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Euro ed Economia Italiana. Un divorzio improbabile ed un destino comune, comunque
di Massimo Lo Cicero


1.    La catastrofe è imminente? Convulse discussioni postelettorali



Il 16 aprile appare sul «Financial Times» un commento, una column, come dicono gli inglesi, di Wolfgang Munchau, Italy’s bad news for the euro. La column non è un editoriale, nel significato che la stampa italiana attribuisce a questo termine: essa rappresenta il punto di vista dell’autore ma non quello della testata giornalistica, è un commento ospitato dal giornale ma non coincide con la linea del giornale. L’opinione pubblica italiana, invece, percepisce questo commento come una sorta di previsione della comunità degli affari anglosassone ed internazionale, della quale il «Financial Times» viene considerato un autorevole interprete. Cosa scrive Munchau? Annuncia che nei prossimi dieci anni l’Italia, dopo la vittoria di stretta misura di Prodi su Berlusconi nelle elezioni politiche, non riuscirà a reggere il regime di politica economica che deriva dalla partecipazione al sistema della moneta unica e dovrà abbandonare l’euro, collassando sul terreno finanziario e, naturalmente, perdendo radicalmente appeal sul piano dell’attrazione di investimenti internazionali.

La risicata vittoria della coalizione di centrosinistra guidata da Romano Prodi costituisce il peggior esito immaginabile in termini di possibilità dell’Italia di rimanere nell’eurozona oltre il 2015 […]. Prevedo che gli investitori internazionali inizino ad assumere scommesse speculative sulla partecipazione italiana all’euro entro la durata di un governo Prodi [...] Queste non sono scommesse sull’impegno politico di Prodi nei confronti dell’euro. Sarebbe infatti difficile trovare un politico più a favore dell’Europa dell’ex presidente della Commissione europea. Queste sono scommesse sulle circostanze economiche che potrebbero obbligare un governo a prendere decisioni che sono inimmaginabili fino al momento in cui diventano inevitabili.

La discussione si infiamma perché, pochi giorni dopo, anche uno degli analisti del Fondo Monetario Internazionale, che recentemente aveva seguito le vicende dell’economia italiana, si mostra preoccupato, durante un conferenza stampa tenuta a Washington, sul futuro della nostra congiuntura prossima ventura. Alessandro Leipold, responsabile del Fondo monetario internazionale per l’Italia, si lamenta per “la scarsa trasparenza” dei conti italiani ed annuncia che il nuovo governo dovrà pensare quanto prima alla definizione di una manovra bis per riportare il deficit pubblico sotto controllo. Leipold non si sbilancia sull’entità dell’intervento. «Ne vorrei prima parlare con il governo entrante e valutare bene la situazione». Per l’IMF il rapporto tra debito e Pil, senza correzioni, si posizionerà «a fine anno al 4% contro il 3,8% concordato in sede europea». La previsione contiene «un margine di errore di un quarto di punto percentuale più verso l’alto che verso il basso». Nel giro di un mese una missione tecnica dell’IMF arriverà in Italia per allacciare i contatti con il nuovo governo, che è auspicabile venga varato quanto prima: «Questo periodo di incertezza può creare problemi. Prima vi sarà un Governo in carica in grado di dire quali misure intende prendere, meglio è […] il periodo più facile per prendere misure è all’inizio del mandato». Il Fondo Monetario, conclude Leipold, ritiene che l’economia italiana nel 2006 possa crescere dell’1,2%, ma «la sensazione è che forse le nostre stime per l’area dell’euro, e quindi di riflesso anche per l’Italia, siano un po’ troppo caute. Direi che l’1,2% rappresenta il punto centrale di una forchetta ben bilanciata». Sul fronte dei conti pubblici, infine, Leipold invita a considerare «la stima dell’Fmi che indica, a fine 2007, un rapporto tra deficit e Pil al 4,3%»[1]. I veri problemi, secondo il funzionario del Fondo Monetario, sarebbero rappresentati dalla scarsa trasparenza del bilancio italiano: «fare una proiezione del deficit è estremamente difficile». Nella trimestrale, per esempio, ci sono varie riclassificazioni, alcune chiare altre meno. C’è una riduzione della spesa in conto capitale non spiegata, c’è un appello non chiarito a evitare operazioni finanziarie tali da coinvolgere l’amministrazione centrale che sembra rivolto a Fs e Anas. È necessario «migliorare la trasparenza dei conti».
Per quello che riguarda il mondo del lavoro, sul fronte dell’economia reale e delle sue radici contrattuali, viene considerata positiva l’idea di ridurre di cinque punti il cuneo fiscale perché «ridurre l’imposizione sul costo del lavoro porterebbe benefici. È necessario però trovare la copertura»; ne risulta un giudizio negativo, di conseguenza, sull’ipotesi di abolizione della Legge Biagi.
Questi annunci di crisi alimentano ulteriormente la fibrillazione del sistema politico che si trova stretto su due fronti: da un lato viene limitato dal così detto “ingorgo istituzionale” generato dal sovrapporsi delle scadenze per insediare le nuove camere, rinnovare il mandato del presidente della repubblica, procedere alle elezioni amministrative, consultare le parti politiche ed affidare il mandato di formare il Governo. Dall’altro subisce l’aggressiva campagna di opinione dello schieramento di centrodestra, che contesta l’esistenza di una possibile governabilità del paese in presenza di un irrilevante scarto elettorale e di un margine ridotto di controllo per l’equilibrio parlamentare futuro tra i due schieramenti. Per certi versi si potrebbe affermare che questa pressione sulla opinione pubblica perché si agisca tempestivamente sia strumentale rispetto alle opinioni, di alcuni ambienti del centrosinistra, che ritengono sia possibile saltare i tempi dell’ingorgo istituzionale, conferendo da parte di Ciampi il mandato a Romano Prodi di costituire il nuovo governo senza aspettare l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, una volta insediate le nuove camere parlamentari.
Il problema difficile da risolvere è rappresentato, tuttavia, dal fatto che la decisione – assolutamente opportuna sul terreno della razionalità e della lungimiranza politica – di rimandare al nuovo Presidente della Repubblica il compito di indicare il nuovo Presidente del Consiglio, e di tracciarne il mandato, genera un pericolo ulteriore sulla strada del rilancio economico del paese. I punti critici della nostra situazione economica sono tre.
La progressiva erosione della produttività economica e la caduta di capacità competitiva che ne segue; la pesante situazione della finanza pubblica e la fragilità che da essa deriverebbe in presenza di un aumento dei tassi di interesse ed/o di una dilatazione ulteriore del debito pubblico; la frattura oggettiva tra Nord e Sud del paese. La terza circostanza ha avuto anche un pesante riflesso nella eterogeneità delle maggioranze emerse dalle urne. Essa avrà, inoltre, un effetto ulteriore sulle possibili future politiche economiche: i ricchi non si preoccupano troppo della crescita, per la loro condizione oggettiva, ed i poveri sono ostili al rischio, almeno fino a quando non esistano reti di sicurezza ed ammortizzatori capaci di attenuare i costi di un fallimento. Il paradosso del caso italiano è evidente. Il Sud ha paura della crescita ed avrebbe bisogno di politiche di supporto ma preferisce avere protezione sociale. La società settentrionale, essendo capace di far crescere la propria economia senza supporti pubblici, pretende la riduzione della pressione fiscale ma esige servizi ed infrastrutture di qualità ed adeguatistandard di protezione sociale per i deboli.
Quali saranno le conseguenze del ritardo nella formazione del nuovo Governo? Il solo manifestarsi di questa sorta di impotenza istituzionale, prima che programmatica, alimenterà una riduzione della fiducia, sia sul mercato interno che su quello internazionale. La caduta di fiducia potrebbe avere effetti reali, come un rallentamento degli investimenti privati, ed effetti finanziari, come un incremento del costo del debito pubblico. Entrambi i fenomeni possono danneggiare la situazione della finanza pubblica. Il differimento degli investimenti rallenta la crescita ed il gettito fiscale, a parità di aliquote; il rialzo dei tassi aumenta la spesa. Si allarga il deficit ed, in assenza di un aumento del prelievo, si incrementa anche lo stock del debito. La incertezza sul momento in cui verrà avviata, quale che sia, una manovra di stabilizzazione delle condizioni fiscali, genera inoltre tensioni sui tassi di interesse, attraverso un incremento latente del premio per il rischio che richiedono i sottoscrittori dei titoli del debito pubblico. Sui titoli in circolazione questo fenomeno si riflette in una caduta dei corsi, che ha effetti anche sul patrimonio delle famiglie che li detengono.
La incertezza sulla data, la composizione ed il programma del nuovo Governo si traduce in un fattore di disturbo anche sugli altri due punti critici cha abbiamo indicato: l’esigenza di ridare fiato alla capacità di competere e quella di recuperare la frattura tra il Nord ed il Sud del paese. La ripresa economica è in atto nel resto del mondo e c’è un problema chiaro di tempestività nelle azioni da realizzare per ridare fiato all’impresa italiana. La Confindustria ha presentato un agenda credibile in questa direzione a Vicenza[2], dove si è finito per parlare di altro come tutti sappiamo. Se quella agenda non viene tradotta in scelte politiche si consolideranno sul mercato le imprese degli altri paesi e non le nostre.
Della questione meridionale non serve neanche parlare: quello è problema di lunga lena e di elaborazione strategica. Sarebbero molto utili stabilità degli assetti di potere e tempestività nell’adeguare i programmi alle contingenze.
L’incertezza sul programma del Governo e sugli attori chiamati a realizzarlo è temibile. Si aggiunga l’incertezza ulteriore che nasce dal fatto che ogni attore ha un suo stile nei rapporti con il Parlamento. Nella mela spaccata che esce dalle urne, l’Italia da governare, sarà tanto più efficace un Governo che sappia dialogare con tutto il Parlamento. Questo non significa che serve una larga coalizione che lo sostenga stabilmente ma che serve una larga apertura mentale ed una robusta attitudine al dialogo da parte dei protagonisti dell’azione di Governo. Non sapere, oggi, quali saranno i Ministri, non ci consente nemmeno di immaginare come si comporteranno tra un anno. Per il Sud si tratta davvero di un grande danno, economico e politico.

