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CROCE E HOPKINS
di Vincenzo Pepe
«Il lettore di una poesia, identificandosi col suo autore, ampliando e conformando l’anima all’anima di lui, s’innalza come lui sui particolari interessi ed affetti (su quelli che gli sono particolari nelle condizioni date); come lui, si deterge in un’analoga catarsi, e s’apre, come lui, alla gioia della bellezza»1.
Non è improbabile che nello svolgere le precedenti considerazioni sul processo di empatia che informa il rapporto tra lettore e poeta, il Croce pensasse anche all’effetto che sulla sua sensibilità avevano esercitato i versi di Hopkins, poeta che gli avvenne di studiare in quello stesso anno (1936), ed il cui apprezzamento, come ci ricorda Montale, era dovuto proprio a quel «dono d’immedesimazione» che è «il punto più forte, il vero punto di resistenza della sua critica»2
Frutto dello studio della originalissima poesia di Hopkins fu un breve saggio, forse non molto famoso, ma non per questo meno importante, con il quale il filosofo inaugurava, in un certo senso, gli studi hopkinsiani in Italia3; inoltre, considerato il carattere sperimentale di quella poesia, lo scritto rappresentava la più clamorosa smentita di quanti si ostinavano, ed ancora purtroppo si ostinano, a parlare di chiusura, se non addirittura di sordità, di Croce nei riguardi dei poeti moderni.
Le seguenti considerazioni, però, intendono prescindere da questi pure importanti meriti, per tentare di meglio precisare, invece, proprio le modalità e le ragioni dell’assenso di Croce alla poesia di Hopkins. È nostro convincimento, difatti, che nonostante il poco o niente che è stato detto al riguardo, questo breve scritto offra interessantissimi spunti di riflessione sulla cui base è possibile fare luce più che, e oltre che, sul poeta oggetto di studio, anche sul lettore, sul Croce stesso, cioè, nella fase forse più travagliata della sua esistenza. Per non parlare dell’aspetto più ovvio, ma non per questo meno intrigante, vale a dire dell’incontro che nel saggio ha luogo tra due sensibilità apparentemente lontane e contrapposte, quali potevano essere quella di un prete protestante che si era convertito al cattolicesimo scegliendo di militare nell’esercito gesuitico; e quella di un filosofo laico che quella cultura gesuitica aveva sempre avversato, denunciandone la machiavellica tendenza ad asservire la letteratura, l’arte e la poesia alle ragioni e alle finalità della politica. Al riguardo, basterà qui riportare il passo nel quale, discorrendo del rapporto tra religione e religiosità, il Croce caratterizzò l’azione svolta dalla religione cattolica nel processo di mortificazione della religiosità, e del ruolo in questo processo giocato appunto dai gesuiti. Il brano merita di essere riportato per intero:
La religione cattolica tiene il primo posto nella sistematica conversione della religiosità in un complesso meccanico di credenze e di leggi; e perciò, non senza fondamento è stata a più riprese tacciata di materialismo ed ateismo. Essa ha porto e porge il più grandioso e meglio congegnato modello ai meccanizzamenti che si tentano da altri regimi oppressi, i quali tutti hanno imparato o imparano dai suoi istituti e metodi, dal suo modo di dominare gli uomini col mezzo delle speranze e dei timori, dal suo perseguitare spietato con odio sacerdotale, dalla sua arte di fiaccare le anime e renderle a sé docili e incapaci di pensieri e di ribellioni, dalle astuzie dei suoi sommi artisti che furono e sono i gesuiti4.

