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Il partito democratico
di G. G.
È ancora presto per prevedere l’esito ultimo della caduta del governo Prodi: l’esito, intendiamo, non quanto alla formazione o non formazione del nuovo governo, le cui cronache riempiono con evidente affanno di comprensione e di previsione i giorni in cui scriviamo, bensì – al di là di queste cronache che lasciamo all’informazione corrente e in vista di qualcosa che dovrebbe essere giudicato di alquanto più durevole attualità – quanto alla struttura del sistema politico italiano.
Di questo sistema la crisi del governo Prodi a metà febbraio ha messo in piena luce – almeno per quanto riguarda la sinistra (bene o male, il governo Berlusconi durò cinque anni) – il duplice difetto di struttura: una frammentazione poco tollerabile e, soprattutto, poco funzionale dei centri di decisione politica all’interno dell’area, e la mancanza di una sufficiente coesione non si dice ideologica, ma anche solo programmatica di questa stessa area. I due difetti interferiscono, come è facile intendere, fra loro. Se si riesce a raggiungere (come prima della caduta del governo Prodi è accaduto) un accordo fra i gruppi e i partiti della maggioranza sul comportamento da tenere nella votazione di provvedimenti sui quali un reale accordo programmatico non c’è o (che è lo stesso) non è accettato, questo avviene con una sostanziale rinuncia alla piena chiarezza politica. Di conseguenza, nulla vi è di più facile, anche a prevedersi, che vi siano singoli componenti della maggioranza i quali non accettino quella carenza di accordo o la sostanza dell’accordo ufficialmente raggiunto e si distacchino dalla posizione dei rispettivi gruppi politici e parlamentari. Se a ciò si aggiunge che una maggioranza – come appunto accade per quella uscita dalle urne delle elezioni del 2006 – è, in entrambe o in una delle Camere, appena al livello della sufficienza numerica minima o addirittura è di una linea al di sotto di tale livello, può in qualsiasi momento accadere quel che, provocando la caduta del governo Prodi, è accaduto in Senato.
Di questo non pare che la maggioranza battuta si renda conto come si dovrebbe. Così si sono sentite ripetere le più solenni proclamazioni sulla granitica volontà di mantenere in piedi questa stessa maggioranza, ma continuamente si ode anche ripetere la sequela dei motivi di quella carenza di accordo e di chiarezza a cui abbiamo accennato, ossia le posizioni di politica interna ed estera, sulle quali il governo Prodi nei primi e pochi mesi della sua vita si è logorato e, infine, è caduto.
Noi, però, non vogliamo fermarci qui su questi aspetti del problema di fondo del sistema politico italiano, bensì su qualche suo aspetto complementare, ma per nulla marginale. Ci pare, infatti, che dalla crisi di un governo nato con aspirazioni esplicite e ripetutamente dichiarate di durata quinquennale si esca o con un rilancio e un rafforzamento effettivo della maggioranza battuta o con l’avvio di un processo di dissoluzione di questa stessa maggioranza e, in tal caso, con effetti destinati a farsi sentire largamente anche al di fuori di essa. Nel primo caso si sarà trattato di una crisi di crescenza della maggioranza o, per meglio dire, delle sue componenti più riluttanti alla logica di tale maggioranza. Nel secondo caso bisognerà vedere se dalla dissoluzione nascerà un processo di riaggregazione di cui si possa credere che dia finalmente la necessaria stabilità al sistema italiano o se la dissoluzione andrà verso un incancrenimento degli elementi centrifughi e disgreganti.
Per quanto ci riguarda qui, non ci sembra per nulla improbabile che la spinta a una riaggregazione risolutiva finisca col prevalere – magari, e anzi molto probabilmente, in un lasso di tempo non necessariamente breve –sia che la maggioranza tenga e cresca, sia che non tenga e si dissolva. In effetti, la spinta a forme di nuove e ampie aggregazioni delle forze politiche si avverte da tempo a destra come a sinistra, coi discorsi sul partito unico dell’una o dell’altra parte.
A sinistra, questi discorsi hanno messo capo, come è noto, all’idea di un grande partito democratico da formare a partire dai DS e dalla Margherita. Le reazioni sono state varie, come era da attendersi, in generale, per discorsi così impegnativi, e come era in particolare da attendersi nella logica e nella tradizione della vita politica italiana dei nostri tempi (e, invero, neppure soltanto dei nostri tempi). Si tratta, infatti, di una vita politica in cui le vocazioni aggreganti sono di una debolezza più che nota e, comunque, riluttanti non solo a ogni disciplina, bensì anche a ogni appello, spesso perfino a quello del semplice buon senso.