Se la diagnosi del centro-sinistra (di una economia disastrata dalla catastrofe e dalla povertà crescente) fosse giusta, Prodi avrebbe dovuto battere Berlusconi con una larghissima maggioranza ma non è andata così […] Berlusconi ha colto meglio umori sotterranei e cambiamenti profondi [...] ma credo che l’Unione... anche se per pochi voti, ha vinto le elezioni e quindi dovrà governare. Con buona pace di quello che pensa il «Financial Times».

Queste sono le opinioni di Franco Bernabè, che conosce i circoli europei e quelli anglosassoni della comunità degli affari[3]. La sua diagnosi denuncia un limite di comunicazione, accusato dal centro-sinistra durante la campagna elettorale, ma ci segnala anche una sorta di pericoloso paradosso nella struttura del programma politico di quello schieramento.
Non è vero che una diagnosi catastrofista, in termini di analisi economica, rappresenti la base condivisa degli orientamenti culturali della sinistra. Purtroppo l’Unione, enfatizzando la crisi e rivendicando una maggiore giustizia sociale, riduceva spesso gli annunci di politica economica ad una sorta di vendetta patrimoniale, da realizzare attraverso le imposte, contro profittatori e rentier. Questa percezione, assai diffusa, tradisce il contenuto di uno spettro di opinioni, assai più robusto e praticabile, ben radicato nei partiti e negli interessi sociali riconducibili all’Unione medesima. Confindustria, ad esempio e come abbiamo appena ricordato citando il manifesto di Vicenza proposto da Montezemolo, è stata netta nella richiesta di un politica amica della crescita e della competizione, che non si facesse intrappolare solo nel risanamento della finanza pubblica. Luigi Spaventa suggeriva a Prodi dalle colonne di Repubblica «politiche di offerta prive di costi finanziari» da realizzare «subito, senza troppi se e troppi ma, senza timore di contraddizioni in seno al popolo» perché «colpire la successione delle grandi fortune […] può essere appagante [...] ma si ricordi che, come un tempo usava dire a sinistra, ben altri sono i
problemi»[4]. Francesco Gavazzi ha offerto una vera e propria agenda dal medesimo sapore alla “Rosa nel Pugno” e ne ha scritto molti capitoli con Alberto Alesina, sulle colonne de «Il Sole 24 Ore»[5]. Dove scrivono spesso Tito Boeri, che il toto ministri annovera tra le possibili nomination di Prodi, e Roberto Perotti, due economisti della Bocconi, soci fondatori del sito web dei “cani da guardia” della politica economica: «La Voce.it». Proprio Roberto Perotti, e sempre dalla prima pagina de «Il Sole 24 Ore», ha smentito i falsi miti della povertà italiana[6]. Mentre Boeri, dopo il risultato elettorale, invitava a collegare interessi dispersi in entrambi i poli sulla riduzione del cuneo fiscale e la riforma degli ammortizzatori sociali[7]. Insomma, è evidente che esiste, anche nella opinione pubblica riconducibile alla opzione elettorale di centrosinistra, uno spazio tecnico e professionale per una politica economica capace di sfuggire alle trappole del catastrofismo finanziario e del radicalismo fiscale, imboccando la strada di una maggiore crescita reale, alimentata da robuste scelte in direzione di una maggiore competizione e di una maggiore flessibilità nell’uso dei fattori di produzione. È altrettanto evidente che questa ipotesi trova convinti sostenitori, ma anche importanti dissensi, nello schieramento di centro sinistra mentre sarebbe capace di evocare interlocutori fattivi ed interessanti nell’altro fronte della politica italiana. Una simile opzione spezzerebbe la radicalizzazione, tutta interna alla modalità di svolgimento della campagna elettorale, che vedeva Berlusconi concentrato sul partito dei consumatori e dei piccoli proprietari mentre Prodi era proteso verso i diseredati ed i lavoratori dipendenti. Infine, ma questo è il punto delicato, la grande coalizione di governo, come abbiamo già detto, non sembra la strada per portare questa politica alla piena realizzazione. La diffusa diffidenza semantica verso la formula ne inficia l’applicabilità immediata costringe a non usare uno strumento che altre volte ha dato frutti importanti. La maturità democratica, tuttavia, non si realizza governando per decreti-legge, sul filo della maggioranza parlamentare, ma adottando uno stile di comportamento a legislazione vigente, l’ordinamento essendo un patrimonio comune del paese e non un prodotto di parte. Un Governo che sappia praticare la strada del mercato e della crescita, ed un Parlamento che sappia completare l’ordinamento in termini coerenti con questa opzione, rappresenterebbero oggi un panorama più efficace della grande coalizione o di un muro contro muro, che si equivalgono nella incapacità di entrambi gli schieramenti di riconoscere il meglio e non il peggio delle proprie, diverse, culture politiche ed anime intellettuali.
Ma vediamo nel merito quali siano effettivamente le condizioni dell’economia reale e della struttura finanziaria nell’economia italiana per potere giudicare meglio le opzioni avanzate dai due schieramenti durante la campagna elettorale e le ipotesi di una catastrofe incombente nel medio periodo che dovrebbe culminare nella fuoriuscita dall’euro entro i prossimi dieci anni[8].