Ma per quanto tenacemente radicato nella sfera ideologica, questo atteggiamento antigesuitico non poteva ottundere quella che era una spiccata prerogativa della sensibilità crociana: la capacità, cioè, di ascoltare e apprezzare i moti dell’umano sentire, anche quando questi provenissero da posizioni culturalmente distanti dalle sue. «Laico sino alla durezza – come scrisse di lui proprio un credente – ma pure pronto ad esaltare voci diverse del cuore umano, cioè esigenze sue veraci e complesse»5. Né l’avversione al machiavellismo gesuitico poteva del resto infirmare l’interesse, in lui sempre vivo, per le tematiche religiose. Basterà ricordare, al riguardo, che in una lettera a Giuseppe De Luca dell’aprile 1927, egli non aveva difficoltà a dichiararsi «studioso di libri ascetici e mistici, e anche teologici, nei quali c’è da raccogliere spunti preziosi di filosofia», e deprecando che «gli storici italiani, i quali hanno ora ripreso sull’esempio tedesco le ricerche sulle origini cristiane, trascurino la storia religiosa d’Italia», si rammaricava di non avere più l’età per mettersi «a quel lavoro»6. Sono queste premesse a far sì che nel saggio che stiamo per prendere in esame la distanza tra il critico laico e il gesuita poeta si annulli, e che, viceversa, l’intesa diventi così piena che a volte si ha l’impressione che il filosofo dialoghi con se stesso attraverso la voce del poeta che egli legge.
Prima di passare alla dimostrazione di quanto sosteniamo, è forse però non inopportuno fornire alcune informazioni di massima sulle circostanze temporali in cui si colloca la composizione del saggio il quale, scritto nel giro di pochi giorni, fu pubblicato, prima, nel secondo numero della Critica del 1937, e raccolto poi nel 1940, con differenze di pochissimo conto rispetto alla prima stesura, in Poesia antica e moderna, dove figura in appendice «come si conveniva per un poeta che era quasi affatto ignoto ai lettori italiani»7.
Nell’approntare il materiale per lo studio della poesia di Hopkins, il filosofo si avvalse dell’aiuto della figlia Elena alla quale, secondo quanto si apprende dai Taccuini di lavoro (sotto le date del 30/8 e 31/8/1936) si deve la maggior parte delle traduzioni che corredano e suffragano l’esposizione. Poco prima di questa data il filosofo doveva aver provveduto ad ordinare i libri necessari all’approfondimento dell’argomento, giacché, sotto la data del 5 settembre successivo, egli annota che gli sono pervenuti «libri dell’Hopkins (carteggio) e sull’Hopkins, e occupata tutta la giornata a leggerli». Il lavoro di lettura si protrae ininterrotto fino al 9 settembre, per riversarsi nella stesura definitiva del saggio, che si conclude il 15 dello stesso mese, con la lettura «della dattilografia dell’articolo sull’Hopkins»8.
Ritmo intenso, come si vede, anche se perfettamente in sintonia, del resto, con quella instancabile, prodigiosa dedizione allo studio che fu una costante di tutta l’esistenza di Croce. Solo che, in questo particolare lasso di tempo, la febbrilità dell’impegno non è tanto, e non solo, la manifestazione più appariscente del carattere di Croce, che tutti conosciamo, che ha in uggia la perdita di tempo; essa è, piuttosto, il segno di una spasmodica volontà di neutralizzare gli attacchi di malinconia e le crisi di depressione sempre più ricorrenti che da qualche tempo sembrano minare la stessa volontà di vivere del filosofo. Di appena qualche anno prima, difatti, (sotto la data del 7/4/1935) è l’annotazione nel diario: «La malinconia che mi prende è troppo grande; ed anche la nausea»; e di qualche anno dopo (sotto la data del 7 aprile 1939), l’altra, relativa a risvegli, abituali ormai, «con la solita ripugnanza e sfiducia a rientrare nella vita».
Sono anni particolarmente difficili per Croce: gli anni, come ci ricorda Gennaro Sasso, in cui il maggiore consenso che il fascismo riesce a guadagnare in Italia accentua la solitudine e l’isolamento del filosofo napoletano. Isolamento e solitudine resi ancora più angosciosi, peraltro, dal senso di impotenza con il quale il filosofo è costretto ad assistere alla inevitabilità della catastrofe che egli vede annunciarsi all’orizzonte del futuro dell’Europa, e che punta inequivocabilmente al sovvertimento degli stessi fondamenti della civiltà occidentale9. I sentimenti che si agitavano nel petto del filosofo in queste circostanze sono facilmente immaginabili, ma vorremmo descriverli prendendo in prestito parole dallo stesso Hopkins il quale, nel caratterizzare il generale clima morale e culturale da cui anche lui si era sentito oppresso nell’ultima fase della sua vita nell’isolamento irlandese, aveva parlato di un forte senso di «[…] degradation of our race, of the hollowness of this century’s civilization; it made even life a burden to me to have daily thrust upon me the things I saw»10.
È sul basso continuo di questo generale stato d’animo di malinconia e prostrazione, dunque, che avviene l’incontro tra Croce ed il gesuita inglese. Ma la lettura dei versi hopkinsiani non poco sollievo dovette recare all’anima del filosofo napoletano, perché oltre ad essere oggettivamente belli, molti di essi sembravano anche una sorprendente conferma in chiave poetica della validità di categorie etiche ed estetiche la cui riflessione aveva impegnato tutta la vita del filosofo napoletano. Significativo, al riguardo, il fatto che come primo campione della poesia hopkinsiana da sottoporre all’attenzione del lettore, Croce trascelga il sonetto intitolato To R. B.11, il quale, cronologicamente, è invece forse l’ultima cosa scritta da Hopkins. Ne riproponiamo qui la traduzione in prosa del Croce stesso alla quale però, per comodità di lettura, abbiamo affiancato, in disposizione tipografica interlineare, anche il testo originale:
The fine delight that fathers thought; the strong
La bella voluttà che genera pensiero, il forte
spur, live and lancing like the blowpipe
impulso vivo e slanciato come fiamma soffiata da una cannuola,
breathes once and, quenchèd faster than it came,
respira per un istante e, spento più presto che non venne,
leaves yet the mind a mother of immortal song.
pur lascia la mente madre di canto immortale.
Nine months she then, nay years, nine years she long
Nove mesi essa allora, anzi anni, durante nove anni
within her wears, bears, cares and combs the same:
tiene quello in sé, lo porta, lo cura e lo plasma:
the widow of an insight lost she lives, with aim
vedova di un’intuizione perduta, vive con dinanzi un fine
now known and hand at work now never wrong.
ora certo, e attende all’opera con mano che, ora, non erra.
Sweet fire the sire of muse, my soul needs this;
Dolce fuoco è il padre del pensiero, la mia anima ne ha bisogno:
I want the one rapture of an inspiration.
Mi è necessario il rapimento unico di un’ispirazione.
O then if in my lagging lines you miss
Che se poi nei miei versi, che si trascinano, voi non trovate
the roll, the rise, the carol, the creation,
l’agile movimento, l’elevazione, l’inno, la creazione,
my winter world, that scarcely breathes that bliss
il mio mondo invernale, che di rado respira ora quella beatitudine,
now, yields you, with some sighs, our explanation
ve ne dà, con qualche sospiro, la spiegazione che fa al caso nostro.

