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Dopoelezioni
di G. G.


L’elezione dei presidenti delle due Camere del Parlamento italiano non ha dato luogo, alla fine, alle gravi tensioni che si preannunciavano nelle prime due o tre votazioni. Alla Camera dei Deputati è stato motivo di sorpresa che fra il primo e il terzo voto Bertinotti scendesse dalla quota 305 alla quota 295, mentre spuntava una votazione per D’Alema imprevistamente consistente (e per questa votazione si è detto che si trattava soltanto di una poco accorta manovra del centro-destra, ma bisogna riconoscere che, comunque siano andate le cose, non di questo soltanto si è trattato). Tuttavia, Bertinotti è stato poi eletto alla prima votazione utile per la forza di cui disponeva la coalizione che lo ha sostenuto, anche se egli ha riscosso 337 voti sui circa 350 di quella coalizione: i mancanti tutti assenti? Al Senato, invece, le cose sono state più in bilico. Il centro-sinistra poteva eleggere il suo candidato fin dalla prima votazione. È stato necessario, però, giungere alla quarta votazione (essendone stata annullata una, e nessuno ha davvero capito perché). L’impressione generale è stata che siano occorse molte trattative “politiche” (politiche!) per superare una impasse tecnicamente incomprensibile. Ed è un’impressione che ha fatto molto scadere di tono l’avvio della nuova assemblea, anche se poi Marini è stato eletto con qualche voto in più del previsto. I discorsi di insediamento dei due nuovi presidenti erano discorsi scontati: saremo i presidenti di tutti, non solo della parte che ci ha eletti (e ci sarebbe mancato altro!); difenderemo le prerogative del Parlamento; favoriremo dialoghi e incontri invece che urti e scontri; faremo rispettare le regole assembleari……. Discorsi, come hanno scritto alcuni giornali e hanno commentato alcuni uomini politici, di alto profilo? Diremmo decisamente di no. Bertinotti ha poi voluto dedicare la sua elezione “alle operaie e agli operai”, e – detto senza peli sulla lingua – ci è parsa, questa, una rifrittura vetero-classista che il neo-presidente poteva, e doveva, risparmiare a se stesso e ai suoi connazionali. Gli operai? Va più che bene, non c’è alcun possibile dubbio. E gli artigiani, i commercianti, i contadini e gli agricoltori, la gente dello spettacolo e dello sport, i professionisti, gli impiegati pubblici e privati, i lavoratori dei servizi, i tecnici e i quadri di tutti i rami dell’economia, gli insegnanti di ogni ordine e grado delle scuole pubbliche e private, le forze dell’ordine? Nessun artificio classista o pseudo-dialettico potrà mai includere questa grande maggioranza del mondo del lavoro italiano in un sofisma proletarizzante, e l’uscita di Bertinotti fa sospettare in lui una permanente incomprensione della struttura reale di una società moderna come quella italiana, né, considerata qualche altra espressione infelice, ha fatto piacere qualche toppa che è stata poi apposta al primo squarcio.
Detto ciò, noi pensiamo, tuttavia, che sia Marini che Bertinotti saranno buoni presidenti e non verranno meno ai doveri istituzionali del loro alto ufficio. È la coalizione che li ha eletti a dover dare subito prove di sagacia e di capacità politica migliori che nell’avvio della nuova Legislatura. E l’onere di questa prova resta sempre alla maggioranza, anche nel caso che l’opposizione dimostri poco di intelligenza e di responsabilità politica nell’esercizio del suo ruolo, appunto, di opposizione.
In occasione della elezione del presidente della Repubblica la prova non è stata, invero, eccellente. L’opposizione ha dato l’impressione di volersi assolutamente chiudere in un certo tipo di rifiuti aprioristici e, ormai anacronistici. La maggioranza ha seguito un metodo a dir poco discutibile, pretendendo di trovare un accordo con l’opposizione sulla base di un proprio singolo nome da accettare a scatola chiusa.
Per fortuna, il risultato dell’elezione è stato tale da dover essere salutato con vera soddisfazione, grazie alla figura certamente più che autorevole e rassicurante di Giorgio Napolitano, al quale rivolgiamo, anche e per ciò, un saluto e un augurio particolarmente calorosi. Né vorremmo dimenticare un altro aspetto positivo della maggioranza che, a nostro avviso, è stato delineato in tale occasione nei quattro punti che l’on. Fassino, come segretario dei DS, ha proposto per un eventuale accordo con l’opposizione sulla materia delle elezioni presidenziali. L’accordo non vi è stato, ma sarebbe di estrema importanza che la delineazione di Fassino rimanesse valida in pieno e fosse attuata davvero in tutta la condotta della maggioranza.
Saranno, peraltro, la formazione del governo e la delineazione del suo programma, che esamineremo nel prossimo fascicolo della nostra rivista, a costituire per tutti, l’esame più impegnativo e rivelatore, anche se si tratta, specificamente, di un esame che tocca per intero e soltanto alla maggioranza.
In attesa di conoscere e di giudicare lo svolgimento e gli esiti di questi esami, vorremmo qui dedicare qualche considerazione all’andamento dello spoglio per la tornata elettorale del 9-10 aprile. Come si sa, gli
exit polls avevano lasciato intravedere una netta e immediata affermazione del centro-sinistra che poi non c’è stata, poiché il risultato è stato, sì, la vittoria di questo schieramento alla Camera dei Deputati, ma solo per una microscopica incollatura (25.000 voti su poco meno di 40 milioni di votanti!), e al Senato la maggioranza dei voti è stata addirittura del centro-destra. Si è detto, perciò, che gli elettori contattati per gli exit polls, come in generale tutti gli elettori italiani, se votano per la destra, non lo dicono: perché se ne vergognano, dicono quelli del centro-sinistra; perché temono di professarsi quali sono a causa del conformismo imposto dalla cultura sinistrorsa e dalla prepotenza esercitata nelle vita sociale dalla sinistra, dicono quelli del centro-destra.
Appunto dalle molte cose lette e sentite su questo tema è emerso il seguente