2.    Le tendenze di lungo periodo: cambio, dinamica reale e corsi di borsa

    L’Italia debutta nel club dei fondatori della moneta unica e nel nuovo mondo dell’euro dopo quasi un decennio di vicende molto faticose e difficili, il 4 gennaio del 1999. A quella data la moneta unica europea si presenta con un valore unitario capace di acquistare un dollaro e diciotto centesimi in valuta americana. In quello stesso giorno occorrevano 1.642,44 lire italiane per comprare un dollaro ed, infatti, per ottenere un euro servivano 1.936,27 lire al cambio del 4 gennaio 1999.
La dinamica di lungo periodo dei rapporti tra euro e dollaro si muove lungo
una doppia parabola che si legge nel grafico 1(*).
    Dopo il debutto inizia un percorso discendente che porta, il 26 ottobre del 2000, l’euro al suo minimo sul dollaro, 0,825: la stampa internazionale ironizza sulla “quota novanta” della valuta europea. Da quella data inizia la stagione di progressiva debolezza della valuta americana che riporta, progressivamente, il valore dell’euro oltre la quota stabilita nel suo atto di nascita. Il 28 dicembre del 2004 con un euro si possono comprare un dollaro e trentasei centesimi della valuta americana. Si conclude in quel giorno il secondo ciclo parabolico, quello positivo, della valuta europea ed inizia la rimonta della valuta americana, che porta il cambio tra il dollaro ed euro ad 1,231 al 21 aprile del 2006. L’effetto più rilevante di questo saliscendi nel cambio tra dollaro ed euro si è manifestato sul mercato del petrolio e sulla dinamica delle esportazioni dei prodotti finiti nei mercati internazionali. Il dollaro debole ha attenuato la pressione della dinamica nel prezzo del petrolio, la “tassa petrolifera”, mentre la progressiva debolezza dell’euro, nei mesi che ci separano dal suo record massimo, il dicembre del 2004, si cumula con il rialzo del prezzo del petrolio ed amplifica l’impatto di quel rialzo sulla struttura economica delle produzioni nazionali europee e sulla capacità del vecchio continente di produrre energia. La combinazione tra l’impatto della quotazione del dollaro in euro, l’integrazione progressiva dei mercati internazionali – cioè la nascita di un vero e proprio mercato globale – ed il processo di specializzazione delle produzioni industriali nazionali, che segue il criterio dei costi comparati internazionali, ci spiega il diverso profilo dinamico delle economie reali, misurato dalla crescita del prodotto interno lordo nei singoli mercati domestici nazionali. Questa dinamica reale di lungo periodo, che precede il debutto dell’euro ma viene esaltata dalla semplificazione del regime monetario internazionale e dall’accelerazione dell’integrazione finanziaria mondiale che quel debutto ha consentito, si legge nel grafico 2(*).
Emerge chiaramente, dal calcolo dei numeri indici sul prodotto interno lordo con base unitaria nel 1970 – utilizzando il data base elaborato dall’OCSE nel suo Factbook2006, disponibile anche on line sul sito web di quella organizzazione – una netta distinzione tra paesi lenti, le “tartarughe” e paesi veloci, le “lepri”, rispetto al diverso tasso di incremento con cui essi sviluppano le dimensioni originarie, cioè quelle del 1970, del proprio prodotto interno lordo.
Nel data base dell’OCSE quelle dimensioni sono misurate in miliardi di dollari ed a parità di potere di spesa relativo nei singoli mercati nazionali.
La prima evidenza è la maggiore dinamicità dell’indice riferito all’insieme dei paesi OCSE rispetto a quello riferito ai 15 paesi che costituiscono il primitivo nocciolo duro dell’attuale Unione Europea.
Fatto pari ad uno il pil del 1970, a prezzi correnti ed a parità di potere di acquisto, nel 2004 l’indicatore dell’OCSE si attesta a quota 10,695; l’indicatore UE15 si ferma a 9,149 e quello degli Stati Uniti arriva ad 11,394. Messico, Australia, Corea, Turchia ed, in Europa, Irlanda, Spagna, Portogallo, Norvegia, battono gli Stati Uniti di America. Nell’ambito dell’Unione Europea, invece, si nota la convergenza della Spagna verso il ritmo degli Stati Uniti e l’inversione di posizione, tra i paesi lenti, della Germania rispetto all’Italia, scendendo all’ultima posizione la seconda rispetto alla prima delle due economie nazionali ora indicate.
È interessante ricordare anche un dato di origine diversa, elaborato dal Fondo Monetario Internazionale. Nel suo world outlook rilasciato ad aprile del 2006, il Fondo misura il tasso annuo di crescita dell’economia mondiale, e delle singole nazioni, per il 2004 ed il 2005 e fornisce una prima stima di quel valore, relativamente ai prossimi due anni, il 2006 ed il 2007. Si vede chiaramente come, alla scala mondiale, la spinta forte della crescita si manifesta in Cina ed in India e, più in generale nei paesi emergenti. La stessa Russia, partendo come altre nazioni new comers da livelli iniziali molto più bassi in valore assoluto, crescerà più rapidamente degli Stati Uniti che, in ogni caso, tengono il passo rispetto alla dinamica del mondo nel suo complesso. Il Mondo cresce, nella media tra i due anni alle nostre spalle ed il prossimo biennio, al 4,21% annuo; gli Stati Uniti al 3,18% annuo. L’Italia risulta il vagone più lento con un tasso medio annuo di crescita pari allo 0,34% mentre la Cina quello più veloce, con il 9,18% medio annuo. L’insieme di questi valori, indicati dal Fondo Monetario Internazionale, viene rappresentato nel grafico 3 e nel grafico 4(*).
La dinamica dei corsi di Borsa non riflette meccanicamente le dinamiche reali innescate dall’integrazione dei mercati finanziari e dalla variabilità del cambio tra dollaro ed euro.
La nascita dell’euro precede di un anno il picco delle borse mondiali.
Il grafico 5(*) espone la dinamica dei numeri indici relativi, calcolata a partire dal 1998.
Con il nuovo secolo si afferma una tendenza riflessiva dei corsi di Borsa, nonostante i mercati finanziari accusino una marcata liquidità e, di conseguenza, un livello generalmente contenuto dei tassi di interesse nominali. La sconfitta, altrettanto generalizzata dell’inflazione, nelle economie industriali, mantiene superiori allo zero anche i tassi reali di interesse[9]. Nei primi anni del ventunesimo secolo questa abbondante liquidità si accompagna ad una lunga pausa nel ritmo di crescita reale ma, a partire dal 2003, tranne che in alcuni paesi ed, in particolare, in Europa, come abbiamo visto, riprende l’espansione dell’economia mondiale. Tutte le principali borse rimbalzano, infatti, con il 2004. Il grafico 5(*), inoltre, ci permette di valutare il diverso sentiero di espansione, paese per paese, che offre la sponda a questo generalizzato rimbalzo. Mentre il basso profilo del mercato tedesco risulta coerente con la fiacca crescita reale, osservata ed attesa, in quel paese, appaiono meno coerenti con la dinamica reale dell’economia italiana, corsi di borsa allineati con gli incrementi della borsa americana. I corsi italiani si sovrappongono, nel vecchio continente, a quelli della borsa francese mentre, come abbiamo appena detto, l’economia reale della Francia realizza performance molto più brillanti di quelle osservabili nel nostro paese. Osservano gli analisti della Banca d’Italia che, negli ultimi mesi,

Il positivo andamento italiano è ascrivibile ai settori automobilistico (27%), bancari e assicurativo (24% e 22%, rispettivamente). Nel primo comparto l’incremento dei corsi è avvenuto in seguito alla presentazione di un piano di ristrutturazione da parte della maggiore società quotata; nel settore bancario esso ha riflesso verosimilmente aspettative di riassetto della compagnia societaria di alcuni dei principali istituti di credito. L’indice del listino italiano Techstar, riservato a società innovative che rispettano più stringenti standard di trasparenza è salito del 25% contro il 4% dell’indice statunitense Nasdaq ed il 17% di quello britannico Techmark[10].

