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VOLPE E L'ITALIA PERDUTA
di Marco Trotta
Le Lettere che Gioacchino Volpe, storico abruzzese (Paganica 1876 - S. Arcangelo di Romagna 1971), scrisse alla moglie Elisa Serpieri e al figlio primogenito Giovanni (detto Nanni), in un periodo drammatico e tormentato della storia nazionale tra il 1944 e il ’45 (cfr. G. VOLPE, Lettere dall’Italia perduta 1944-1945, a cura di Giovanni Belardelli, Palermo, Sellerio, 2006, pp. 116), costituiscono un piccolo ma significativo osservatorio dei sentimenti e dell’atteggiamento di una generazione che, quantunque in una situazione di riconquistata libertà, si sentiva intimamente e tragicamente partecipe della disfatta nazionale, frutto del crollo del fascismo e della umiliante sconfitta militare, resa peraltro più acuta dalle decisive ambiguità dell’8 settembre ’43.
La “nuova Italia” di matrice repubblicana ed antifascista, che stava per schiudersi all’orizzonte nazionale, naturalmente rappresentava per tanti il principio di un inedito risorgimento democratico; ma per altri, come per il Volpe, che era stato convinto fascista, la vicenda assunse contorni di tutt’altro segno e si consumò nella tragedia interiore di chi, allora, mescolava un forte senso di smarrimento personale con una dolorosa, ma ferma, volontà di riprendere il cammino interrotto da una guerra perduta, e di sottolineare la prospettiva di ripartire dignitosamente dalle macerie di una Nazione in frantumi.
Tutto ciò si accompagnava ad un logico pessimismo che faceva il paio con la certezza che la strada da percorrere, in direzione della incipiente democrazia dei partiti, fosse costellata di insidie e segnata da una rinascita modellata sul corpo di «fazioni, dei guelfi e dei ghibellini, impotenti e indifferenti di fronte agli stranieri ma ferocissimi a scannarsi e depredarsi gli uni gli altri, frenetici a cacciarsi l’un l’altro di seggio per prender il posto che l’altro occupava» (10 maggio 1945).
Così, nell’indifferenza per la sorte dell’Italia, Volpe lanciava un preciso segnale alla propria comunità di appartenenza: di lì a poco, essa sarebbe diventata preda della divisione e della frammentazione di tutti gli italiani. Il suo atteggiamento esibiva una chiave di lettura inequivocabile di quel concetto di decadenza, che aveva caratterizzato la storia moderna del nostro Paese, per secoli segnata dalla presenza dello straniero sul territorio italiano. Un fattore che sembrò rivivere nel clima di guerra fredda con la divisione dell’Europa in due rigidi blocchi contrapposti: l’Italia, che nella resa all’originario nemico aveva sperato di ritrovare la propria dignità, sembrava quasi scontare ora, nel quadro dell’egemonia americana, il discorso volpiano sulla decadenza e sulla natura dimezzata di un piccolo Stato rispetto alla forza condizionante dell’“alleato” atlantico, al tavolo dei vincitori di uno scontro epocale con il nazi-fascismo.
Il monito di Volpe, che faceva così trapelare una certa visione prospettica della storia, lasciava pure presagire quelli che, successivamente, sarebbero stati avvertiti come i tratti salienti dell’Italia del secondo Novecento. In altri termini, la sconfitta nella guerra gli appariva come il prodotto di uno scontro tra grandi nazioni, dove l’Italia non aveva avuto alcuna influenza; e in questo il suo giudizio incontrò l’impressione di alcuni autorevoli antifascisti (Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Emilio Lussu), convinti che dopo poco più di ottant’anni dall’Unità, stesse nuovamente per porsi, con la conclusione del conflitto, la questione della libertà e dell’indipendenza nazionale.
Corrispondendo col figlio (28 luglio 1945), lo studioso di Paganica auspicava per il paese istituzioni «veramente» rappresentative dei reali interessi dei cittadini, di «non sacrificare ai diritti del Parlamento i diritti del Governo e la stessa possibilità di governare» (p. 85); di poter inoltre attuare un programma che fosse la sintesi e non la somma dei partiti rinati dalle macerie della guerra, ma soprattutto «un programma che raccolga il suffragio della maggioranza degli Italiani, compreso l’“uomo qualunque”, cioè l’uomo che guarda le cose, almeno nel momento presente, non con occhiali di partito» (ivi, p. 84). Volpe confermava, in tal senso, di appartenere a pieno titolo alla cultura politica del primo Novecento, agguerrita verso le mene compromissorie del Parlamento e tra i partiti, in nome di una superiore vocazione e sintesi nazionali. Ora il bersaglio era polemicamente rivolto ad «una magnifica Repubblica», «senza pace interna, senza libertà se non quella che piace agli assertori della medesima, cioè la “loro libertà”, non “la libertà”» (ibidem).
Dalla trama epistolare emerge, così, la visione storica del Volpe: fautore, da un lato, della Nazione, vincolo e corpo unitario – morale, politico e sociale – capace di alimentare processi di espansione territoriale e di dare lustro all’antica tradizione dell’Italia imperiale; sostenitore, dall’altro, del fascismo, che oltre al perfezionamento dei propri istituti totalitari, si rese protagonista dell’operazione di Nation building, laddove si era consumato il fallimento del liberalismo post-risorgimentale, ed operò a suo modo quella nazionalizzazione di “masse” lasciate troppo a lungo ai margini della vita unitaria.