Come è evidente, nel componimento si dà rappresentazione «attuosa di immagini» alla «teoria dell’ispirazione e del lungo e lento lavorio» necessario perché l’intuizione poetica si trasformi nel corpo e sangue dell’espressione. Si tratta, in altre parole, della resa in chiave fantastica del concetto della essenza dileguante dell’intuizione estetica; concetto che, come è noto, è uno dei corollari fondamentali della visione estetica crociana, e che perciò Croce affrontò più volte nel corso delle sue riflessioni. Significativamente, proprio qualche mese prima il concetto era stato ribadito in La poesia, in un cui luogo viene appunto ricordato che:
La poesia visita le menti col fulgore del baleno, e l’umano lavoro le tiene dietro, tratto da lei, da lei affascinato, e coglie di lei quanto può ed invano le chiede di sostare e di lasciarsi rimirare in ogni linea del volto, che quella è già dileguata12.

Ma gli elementi di contiguità tra il sonetto di Hopkins ed alcuni nuclei concettuali della speculazione crociana non si esauriscono qui. Se si riflette, difatti, sulla costruzione del verso d’apertura del componimento: «The fine delight which fathers thought» sarà chiaro che il poeta gioca sull’ambiguità di senso che rende possibile la doppia interpretazione: 1) il piacere può generare pensiero; 2) il piacere può essere generato dal pensiero. Il verso allude, in altre parole, alla possibilità teoretica che il sentimento di piacere nel processo di creazione possa essere, simultaneamente, causa ed effetto del fare poetico stesso. A ben ricordare, è proprio un problema, questo, che Croce aveva affrontato nell’ Estetica e che aveva definito di tale vitale importanza che per la sua soluzione era necessario un ripensamento delle tradizionali categorie di causa e di tempo13. Ma, se si fa attenzione, oltre a questa contiguità tematica con postulati fondamentali dell’estetica crociana, il sonetto presenta un’affinità anche stilistico-lessicale tra il pensiero di Hopkins e quello di Croce: le allusioni con le quali Hopkins connota il processo del concepimento poetico stanno in stretto rapporto isotopico con le parole con le quali Croce aveva a sua volta anni addietro connotato la sua teoria dell’ispirazione, con imprestiti attinti dal campo semantico della biologia del concepimento umano:
E poiché, d’altra parte, fecondare un germe poetico e farne il centro di un mondo interiore e formarne un’opera di pura poesia, non ostante i germi siano tanti, e tanti i lampi di poesia che si accendono e spengono in ogni attimo, è lavoro alto e squisito, non è da meravigliare che esso sia dalla natura o dalla provvidenza affidato a pochi uomini e con lunghi intervalli di tempo14.