Dialoghetto post-elettorale fra il Destro e il Sinistro, presente un Arbitro.
«S. – Nei sondaggi e negli
exit-polls la gente non dice di votare per la destra perché se ne vergogna, così come con la vecchia DC, perché è chiaro che votare per quelli della destra è cosa di cui vergognarsi moralmente e, ancor più, politicamente. La Destra equivale a ignoranza, arretratezza culturale, egoismo sociale, prevalenza degli interessi sulle passioni e ancor più sugli ideali, un sistema di potere ignobilmente clientelare e soffocante, una condanna del paese a vivere al margine della vita moderna e dei connessi diritti e libertà.
D. – Non è vero. La gente fa così perché teme: si teme di apparire retrogradi o conservatori, se non reazionari, e di urtare, così, contro un sistema di potere informale, il potere di imporre schemi e valori che è proprio della sinistra in tutti i campi e gli aspetti della vita sociale, specie in quello culturale; ma si teme anche un sistema di potere reale, che la Sinistra detiene e dai cui beneficii essa esclude, isola sul piano sociale e perfino ostracizza nell’economia e nelle professioni chi non si conforma ad essa. Qui è intervenuto l’Arbitro.
A. – Avete ragione entrambi, ma non ne traete la debita conseguenza.
D. e S. – E quale?
A. – Della vergogna si deve preoccupare la Destra, del timore la Sinistra. Se anche fosse vera solo la metà di ciò che vi rinfacciate a vicenda, ne risulterebbe una patologia sociale contraria non solo a quel che si intende per un regime di libertà, ma anche a un buono svolgimento della vita materiale e morale del paese. Pensateci un po’. Altrimenti è ridicolo che poi vi accusiate l’un l’altro di tenere il paese lontano dall’Europa e da altro».

E, per quanto ci riguarda, ci sembra che in così breve spazio non si poteva dire di meglio e di più su cose che ci sembrano poco discutibili e che, dette in più ampio spazio, avrebbero perduto di forza e di suggestione. Una riflessione al riguardo aiuterebbe forse a risolvere meglio, in entrambi i campi, i problemi più immediati, a cominciare da quelli – i più ardui sul momento – della composizione del governo. E, sempre per quanto ci riguarda, ci sembra particolarmente da condividere il commento di Ferruccio De Bortoli su «Il Sole 24 Ore» del 30 aprile, che perciò riportiamo nelle sue considerazioni iniziali: «Personalmente non ho molta fiducia sul fatto che Prodi riesca a governare a lungo. Spero di sbagliarmi. Il professore ha il diritto e il dovere di provarci. Ma lo faccia confidando più in se stesso che nei propri alleati, molti dei quali appaiono infidi fin dalla prima ora. L’affermazione è politicamente
scorretta, lo so. Ma l’eterogeneità della coalizione di centro-sinistra è ogni giorno più disarmante. Le riforme di cui l’economia ha bisogno si affrontano con maggioranze coese. Quella attuale è fragile», come è già apparso, anche per De Bortoli, alle prime prove in Senato.
Vero è che, per Prodi, può sopravvenire ad aiutarlo la cosiddetta forza della debolezza, ma resta sempre imprescindibile la distinzione per cui la forza è una cosa e la debolezza ne è un’altra. E noi crediamo che le difficoltà di Prodi non deriveranno soltanto dai temi centrali e decisivi della politica economica, finanziaria e fiscale, sulla quale De Bortoli ha comprensibilmente fissato la sua attenzione, ma deriveranno altresì e in misura non minore dalla politica estera, dalla politica sociale, dalla politica dei diritti personali e di famiglia. Anzi, potranno derivare da questi temi di grande attualità addirittura ancor più che dalle questioni di economia, finanza e fisco, ed è davvero tutto dire; e a noi non resta che rinviare il lettore, per un ulteriore approfondimento dei problemi nella prospettiva di altri punti di osservazione, alle considerazioni contenute negli articoli, che qui seguono, di questo fascicolo della nostra rivista.



G. G.
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