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Mario Vinciguerra tra storia e politica
di Maurizio Griffo


Mario Vinciguerra fu quasi sempre solitario e in controtendenza, dal punto di vista politico e storiografico. Antifascista aderente al gruppo clandestino Alleanza Nazionale, poi “girondino” nell’ambito dell’azionismo, quindi sostenitore negli anni 60 del movimento di Pacciardi per una Repubblica presidenziale, critico della partitocrazia e della Costituzione repubblicana, Vinciguerra ha sempre cercato di combinare in modo singolare la lucida analisi politica con una non comune attitudine all’intellezione storica. Negli anni 20 rimeditò sulla rivoluzione francese, contrastando la leggenda che essa fosse saltata fuori “tutta intera ed armata, e conscia di sé, di dietro i bastioni smantellati della Bastiglia”. Questa riflessione si ricollegava alla storia dell’Europa tra le due guerre, che vide una significativa rinascita dello spirito giacobino. Fascismo e bolscevismo sono per lui i due aspetti di un unico fenomeno: «ambedue dominio di una minoranza armata sopra un popolo passivo ed inerte; ambedue basati sulla soppressione di ogni critica e sull’isolamento dal mondo», ambedue totalitari e antiparlamentari. Nel secondo dopoguerra egli riteneva che l’incarnazione del giacobinismo fosse il partito di massa, che non gli sembrava affatto un’evoluzione rispetto al partito notabilare; a differenza di altri liberali, dopo il tramonto della leadership degasperiana, non vedeva soluzione se non in una riformulazione generale delle regole del gioco.
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