Come dicevamo, però, non è solo, e non già, entro queste pure importanti analogie che si possono circoscrivere le ragioni dell’assenso di Croce a Hopkins; l’adesione nasce prima di tutto dal riconoscimento in Hopkins di una genuina ispirazione, la quale sostiene, informa ed alimenta, del pari, la vocazione poetica e la tensione religiosa di Hopkins. Da questo punto di vista, anche la conversione al cattolicesimo (l’avvenimento più importante che segnò la vita del poeta inglese) come Croce riesce bene a vedere, non è affatto il prodotto di riflessioni intellettualistiche o di elucubrazioni teologiche; essa si genera, invece, ex abundantia cordis, da “una dedizione dell’anima” ed in quanto moto naturale dell’anima partecipa della stessa natura della poesia. E qui siamo ad un altro sorprendente punto di consonanza ideale e sentimentale tra Croce ed Hopkins, giacché, pur non lasciandosi sfuggire «la finezza di gusto e di arte» o «la squisitezza nel ritmo del verso e nell’impasto della lingua», il filosofo napoletano mira soprattutto a entrare nelle latebre dell’anima di Hopkins, per coglierne l’essenza primigenia. È così che la scaturigine più pura della ispirazione hopkinsiana viene individuata nel «profondissimo sentimento della forza vitale, o, come si suol dire, della natura, che al tempo stesso viene da lui innalzato ad ansia, angoscia ed aspirazione morale». Non riteniamo di esagerare se affermiamo che nel campo degli studi hopkinsiani raramente è dato di imbattersi in giudizi più sintetici e precisi di quello con cui Croce qualifica l’ispirazione di Hopkins. Ma il riferimento alla «forza vitale» come elemento costitutivo di questa ispirazione, nella quale il forte sentimento della natura si configura, ambiguamente, anche come “ansia, angoscia ed aspirazione morale”, offre lo spunto per qualche considerazione sul tema della vitalità il quale, come si sa, già presente nel primo Croce, a partire proprio da questi anni si riaffaccia in modo sempre più ineludibile alla sua coscienza, fino a diventare uno dei temi dominanti della sua ultima produzione. Se le prime formulazioni identificano schematicamente la vitalità con una sola categoria della pratica (l’utile o l’economico) le riflessioni dell’ultimo Croce riconoscono ad essa un indispensabile ruolo di forza propulsiva di tutte le categorie. Nel contempo, ne approfondiscono la risonanza, per dir così, metafisica, perché questa forza “cruda e verde”, in quanto sintesi di creatività e di pulsione di morte, è intrisa della terribilità del mistero, quasi forza demoniaca “che muove la lirica e il dramma del mondo”. La vitalità come condizione della storia, dunque; e non già, e non solo, della storia fatta dall’uomo, ma della vita tutta in tutte le sue modalità e manifestazioni, ivi comprese «quelle organiche e fisiologiche e telluriche»15. Orbene, è secondo noi proprio la percezione della presenza in Hopkins di un analogo sentimento nei riguardi della storia umana, e persino della natura, a fare sì che Croce sia attratto dal mondo poetico del gesuita. Per convincercene è sufficiente riandare alle parole con le quali il filosofo commenta, ad esempio, il componimento intitolato Inversnaid, il sonetto «nel quale la rappresentazione di un cupo paesaggio, tutto bagnato d’acqua, si riempie della sensazione della vita che rifugge dall’aridità e si pasce e cresce nel selvatico umidore»; e confrontarle con quelle con le quali poco oltre viene ribadita l’indispensabilità del selvatico umidore alla stessa vita spirituale «la quale rifugge dall’aridità come dalla morte, e di continuo si rituffa nell’eterna verginità delle vivaci impressioni e delle irrompenti passioni umane»; per riflettere, infine, sul ruolo che il divino esplica in un altro celebre componimento dell’Hopkins, quello dal titolo God’s Grandeur, che a fini del nostro discorso ci sembra indispensabile citare qui per intero assieme alla traduzione del Croce:
The world is charged with the grandeur of God.
Il mondo è carico della grandezza di Dio:
It will flame out, like shining from shook foil;
essa sprizza come scintilla dal battuto fioretto;
It gathers to a greatness, like the ooze of oil
si raccoglie abbondante come olio che cola
Crushed. Why do men then now not reck his rod?
premuto. Perché gli uomini ora non curano il suo scettro?
Generations have trod, have trod, have trod;
Generazioni hanno camminato, camminato, camminato;
And all is seared with trade; bleared, smeared with toil;
E tutto è arso dal traffico; consunto, macchiato dalla fatica;
And wears man’s smudge and shares man’s smell: the soil
e porta il sudicio dell’uomo, e tramanda l’odore dell’uomo;
Is bare now, nor can foot feel, being shod.
Il suolo è spoglio ora, né il piede, calzato, può sentirlo.
And for all this, nature is never spent;
E, malgrado tutto questo, natura non è mai esaurita:
there lives the dearest freshness deep down things;
là, nel profondo delle cose, vive la più cara freschezza;
and though the last lights off the black West went
e benché le ultime luci siano scomparse dall’occidente oscuro,
oh, morning, at the brown brink eastward, springs
oh! Il mattino sorge al bruno orlo dell’oriente,
because the Holy Ghost over the bent
perché lo Spirito Santo sopra il curvo
world broods with warm breast and with ah! bright wings
mondo cova con caldo petto e con ali, oh, come splendenti!