In questa osservazione si concentra la descrizione della qualità e del limite della nostra borsa: troppo piccole, e limitata nel numero dei titoli quotati, per essere uno specchio dell’intera economia reale del paese ma anche impegnata in uno sforzo di trasparenza ed efficienza che ne dilata il margine di confidenza nei confronti dei risparmiatori. Risparmiatori che la utilizzano per impiegare una frazione del proprio risparmio, in competizione con i titoli di Stato, le obbligazioni private e gli immobili. La brillante performance della borsa, infatti, potrebbe anche essere spiegata da una ricomposizione di portafogli in presenza dei default accusati dalle obbligazioni private, dai timori di downgrading del debito pubblico italiano e dalla pausa di riflessione che si annuncia sugli immobili dopo la forte lievitazione degli ultimi anni.
Da questa sommaria rassegna della dinamica reale, monetaria e finanziaria degli ultimi anni il nostro paese appare chiaramente come una economia lenta nella sua espansione ma ricca nella dimensione patrimoniale: teatro di importanti innovazioni finanziarie ed industriali, in particolare nelle imprese e
nelle banche private, o privatizzate di recente. Come abbiamo già detto la iniziale
debolezza dell’euro ci ha aiutato a fronteggiare il rialzo del prezzo del petrolio, alimentato dalla progressiva affermazione sulla scena internazionale dei paesi che hanno accelerato la propria crescita, ma questo effetto si è esaurito con il manifestarsi di un differenziale di crescita tra Europa e Stati Uniti che si riflette nel riapprezzamento progressivo del dollaro rispetto all’euro. L’Italia presenta, nel suo intorno di riferimento, l’area dell’euro, la peggiore performance in termini di crescita reale ed una struttura assai fragile della finanza pubblica.



3. L’origine della fragilità italiana e le terapie proposte per aggredirla durante la campagna elettorale

Gli indicatori sullo stato dell’economia italiana mostrano l’esistenza di problemi oggettivi ma anche l’apparire di un giudizio progressivamente migliore sulle aspettative a breve termine che, tuttavia, non si traduce in un effettivo miglioramento dei dati osservabili nel periodo immediatamente successivo a quello in cui è stata realizzata quella rilevazione. Scrivono gli analisti della nostra banca centrale che «anche in Italia (come nel resto dell’Europa durante la seconda metà del 2005) i risultati delle inchieste condotte presso le famiglie e le imprese prospettano un miglioramento del quadro congiunturale che non trova ancora riscontro nell’andamento delle variabili reali». Considerando la relazione forte che lega ciclo politico e ciclo economico, si potrebbe affermare che questa mancata conversione in una svolta espansiva delle aspettative positive sia stata l’effetto della elevata incertezza generata dalla lunga campagna elettorale, che ci ha accompagnato dall’autunno del 2005 alla primavera del 2006.
Il risultato delle elezioni, che a sua volta si traduce in una ulteriore addizione di incertezza sulla possibile governabilità del paese, confermerebbe la capacità di previsione delle imprese italiane che, scontando la sostanziale equivalenza delle forze in campo per la competizione elettorale, hanno rimandato investimenti che, sulla base di un giudizio economico, in senso stretto, avrebbero potuto comunque essere realizzati. In Italia

nel 2005 l’indice della produzione industriale, corretto per il diverso numero di giornate lavorative, è aumentato nell’area dell’1,2 per cento, del 3,5 in Germania, dello 0,7 per cento in Spagna; è rimasto stazionario in Francia ed è diminuito in Italia (-0,8 per cento). Gli indicatori dei punti di svolta del ciclo della produzione industriale nell’area e nei principali paesi segnalano una ripresa dell’attività […]. Secondo nostre stime preliminari, che recepiscono i nuovi conti nazionali, nel 2005 il reddito disponibile delle famiglie sarebbe aumentato di poco più di mezzo punto percentuale in termini reali, valore pari a circa la metà della crescita registrata nel 2004. L’aumento è attribuibile in buona parte al monte retributivo lordo, sospinto soprattutto dalla crescita delle retribuzioni unitarie. È venuto meno l’impulso fornito dai redditi da lavoro autonomo, che hanno risentito del forte calo delle unità di lavoro indipendenti. Si è confermata sostenuta la dinamica del risultato lordo di gestione, che include i redditi da locazione e che ha contribuito per un quinto alla crescita del reddito disponibile. Sarebbe ulteriormente aumentata la propensione al risparmio delle famiglie, proseguendo una tendenza in atto dal 2001, riconducibile a intenti precauzionali associati all’evoluzione del sistema previdenziale e alla maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Di pari passo anche la ricchezza netta si sarebbe accresciuta, sia nella componente finanziaria sia in quella immobiliare, che ha beneficiato dell’ulteriore rialzo delle quotazioni degli immobili (9,7 per cento nell’anno). Il livello di indebitamento delle famiglie, seppure in crescita, rimane basso nel confronto con le altre economie industrializzate, con riferimento sia al credito al consumo sia ai mutui immobiliari[11].

Un mercato interno stagnante si affianca alla manifestazione di una incapacità strutturale di catturare i vantaggi della ripresa internazionale.