Non vogliamo e non possiamo credere a una nazione caratterizzata da insensatezza e microcefalìa antropologiche, anche se subiamo molto la tentazione di ritenere che oggi «gli Italiani hanno di gran lunga il peggiore stato di salute psicologico in Europa», come sul «Financial Times» ha scritto Andrew Oswald. Occorre, tuttavia, pur porsi il problema di questo “particolarismo” che, pudicamente, ma (bisogna riconoscerlo) non senza profonde ragioni, viene definito “pluralismo” italiano. Non è questo il luogo di farlo (per ingenuo e tenero amore di noi stessi ricordiamo di averlo fatto a più riprese nei nostri lavori storici e, in particolare, nel nostro Potere e istituzioni in Italia dalla caduta dell’Impero romano ai nostri giorni). Qui ci limitiamo a dire soltanto che sarebbe molto più dignitoso e più utile per tutti se il discorso sulla tipologia, i programmi e le basi dei gruppi politici che si costituiscono con creativa (e disperante) frequenza sulla scena politica italiana non fossero fatti sempre e solo sulla base della “diversità delle culture”, rivendicata a ogni pie’ sospinto come una immutabile e irresistibile condizione strutturale della vita italiana.
Che l’Italia possa avere e abbia culture diverse è fuori di ogni dubbio. Ma è possibile o anche semplicemente verisimile che essa abbia una diecina di culture cattoliche, una diecina di culture comuniste, una diecina di culture liberali o democratiche e così via per ogni settore o, meglio, per ogni angolo della società e del paese italiano? È credibile che si trovi sempre qualche Italia di mezzo o qualche Italia dei valori a cui appellarsi e che si sente l’irrefrenabile bisogno di rappresentare in prima persona, e irriducibilmente rispetto a ogni altro possibile riferimento di gruppo, di appartenenza, di identità, di prossimità condivisibile o di collaborazione operativa e militante? Suvvia! Facciamo quel che vogliamo, ma lasciamo stare le culture e l’Italia, e quest’ultima in particolare, che di problemi ne ha già tanti.
Anche per ciò era prevedibile che, appena accennatosi alla costituzione di un “partito democratico” che a sinistra dello schieramento politico italiano unificasse forze e istanze su una piattaforma almeno da minimo comune multiplo, le voci di dissenso rispetto a una tale ipotesi sono fiorite anche al di là di quanto chiunque poteva prevedere. E dissenso non solo rispetto a questioni che hanno un’indubbia complessità e difficoltà di termini e di prospettive, come è quello della convivenza che in quel partito se nasce bisognerà organizzare e sperimentare tra laici e cattolici, liberal-democratici e socialisti o comunisti, o quello della futura collocazione dei rappresentanti del nuovo partito nel Parlamento europeo, e così via, ma anche rispetto a problemi che appaiono non di rado evocati apposta per mettere, come suol dirsi, i bastoni fra le ruote all’ancor non nato partito. E poi: il nuovo partito provocherà un altro frazionamento a sinistra; spingerà la sinistra oggi definita radicale a diventare ancora più radicale; si perderà il beneficio d’averla riportata a una certa istituzionalizzazione con la maggioranza che ha vinto nel 2006; anche i cattolici non appaiono tutti decisi e disponibili all’esperienza di un tale nuovo partito; il nuovo partito invece di volare al 30-35% dei voti si impantanerà intorno o sotto il 20%; …. E abbiamo indicato solo alcune delle obiezioni avanzate in materia.
Per equità, diremo che il manifesto programmatico indicato come base per una nuova presenza riformistica in Italia non ha molto convinto. Ancor più si sente un certo disagio perché nessun discorso concreto viene ancora fatto sul tipo e sul modulo operativo di partito a cui si pensa o che si reputa possibile. Tanto meno si parla concretamente di calendari e di date. Il gioco ci pare, comunque, valere, e di molto, la candela. Nessuno garantisce che il nuovo partito sia la soluzione delle soluzioni per l’avvenire politico dell’Italia e per quanto riguarda la sinistra democratica, laica e cattolica. Tuttavia, nessuna carta migliore è stata gettata sul tavolo italiano, ed è fin troppo facile prevedere che nessuna carta migliore vi comparirà anche nel futuro prevedibile. Che il problema sia di ardua soluzione e la formazione di un polo unitario della sinistra nei termini sopra accennati sia di ancora più ardua realizzazione, non sorprende, vista quanto è alta la posta in gioco. Ma, d’altra parte, se in Italia nasce davvero un sistema politico duale, si sarà indiscutibilmente fatta una vera e propria rivoluzione politica e culturale: una rivoluzione che il paese aspetta dal 1876, cioè fin dall’immediato indomani della sua unificazione nel 1860. Ed è così importante riuscirvi che non bisognerà assolutamente avere remore nell’imporre una riforma della legge elettorale che possa agevolare lo sforzo aggregante di cui si è detto, quali che siano le convergenze parlamentari a ciò necessarie.
Si potrà guadagnare o perdere la partita, ma combatterla è necessario anche per conferire vigore e credibilità etico-politico al progetto aggregante. L’alternativa è di ristagnare nel felice “pluralismo” delle “culture” per chissà quanto tempo e fino a quale punto di depotenziamento delle potenzialità (ci si perdoni il bisticcio verbale) di un paese che ha tanto profondo e ampio bisogno di trasformazione e promozione moderna (non vogliamo usare l’abusatissimo termine di riforma) ancora da realizzare. Poi forse il genio italico troverà ugualmente qualche soluzione all’ombra dello “Stellone” e della “creatività” nazionale. Ma quando? Ma come? E a che prezzo?
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