso.
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