Orbene, come il filosofo ben vede, nel componimento su citato il divino non è sentito dall’Hopkins come entità trascendente; esso è invece carica interna del reale, dunamis immanente, poiché agisce «in forma di forza cosmica, che in perpetuo richiama dal profondo seno della terra le sorgenti della vita, in perpetuo ringiovanendo il mondo». Significativamente, proprio l’immagine di questo «perpetuo ringiovanimento del mondo» sarebbe ritornata come principale connotazione del tema della vitalità secondo una delle ultime formulazioni consegnate alle pagine dei Discorsi di varia filosofia:
nella continua creazione che è la vita del mondo c’è un perpetuo ascendere dalla mera vitalità alla contemplazione estetica, al pensiero, all’azione morale, un perpetuo ridiscendere da questa superiore spiritualità a profondarsi nella nuova vitalità per risalire a una più ricca spiritualità della bellezza, della verità, della bontà. Che è l’eterno ritmo del mondo, il corso e il ricorso vichiano, il Dio che è creatore e redentore, creatore perché redentore, redentore perché è creatore, Dio e Cristo che espia in sé tutti i peccati del mondo, in quella unitaria dualità la cui armonia è lo spirito16.

Notevoli dunque, come speriamo sia ormai chiaro, i punti di consonanza tra Hopkins e Croce; ma qualora si rifletta sulle parole con le quali quest’ultimo passa a commentare alcuni dei Terrible Sonnets, di quelle liriche, cioè, che, scritte nell’ultima fase della vita del poeta, esprimono «la lotta interiore dell’anima coi suoi gemiti, i suoi gridi, i suoi accenti di disperazione», non sarà difficile rintracciare i segni di una vera e propria empatia, ancorché questa venga dissimulata dall’apparente distacco critico. Per essere dimostrato, questo punto rende necessario un ulteriore ricorso ai Taccuini di lavoro, e segnatamente a quelle pagine dove Croce affida la registrazione dei momenti drammatici della sua lotta contro l’angoscia esistenziale, dalla quale, come abbiamo già visto, si sente prostrato, ma non al punto che non sia capace di opporre a volte un eroico proposito di riscatto, come avviene sotto la data del 7/4/1939:
Svegliandomi con la solita ripugnanza e sfiducia a rientrare nella vita, mi sono ritrovato difronte al solito dilemma: “o si muore o si vive”, con la solita conclusione che, non morendo ora, non c’è da far altro che ripigliare la vita, cioè la fiducia e la speranza. Procuro dunque di raccogliere alla meglio le mie forze.