Sullo scorcio degli eventi tragici della guerra, quest’ottimistica valutazione circa i destini dell’Italia fascista fu travolta dalla considerazione severa della politica estera italiana tra il 1938 e il 1943, «il tallone d’Achille nostro»: l’alleanza con la Germania nazista. «Con la Germania – riassumeva Volpe – si può esser anche alleati, ma per conservar la pace, per concorrer con l’equilibrio delle forze e l’azione diplomatica a conservare la pace, non per fare insieme la guerra» (ivi, p. 86). Un ritorno alla «tradizione del trentennio 1882-1915», al periodo della Triplice Alleanza che aveva unito l’Italia alla Germania e all’Austria-Ungheria, ma senza disdegnare prove di amicizia con l’Inghilterra, era per Volpe da augurarsi: «col mondo anglosassone, – annotava – noi possiamo anche battibeccarci, ma non fare la guerra, specialmente non farla alleandoci con l’avversario numero uno di quelli. Non potremo mai avere la forza e capacità di fronteggiarli» (ibidem).
La speranza di «riguadagnar quota in Africa, come fu possibile nel 1885 andar a Massaua, nel 1893 far un trattato che creava una nostra posizione di diritto su gran parte dell’Etiopia, conquistare nel 1911 la Libia e Rodi, avere nel 1923 il Giuba» (ivi, p. 86-87), se da un verso si accompagnava all’illusione di perseguire relazioni con la Gran Bretagna, per evitare che il fronte europeo non soccombesse ad una «Russia euro-asiatica», d’altro canto finiva per giustificare lo spirito «colonialista, africanista» del Volpe, portato a guardare all’Africa come alla meta del «fascismo degli idealisti», nel quale egli si era identificato nella condanna delle degenerazioni totalitarie e zelanti del mussolinismo e dello “staracismo”, e nella persuasione che la via maestra del fascismo e quindi della Nazione intera rispondesse, nel generale moto di rinnovamento morale, alla convinzione di «generare di sé una nuova e migliore specie di Italiani» (Lettera alla moglie, 29 marzo 1945, p. 70). Da tale punto di vista, il ricordo dell’impresa di Tripoli suonava per Volpe come la migliore prova dell’Italia liberale in ascesa, che nell’ambito del fascismo avrebbe trovato il coronamento delle sue aspirazioni attraverso l’esportazione, proprio in Africa, della millenaria civiltà italica.
Quella che per Volpe era stata la sua Italia in cammino si infrangeva, ora, contro lo scoglio della tragica realtà postbellica, e rischiava sul piano internazionale di passare dalla credibilità di uno «Stato mezzano» al discredito di un «piccolo Stato», poco più che un’espressione geografica. L’epurazione che lo colpì – e molto se ne dolse in queste epistole familiari – assunse i connotati di una vendetta maturata, all’indomani del ‘45, al cospetto di una vera e propria “guerra civile” storiografica e non solo. I suoi protagonisti – come ha documentato di recente Eugenio Di Rienzo (Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica e Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, rispettivamente 2004 e 2006) – furono intellettuali che, cresciuti all’ombra del fascismo, svolsero nella Repubblica una funzione di rilievo nel recidere ogni rapporto con la storiografia del primo dopoguerra.
Sotto questo profilo, non v’è dubbio che Gioacchino Volpe restasse vittima esemplare dell’ostracismo intellettuale del dopoguerra. Il fatto di sacrificarne l’opera di grande storico del Novecento sull’altare della “memoria imperfetta” di un dibattito storiografico aspramente conflittuale, si profila come uno dei tanti sintomi della persistenza, in questi ultimi sessant’anni, di certe resistenze alla “storicizzazione” del fascismo. Sicuramente il metodo cruento grazie al quale il regime mussoliniano si innestò nella vicenda italiana del ventennio, resta un dato da cui la riflessione storica non può prescindere: la violenza come elemento costitutivo dei sistemi totalitari del primo Novecento è un valore negativo che, tuttavia, non toglie spazio ad una equilibrata discussione storica sulla complessità di un fenomeno, che al di là di tutto tentò di esprimere, a cavaliere tra le due guerre, la tendenza alla costruzione di una via peculiare alla modernizzazione delle strutture economico-sociali del paese.
Volpe, infatti, non condannò la violenza fascista, cioè la sostanza del regime, come sottolinea Belardelli nell’Introduzione; blandamente ne denunciò le sembianze totalitarie, soprattutto nella sua fase finale, quasi a volerne debolmente giustificare la caduta. Se il fascismo gli era apparso come lo strumento progressivo più potente per proiettare la nazione sulla strada dell’espansione coloniale, dopo il 25 luglio solo la monarchia, a suo avviso non più compromessa con un regime che aveva tradito le attese di intere generazioni, poteva ammantarsi di autorità per raccattarne la bandiera. Per il Volpe nazionalista fu, forse, questa l’ultima illusione prima di doversi calare nella implacabile cortina del dopoguerra repubblicano.
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