Nonostante la dinamica ancora sostenuta del commercio mondiale, nel 2005 le esportazioni di beni e servizi, rilevate nei conti nazionali, sono cresciute di appena lo 0,3 per cento, dopo il recupero dell’anno precedente (3,0 per cento). Le vendite all’estero in quantità avrebbero registrato un progressivo miglioramento nel corso dell’anno, favorite dal deprezzamento dell’euro e dal connesso guadagno di competitività, pari a circa quattro punti percentuali, misurato sulla base dei prezzi alla produzione. Questo recupero, tuttavia, si innesta su una tendenza di lungo periodo al peggioramento. Misurando la competitività dei manufatti con il costo del lavoro per unità di prodotto corretto per il cambio, in Italia, alla rapida erosione, nel 1995-96, del vantaggio acquisito con le svalutazioni della lira nei tre anni precedenti era seguito un periodo di sostanziale stabilità, mentre negli altri principali paesi europei si registravano guadagni. Dal 2001 al 2004 si è registrata una nuova perdita, del 30 per cento circa, determinata principalmente dal ristagno della produttività. In quello stesso quadriennio anche in Germania, in Spagna e in Francia la competitività si è deteriorata, ma in misura inferiore, pari rispettivamente al 6, al 12 e al 13 per cento circa […]. Dal 1995 la quota dell’Italia sulle esportazioni mondiali, valutata a prezzi costanti, si è progressivamente ridotta, dal 4,6 al 2,7 per cento, mentre quella della Francia calava dal 5,7 al 4,9 per cento, quella spagnola rimaneva sostanzialmente invariata e quella tedesca cresceva dal 10,3 all’11,7 per cento. Anche nel 2005 si è osservata una diversità nelle politiche di prezzo dei produttori italiani sui mercati esteri rispetto al mercato interno: sui primi, dove la domanda era più dinamica, sono stati recuperati margini di profitto, a scapito della tenuta delle quote di mercato. Rispetto ai principali partner europei la nostra specializzazione produttiva risulta ancora concentrata nei settori a basso contenuto tecnologico. Le esportazioni italiane di beni in volume, valutate in base agli indici di commercio estero dell’Istat, sono calate soprattutto nei mercati della UE, con una notevole contrazione nel Regno Unito e una più contenuta in Germania. Tra i paesi esterni all’Unione, il ritmo di crescita delle esportazioni è stato elevato in Russia. In tutti gli altri principali mercati non europei, tra cui Stati Uniti e Cina, le esportazioni italiane hanno registrato un calo, pur in presenza di un andamento assai favorevole della domanda, in particolare nell’economia cinese. Negli Stati Uniti sono diminuite soprattutto le vendite nei settori tradizionali, con particolare riferimento ai mobili e alle calzature; in Cina è continuata la diminuzione delle esportazioni di macchine e apparecchi meccanici, anch’essa sintomo di una crescente difficoltà in comparti tradizionalmente di forza del nostro commercio. Nel complesso sono aumentate le esportazioni nei settori dei metalli e prodotti in metallo, degli apparecchi elettrici e di precisione e della chimica. Sono calate invece quelle di macchine e apparecchi meccanici e dei prodotti di tutti i settori tradizionali (tessile e abbigliamento, prodotti in cuoio e calzature, mobili, minerali non metalliferi)[12].

Calano le esportazioni per motivi legati alla nostra capacità competitiva, legata alle dimensioni del costo del lavoro per unità di prodotto ed alla scala dimensionale della larghissima parte delle nostre imprese che impedisce sia la realizzazione di economie di scala che di economie di network, capaci di realizzare aggregazioni industriali fondate sulla connettività e la logistica piuttosto che sulla prossimità locale, come accadeva nei distretti industriali negli anni Ottanta.
Ma anche il turismo, che alimenta il ciclo congiunturale secondo i medesimi effetti e le stesse modalità delle esportazioni, si presenta con un bilancio negativo nella ricognizione dei dati congiunturali dell’economia italiana.

In base ai dati dell’Indagine campionaria sul turismo dell’Ufficio Italiano dei Cambi, che registra i viaggi internazionali per motivi personali e di lavoro, nel 2005 l’avanzo turistico è tornato a ridursi, dai 12,2 miliardi dell’anno precedente a 10,5 (0,7 per cento del PIL). Alla forte ripresa della spesa e del numero dei viaggiatori italiani all’estero (10,4 e 6,4 per cento rispettivamente, contro -9,4 e -15,4 per cento nel complesso del 2004), si è accompagnato un ristagno degli introiti turistici dell’Italia (0,1 per cento, contro 3,8 nel 2004), nonostante l’andamento relativamente favorevole del numero di arrivi dall’estero. Le spese per viaggi in Italia di cittadini della UE, che costituiscono i due terzi delle entrate del comparto, si sono ridotte del 3,1 per cento; dopo la ripresa del 2004 sono diminuiti gli introiti e il numero di viaggiatori dalla Germania, il primo paese di provenienza per arrivi e per spesa; sono calati anche gli esborsi dei viaggiatori britannici, mentre sono assai aumentati quelli dei cittadini spagnoli e dei maggiori tra i paesi nuovi membri della UE. Le entrate dall’esterno della UE sono cresciute del 6,5 per cento rispetto al 2004, con il contributo prevalente dei cittadini del resto d’Europa e delle Americhe. È proseguita la ripresa, in atto dal 2004, della spesa dei viaggiatori statunitensi, dopo le forti riduzioni del biennio 2002-03. Dal lato delle uscite, la spesa dei viaggiatori italiani all’estero ha ripreso a crescere a ritmi simili sia nella UE, sia al di fuori di essa; l’incremento ha interessato le principali destinazioni (Francia, Stati Uniti, Austria, Spagna e Regno Unito), con l’esclusione della Germania e della Svizzera[13].

Chi condivide l’analisi e la previsione di Marcello De Cecco[14] che conducono ad un possibile apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro, deve ritenere che questi fenomeni di deterioramento competitivo saranno amplificati dall’avverarsi della previsione circa un apprezzamento possibile dell’euro, determinato da forme di opportunismo da parte delle autorità monetarie europee e giapponesi. E deve anche riconoscere l’ulteriore indebolimento che ne deriverebbe sugli effetti positivi, per le imprese ma solo nel breve periodo, di una riduzione nelle dimensioni del cuneo fiscale, obiettivo sul quale sembrano convergere entrambi gli schieramenti del sistema politico italiano. La riduzione del cuneo fiscale è equivalente, negli effetti reali, ad una svalutazione della moneta nazionale, anche se i suoi effetti contabili si riflettono nei saldi della finanza pubblica. Probabilmente questa equivalenza può avere spinto alcuni osservatori internazionali a ritenere “probabile” un default, rispetto alla utilizzazione dell’euro, come conseguenza della mancata copertura dei fabbisogni necessari per ottenere la riduzione ampia e puntuale nelle dimensioni del cuneo fiscale, annunciata da Romano Prodi durante la campagna elettorale[15].
Gli attriti che frenano la ripresa del processo di crescita non dipendono solo dalle componenti della domanda aggregata ma anche dalle condizioni istituzionali in cui deve essere gestita la nostra offerta aggregata.

Nel 2005 l’indice della produzione industriale, corretto per il diverso numero di giornate lavorative, è aumentato nell’area dell’1,2 per cento, del 3,5 in Germania, dello 0,7 per cento in Spagna; è rimasto stazionario in Francia ed è diminuito in Italia (-0,8 per cento). Gli indicatori dei punti di svolta del ciclo della produzione industriale nell’area e nei principali paesi segnalano dalla scorsa estate una ripresa dell’attività […]. Il valore aggiunto è aumentato nel 2005 solo nel terziario, allo stesso ritmo dell’anno precedente; si è ridotto nell’industria, proseguendo nella tendenza calante in atto dall’inizio del decennio. Le difficoltà in cui versa questo ultimo settore trovano conferma nell’ulteriore calo dell’indice della produzione
industriale. Nella fase espansiva, pur con oscillazioni, osservata nei sistemi industriali europei dal 1993 alla fine del 2000, l’industria italiana aveva accumulato un ritardo di crescita della produzione, rispetto alla media dell’area dell’euro, di cinque punti percentuali. Il divario si è ampliato di ulteriori otto punti successivamente. L’industria è in ripresa nell’area dal 2003, mentre in Italia ha seguitato a perdere terreno; una diminuzione più consistente del prodotto industriale si è registrata in questo ultimo periodo nei settori che realizzano all’estero più del 40 per cento del fatturato (fig. 8). Nel 2005 il calo della produzione nell’industria ha interessato tutte le principali categorie di prodotto, concentrandosi soprattutto nei beni di consumo e nei beni strumentali. In espansione è risultata invece, come negli anni precedenti, la produzione di energia. Si è ulteriormente ridimensionata l’attività nei comparti tradizionali in cui l’Italia è specializzata e che sono più esposti alla concorrenza dei paesi emergenti. Le produzioni tessili, di abbigliamento, pelli e calzature, in flessione dall’inizio del decennio, sono scese nell’anno di circa il 7 per cento, raggiungendo un livello assai inferiore a quello delle precedenti fasi cicliche discendenti. La crisi produttiva ha investito anche settori a più elevata tecnologia: una riduzione dell’output quasi del 5 per cento si è registrata nei comparti delle macchine elettriche, delle apparecchiature elettriche ed elettroniche e dei mezzi di trasporto[16].