Orbene, se si riflette sui componimenti che, trascelti dal gruppo dei Terrible Sonnets, Croce sottopone all’attenzione del lettore italiano, si dovrà convenire che, mutatis mutandis, quei versi sembrano nascere da uno stato d’animo che se non è proprio identico, è tuttavia molto simile a quello in cui si trova ora il filosofo. In un certo senso quei versi potrebbero fungere da commento poetico all’esperienza dolorosa che in quegli anni egli affida sempre più spesso alle pagine dei suoi Taccuini. Accanto alla notazione del diario testé citata, per esempio, non avremmo difficoltà a collocare i seguenti versi del componimento n° 45:
I wake and feel the fell of dark, not day.
Io mi sveglio e sento l’angoscia della notte, e non del giorno.
What hours, o what black hours we have spent
Quali ore, o quali ore noi abbiamo passato stanotte;

ai quali faremmo subito seguire questi altri:
Not, I ’ll not, carrion comfort, Despair, not feast on thee,
No, io non mi ciberò di te, o Disperazione, nutrimento cercato in una carogna;
Not untwist - slack they may be - these last strands of man
Non scioglierò, benché lenti, questi ultimi fili dell’uomo
òr most weary, cry I can no more. I can;
in me, pure stanchissimo, non griderò «Non ne posso più!»
can something, hope, wish day come not choose not to be.
Io posso; posso qualche cosa, sperare, desiderare che venga / il
giorno: non scegliere il non essere.

Questa contiguità spirituale fa sì che acquistino notevole risalto anche le poche parole con le quali il filosofo commenta i versi appena citati: «Si tratta di momenti terribilmente vissuti e tuttavia superati, superati dall’animo forte che respinge la disperazione fremente, minacciante, seducente». Se si riflette, difatti, soprattutto su quest’ultima progressione aggettivale, si dovrà convenire che il filosofo si sta riferendo ad una esperienza i cui effetti egli riconosce benissimo per averli subiti lui stesso. Come Gennaro Sasso mette ben in evidenza, Croce era consapevole del carattere autonomo, autogenerantesi di questa tara dello spirito, e che per neutralizzare la carica perniciosa della stessa bisognava prima di tutto resistere al suo effetto ammaliante, “edonistico”17.



NOTE


1 B. Croce, L’indulgenza verso i veri poeti, in Filosofia, poesia, storia, Milano, Ricciardi, 1955, p. 287. Ma il concetto, come si sa centrale nella epistemologia crociana, torna più volte, come, per esempio, in Una pagina della vita di Hegel, dove riceve la formulazione quasi identica: «La poesia di un poeta posso, anzi debbo, leggere trasfondendomi e immedesimandomi nelle sua parole, nei suoi suoni e nei suoi ritmi unendo così l’anima mia a quella di lui».^
2 E. Montale, Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1997, pp. 136-137.^
3 Cfr. A. Lombardo, Croce anglista, in Aa.Vv., Croce quarant’anni dopo, Pescara, 1993, p. 125. Ma lo stesso Croce non manca di segnalare gli scritti italiani su Hopkins che hanno preceduto il suo saggio.^
4 B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Napoli, Bibliopolis, 2002, p. 248.^
5 V.G. Galati, Colloqui con B. Croce, Brescia, Morcelliana, 1957, p. 60.^
6 Cit. in L. Mangoni, In partibus infidelium - Don Giuseppe de Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del novecento, Torino, Einaudi, 1989, p. 124, n. 188. A Don Giuseppe De Luca si deve uno dei due scritti italiani su Hopkins che avevano preceduto il saggio di Croce.^
7 B. Croce, Poesia antica e moderna, Bari, Laterza, 1940, p. VIII.^
8 B. Croce, Taccuini di lavoro 1927-1936, Napoli, Arte Tipografica, 1987.^
9 G. Sasso, Per invigilare me stesso. I taccuini di lavoro di B. Croce, Bologna, il Mulino, 1989, p. 141.^
10 Da una lettera a Dixon del 1 dicembre 1881. Cfr. C.C. Abbott (ed. By), The Correspondence of G. M. Hopkins and R. W. Dixon, Oxford Univ. Press, 1970, 3ª rist., p. 1970.^
11 Sono le iniziali del poeta Robert Bridges, amico e corrispondente di Hopkins, al quale si deve la pubblicazione postuma delle sue poesie.^
12 B. Croce, La poesia, Bari, Laterza, 1936, 6ª rist. 1969, p. 82.^
13 B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Milano, Adelphi 1990, p. 98.^
14 B. Croce, Nuovi saggi di estetica, Bari, Laterza, 5ª rist., 1969, p. 305.^
15 Cfr. A. Parente, Croce per lumi sparsi, Firenze, La Nuova Italia, 1975, p. 133.^
16 B. Croce, Discorsi di varia filosofia, Bari, Laterza, 1960, p. 292.^
17 G. Sasso, op. cit., p. 151.^
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