Alle origini di questa debacle produttiva si collocano numerose circostanze, reali ed istituzionali, che convergono nella limitazione della capacità delle imprese di adattarsi ai nuovi termini della competizione internazionale: la mancata liberalizzazione dei mercati, a partire dal mercato del lavoro e nonostante i primi positivi effetti della legge Biagi; le dimensioni del costo del lavoro per unità di prodotto; la conflittualità legata alle vertenze contrattuali ed il parallelo incremento delle quota di contratti da rinnovare, sul totale del monte salari nazionali, che alimentano l’aspettativa di una ulteriore dilatazione delle ore di lavoro perse per conflittualità nei luoghi di lavoro. Non meraviglia che, in un simile contesto, la stagnazione dell’attività produttiva abbia generato una caduta delle entrate pubbliche che, unitamente al mancato controllo della spesa corrente, alla lievitazione degli interessi ed alla necessità di implementare comunque sistemi infrastrutturali tendenzialmente obsoleti, abbia a sua volta generato lo sfondamento dei limiti imposto dal patto di stabilità e crescita in materia di finanza pubblica. Deficit e debito, del settore pubblico, si allargano, in relazione al pil se il pil non si espande almeno al ritmo della crescita reale della spesa corrente complessiva, inclusi gli interessi. Nel mancato rispetto di questa circostanza contabile si ritrova l’origine della progressiva diminuzione dell’avanzo primario, quello calcolato al netto degli interessi sul debito pubblico, che si è manifestata negli ultimi cinque anni. Ma, attesa la dimensione delle aliquote fiscali italiane, la insoddisfazione dei contribuenti, di fronte alla stagnazione del proprio reddito e alla inconsistenza di larga parte delle prestazioni sociali e previdenziali erogate dalla pubblica amministrazione, alimenta la disponibilità per elusione ed evasione fiscale e la insofferenza verso manovre di stabilizzazione centrate sulla fiscalità ed il contenimento delle spese. Come quello che, nonostante un approccio radicalmente diverso sul terreno dei principi, la stessa coalizione di centrodestra al Governo ha dovuto scontare nell’emanazione della legge finanziaria, approvata a dicembre del 2005. E come potrebbe avvenire in occasione della manovra aggiuntiva che richiedono al nuovo Governo gli osservatori internazionali in occasione del primo atto di politica economica previsto: il documento di programmazione economica e finanziaria del giugno 2006. Il confronto elettorale non ha offerto soluzioni attendibili a questo genere di problemi anche perché si è consumato intorno ad una sorta di radicalizzazione estrema delle posizioni, tra gli schieramenti e dentro lo stesso schieramento di centrosinistra.
Il primo match televisivo tra Prodi e Berlusconi si è svolto, per larghissima parte, sui temi della politica economica. Complice il format anglosassone rigido, che imponeva una sorta di marcia parallela dei due concorrenti verso la platea degli ascoltatori, diretti dalle domande dei due giornalisti e sottoposti al vigile moderatore. Entrambi hanno parlato molto di imposte e spesa pubblica ed hanno lasciato in ombra quasi tutti i temi strategici della politica economica. Gli spettatori non sono stati messi in grado di capire come e perché le imprese italiane potranno trovare una nuova capacità di competere nel mercato europeo, dove si contrappongono gli aggressivi new comers, gli smaliziati old members del club monetario ed un free rider, l’Inghilterra, amica dei new comers e senza il vincolo dell’euro.
Nessuna dei due duellanti ha spiegato come le medesime imprese troveranno uno spazio nel mercato globale, che oppone l’Europa, nel suo complesso, ai paesi in forte accelerazione del far east, alla Cina ed all’India. Paradossalmente, infine, due giornalisti meridionali non hanno ritenuto la questione dello sviluppo nel Mezzogiorno degna di alcuna attenzione. Prodi e Berlusconi sono stati gli stereotipi della cultura in cui sono cresciuti: le “armoniche” sfere dell’Italia locale in Emilia e l’aggressiva sicurezza del terziario lombardo. Non c’e’ stata traccia, nella loro discussione, né dei problemi dell’industria italiana né dei problemi del Mezzogiorno. Berlusconi ha sostenuto che, per le imprese le riduzione della pressione fiscale e la creazione di infrastrutture sia quanto basta. Prodi proponeva una svalutazione surrettizia, cioè la riduzione del cuneo fiscale e contributivo, ma non diceva nulla sulla copertura finanziaria necessaria e sui tempi della operazione. Il primo lasciava intravedere la riduzione della pressione fiscale, sulle famiglie ed, indirettamente, la ripresa dei consumi. Il secondo difendeva l’Irap perché finanzia la sanità (sic!!) che, non è un gioiello di efficienza, ma proponeva di ridurre il costo del lavoro colpendo le rendite finanziarie, tassando le plusvalenze azionarie, recuperando sulla evasione fiscale e riducendo l’incremento tendenziale della spesa pubblica. Entrambi non hanno affrontato il problema della mancata efficienza dei mercati finanziari e del modesto apporto che le banche italiane danno alla crescita delle imprese. Entrambi, ma anche i due giornalisti che li intervistavano, non si sono pronunciati sugli effetti positivi della scuola, della università e della ricerca scientifica sul ritrovamento, da parte delle imprese, della capacità di competere nei mercati reali[17]. Evidentemente il triangolo virtuoso che lega banche, imprese ed istituzioni pubbliche, che producono beni collettivi, non viene considerato utile ai fini di una ripresa della crescita nella nostra cultura politica. Il giudizio sui mercati finanziari di Mario Draghi sembra andare in una direzione diversa. Secondo Draghi[18] si osserva sui mercati, negli anni alle nostre spalle, una riduzione del premio per il rischio che riflette una minore avversione al rischio stesso, od un vero e proprio errore di valutazione, da parte degli operatori. Parallelamente la facilità con cui si possono accendere debiti differisce nel tempo le scelte per correggere gli squilibri reali, che limitano il rendimento degli investimenti realizzati, rimandando la data di un aggiustamento sistemico delle economie più fragili, come quella italiana. Guardiamo al nostro caso nazionale grazie anche alle elaborazioni di Mediobanca sulle duemila principali società italiane[19]. Il roi, cioè il rendimento degli investimenti reali, declina nell’industria manifatturiera dal 1995 al 2004, passando dal 12% al 7%: le imprese industriali hanno estratto un volume decrescente di valore dagli impianti di cui disponevano. Nel 2000 si era consumata la gran parte di questa contrazione, essendo il roi arrivato a quota 8,5%. Più in generale, ed indipendentemente dai settori merceologici, fatto pari a 100 il valore aggiunto nel 1995, le poche imprese quotate, circa trecento, sono a quota 97 nel 2000 ed a quota 85 nel 2004. Le altre grandi imprese, nelle medesime date, si quotano a 115 ed a 125. Le medie imprese, invece, battono le grandi perché si assestano a 118 ed a 130. L’industria ristagna, in termini di fatturato, dopo il 2000 e presenta un margine, del risultato corrente sul fatturato stesso, declinante dopo il 1999. Il terziario si espande, invece, ed espande la quota del risultato corrente sul fatturato. Dal 1995 ad oggi, insomma, le imprese, ed in particolare quelle industriali, che competono sul mercato estero, affannano e non creano certo valore per gli azionisti in termini sostenuti. Mentre le imprese che agiscono sul mercato interno, meno esposte alla concorrenza, presentano una performance migliore ma quel risultato economico nasce piuttosto dalla mancata competizione che dalla capacità di creare valore. Nel rapporto tra soci ed imprese, infine, basta dare uno sguardo alla dinamica dei mezzi propri. Per l’insieme delle prime 2007 imprese italiane i mezzi propri sono pari a 156 miliardi di euro nel 1996; 244 al gennaio del 2002, 318 al dicembre del 2004. Dal 1986 al 2004 l’incremento viene assicurato per 105 miliardi di euro dai risultati di esercizio ma vengono distribuiti come dividendi ben 115 miliardi di euro. Aumenti di capitale a pagamento per oltre 143 miliardi di euro, e quasi 50 miliardi in rivalutazioni, assicurano l’aumento dei mezzi propri nonostante l’alluvionale distribuzione di dividendi. Nel 2002 le imprese italiane perdono, ma distribuiscono quasi 17 miliardi di euro per dividendi mentre nel 2003 il risultato economico è positivo per 11 miliardi di euro mentre i dividendi distribuiti sono oltre 16 miliardi. Nel 2004 il risultato economico, oltre 28 miliardi di euro, supera finalmente il volume dei dividendi, che si ferma solo a 19,5 miliardi di euro. I mercati finanziari hanno registrato la inconsistenza economica e la singolare gestione finanziaria perché, fatti pari a 100 i corsi secchi di borsa nel 2000, essi sono a 64 nel 2003, e risalgono ad 82 nel 2004, mentre i prezzi al consumo aumentano del 10% negli stessi anni. I corsi secchi di borsa non hanno neanche tenuto il livello in termini di potere di acquisto! Sembrerebbe che, nel caso italiano, le imprese non siano in grado di reggere né il modello americano né quello renano mentre certamente ci possono essere casi di opportunismo dei manager verso gli azionisti e, forse, anche di qualche azionista verso l’impresa. Ferma restando la bassa produttività del sistema economico nel suo complesso che peggiora lo stato delle cose. Ogni programma di politica economica dovrebbe indicare la strada per tornare a produrre ricchezza. Peccato che, nella kermesse elettorale, si sia discusso prevalentemente solo di come distribuire una ricchezza che si espande troppo lentamente da molti anni.
Insomma, il tema dominante del confronto sulla politica economica, nella campagna elettorale, è stato la questione fiscale. Entrambi gli schieramenti non hanno parlato di quello che avevano realizzato. Il polo delle libertà, mediante l’azione di Governo sulle cartolarizzazioni, ha praticato una strada per la riduzione del debito pubblico che avrebbe meritato maggiore attenzione. Vendere, mediante le cartolarizzazioni, parte delle attività che appartengono allo Stato è una strada più intelligente di quella che propone una parte del centrosinistra: ricostruire un avanzo primario aumentando le tasse e le imposte, data la base dei contribuenti e dei redditi dichiarati, o grazie ad una marcata riduzione delle aree di evasione fiscale. Meglio agire sugli stock, del debito e delle attività reali, che tentare operazioni su flussi che scontano un radicale squilibrio dimensionale tra quello che si vuole ridurre in termini di incassi, il cuneo fiscale, e quello che si deve recuperare altrove per pareggiare quel mancato gettito. Dalla data dell’ultima competizione regionale le regioni del Mezzogiorno sono tutte governate dal centrosinistra e propongono una sorta di coordinamento delle proprie politiche di coesione e sviluppo. Sia per quello che possono realizzare con la copertura dei fondi 2000/2006 che sui progetti da includere nell’agenda per il 2007/2013. Non abbiamo sentito di azioni virtuose per il Sud, e dei loro brillanti risultati, negli interventi dei leader di quello schieramento né abbiamo letto di best practices di successo nel programma licenziato dallo staff di Romano Prodi. Si può completare l’elenco di quello che non si è detto, da entrambe le parti in gioco, ricordando il totale silenzio sulle condizioni necessarie per una robusta espansione del sistema nazionale delle imprese private. Per fortuna non sono stati riesumati né i campioni nazionali della politica industriale, sul modello “francese” che piace tanto al centrosinistra, né le meraviglie degli incentivi finanziari, opportunisticamente utilizzati dal sistema bancario, che hanno raccolto il consenso del governo di centrodestra. Non sono stati al centro del confronto proprio i temi che hanno l’impatto maggiore sul ritrovamento della capacità di competere: regime della competizione, produzione del capitale umano, energia ed investimenti in asset intangibili. La Confindustria aveva proposto, ad esempio, la modernizzazione radicale delle università ed il traghettamento del “socialismo municipale” delle public utilities verso dimensioni, strutture finanziarie e forme di governance orientate ai mercati. Ci viene il sospetto, di fronte a tanti silenzi sulla crescita, la libera impresa e la libera circolazione delle idee e della conoscenza, che in entrambi gli schieramenti, e nei loro gruppi dirigenti, ci sia un forte deficit di cultura liberale – che non è il feticcio del liberismo selvaggio spesso evocato – ma solo il riconoscimento consapevole dei modi e delle forme in cui si sviluppa oggi nel mondo l’economia monetaria di produzione. L’assenza di questa cultura, e dei paradigmi scientifici che ne alimentano le radici, determina la scomparsa dei contenuti, e della loro rappresentazione, nei programmi proposti all’elettorato. Non esiste solo un difetto di comunicazione ma un vero e proprio gap di conoscenza. Azzardiamo una interpretazione sulla esistenza di questo gap in chiave di storie regionali eterogenee. Non è un mistero che i valori dominanti dei due schieramenti trovino le proprie radici lungo un asse che si snoda dalla Toscana alle Venezie, passando per l’emisfero di levante della pianura padana. Si tratta di una delle aree vaste più ricche ed omogenee dell’Unione Europea. Nell’ambito della quale le imprese sono di medie e piccole dimensioni, prevalgono numerose partnership tra poteri privati e politiche pubbliche, non esistono grandi imprese che producano beni e servizi tangibili e, come in tutte le aree ad elevato reddito pro capite, dominano la scena gli atteggiamenti orientati al welfare ed alla piccola dimensione urbana piuttosto che alla polarizzazione, dei consumi e della produzione, ed alla creazione di nuova ricchezza. Crescita, Questione Meridionale, Capitale umano e Networking Companies, sono interessi domiciliati, al contrario, tra il triangolo del Nord Ovest ed il Mezzogiorno, lungo una linea che sfiora, solo come una tangente, la città di Milano.



4. Le conseguenze logiche di questa analisi

L’area dell’euro rappresenta la parte più critica e lenta nel sistema dell’economia mondiale. La grande sfida non è rappresentata dal fatto che l’Italia possa restare nel sistema dell’euro ma mettere il sistema dell’euro in grado di integrarsi con l’economia globale. Questa percezione è molto diversa da quella che circolava negli anni Novanta, dopo un trauma profondo e di fronte alla dolorosa scelta di mettere il nostro paese in grado di aderire alla creazione della moneta unica. Allora entrare nel gruppo dei soci fondatori del club monetario europeo era la dimostrazione che l’Italia poteva mantenere un posto di prima fila nell’economia mondiale. Il mondo è radicalmente cambiato da allora ad oggi. La sfida dell’Europa di oggi e duplice: verso i paesi dell’allargamento essa deve dimostrare una capacità di integrazione maggiore ed in quei paesi essa dovrebbe ritrovare le ragioni di una maggiore espansione del proprio grande mercato domestico. Verso il resto del mondo essa deve dimostrare di essere in grado di ritrovare la strada dell’espansione e di non ridursi solo ad una grande area, dal reddito e dal patrimonio molto elevati, incapace di espandersi sul piano demografico, se non attraverso processi di immigrazione, ricca e caratterizzata da istituzioni amiche della redistribuzione della ricchezza piuttosto che da un regime di mercato capace di premiare il merito, l’efficienza e la responsabilità personali.
Non è una sfida facile. Forse l’Italia rischia di slittare verso il fondo del barile
europeo ma certamente l’Europa rappresenta oggi il vagone di coda nel treno mondiale. L’Italia aiuterà il rinnovamento dell’Europa se saprà cercare e trovare una strada che rimetta in moto l’economia reale attraverso nuove regole sul proprio mercato del lavoro, un regime competitivo amico delle imprese ed una più diffusa utilizzazione delle conoscenze per alimentare il processo di innovazione e la diffusione delle tecnologie in tutti i settori economici. Una volta ottenuto questo risultato, potranno essere affrontati i nodi difficili del riordino della finanza pubblica. Non serve un programma di lacrime e sangue in materia fiscale e previdenziale per i primi cento giorni del prossimo Governo. L’Italia, come l’Europa, deve riscoprire il primato dell’efficienza e della responsabilità rispetto alla suggestione dei bisogni che si trasformano in diritti: non si può mai redistribuire una ricchezza che non esiste. Non esiste uno sviluppo sostenibile, sotto il profilo ecologico, senza una forte accelerazione dello sviluppo tecnologico e la dilatazione delle conoscenze scientifiche. L’Italia può aiutare l’Europa nella ricerca di una nuova presenza sulla scena mondiale proprio perché i suoi ritardi e le sue contraddizioni sono solo l’effetto di una ridondanza delle patologie europee nella sua architettura istituzionale ma, per farlo, deve riconoscere quelle patologie per quello che sono. Di fronte a questo appuntamento sembrano altrettanto inadeguate le culture ed i linguaggi di entrambi gli schieramenti che si contrappongono, in una sorta di stallo, nel nostro sistema politico nazionale. La probabilità di un declino europeo, in definitiva, è comparabile con quella di un default italiano nella partecipazione al regime della moneta unica. Ed il default potrebbe e dovrebbe intervenire, secondo le norme ed i trattati vigenti alla scala internazionale, solo successivamente alla piena manifestazione del declino europeo, che includerebbe il superamento o la cancellazione di quelle norme e di quei trattati.

Massimo Lo Cicero

AVVERTENZA
(*) I grafici sono consultabili nel fascicolo a stampa.

Fonti e Riferimenti Bibliografici

Banca d’Italia, Relazione Annuale, vari anni, at
www.bancaditalia.it/pubblicazioni/ricec/relann;internal&action=_framecontent.action&Target=_self
Banca d’Italia, «Bollettino Economico», numero 45, 2005
Banca d’Italia, «Bollettino Economico», numero 46, 2006
Mario Draghi, Integrazione dei mercati finanziari, intermediazione del risparmio, Cagliari, 4 marzo 2006
International Monetary Fund, Italy-2005 Article IV Consultation Concluding Statement of the Mission, November 2, 2005
International Monetary Fund, World Economic Outlook, April 2006, at www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2006/01/index.htm
OECD Factbook 2006, Economic, Environmental and Social Statistics, at miranda.sourceoecd.org/vl=12731270/cl=20/nw=1/rpsv/factbook


NOTE
[1] Le citazioni sono tratte dal «Corriere della Sera» del 19 aprile 2006.
[2] I contenuti della politica economica ipotizzata dagli imprenditori italiani si possono leggere nella lunga ed articolata intervista, rilasciata da Luca Cordero di Montezemolo, presidente della Confindustria, a Ferruccio De Bortoli, pubblicata da «Il Sole 24 Ore» del 5 marzo 2006.
[3] Cfr. l’intervista rilasciata da Bernabè sulle analisi del «Financial Times» e di Wolfgang Munchau, pubblicata su «Il Sole 24 Ore» del 18 aprile 2006.
[4] In L. Spaventa, Un decalogo per il Professore pubblicato da «la Repubblica» del 5 aprile 2006.
[5] Si veda, su questo approccio che si è più volte affacciato nel dibattito prelettorale, l’articolo di Alberto Alesina, molto critico sul programma presentato dall’Unione: Bastava scrivere tre cose semplici su «Il Sole 24 Ore» del 16 febbraio 2006.
[6] Si legga R. Perotti, Falsi miti sulla povertà italiana, in «Il Sole 24 Ore» del 30 marzo 2006.
[7] In T. Boeri, Solo il maggioritario rassicurerà i mercati apparso su «la Repubblica» del 14 aprile 2006.
[8] Chi scrive ritiene questa prospettiva assolutamente irrealizzabile e dunque sostanzialmente e formalmente improbabile. Si rimanda, sulle ragioni per rifiutare anche solo di prendere in considerazione un simile annuncio profetico, al magistrale articolo di L. Spaventa La favola della lira apparso su «la Repubblica» del 20 aprile 2004 ed alle analisi di Marcello De Cecco contenute in I tassi si fermano ma per le Borse è una festa a metà, in «la Repubblica. Affari & Finanza», 24 aprile 2006.
[9] Sulla dinamica dei mercati finanziari nell’attuale congiuntura mondiale si rimanda all’analisi esposta in Draghi (2006) ed all’articolo di Marcello De Cecco, apparso su «la Repubblica. Affari & Finanza», citato in una nota precedente.
[10] Cfr. Banca d’Italia, «Bollettino Economico», numero 46, marzo 2006.
[11] Questa è la ricostruzione del profilo congiunturale esposta, alla lettera, in Banca d’Italia, «Bollettino Economico», numero 46, marzo 2006.
[12] Ivi, alle pagine 30 e seguenti.
[13] Ivi, alle pp. 34 e 35.
[14] Si tratta dell’articolo apparso in «la Repubblica. Affari e Finanza» e già citato precedentemente.
[15] Tra gli economisti italiani, l’equivalenza economica tra riduzione del cuneo fiscale e svalutazione della moneta nazionale è stata chiaramente descritta da Pier Carlo Padoan direttore della Fondazione Italiani Europei, director del Fondo Monetario Internazionale fino a pochi mesi or sono.
[16] Cfr. Banca d’Italia, «Bollettino Economico», numero 46, marzo 2006, p. 26.
[17] «The Italian economy is at a crucial juncture. Maintaining the current cyclical recovery and raising Italy’s low growth potential depend critically on the conduct of policies both before and after April’s elections. Over the next several months, the government faces two principal demands: living up to fiscal policy commitments and ensuring the passage of several reforms in train. To this end, the remaining parliamentary calendar should focus firmly on economic priorities. At the same time, the electoral campaign provides an opportunity for a national dialogue on the policies required to create a more competitive Italy. To promote this needed dialogue, the main political coalitions should spell out now the details of their economic programs», scrivono gli analisti del Fondo Monetario Internazionale, rilasciando il proprio rapporto ufficiale nel novembre del 2005. La campagna elettorale non è ancora iniziata in quella data ma è evidente come la richiesta degli osservatori internazionali sia rimasta completamente disattesa, ancora oggi.
[18] Si veda il testo del primo discorso del Governatore della banca centrale nella sua qualità, in Draghi (2006).
[19] I dati sono ricavati dal volume edito da Mediobanca: Dati cumulativi di 2007 società italiane (2005). Il testo può essere scaricato in download at www.mbres.it.
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