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LA «VERITÀ SCANDALOSA». NOTE SUL “CASO” HOUELLEBECQ
di Gianluca Genovese
Contro il mondo, contro la vita: il senso della produzione letteraria di Michel Houellebecq è sintetizzato già nel sottotitolo dell’appassionato saggio su Lovecraft, da lui composto prima di misurarsi con la narrativa1. Lo scrittore americano, che aveva saputo intravedere «dietro il sipario della realtà» un «cosmo disperato»2, che era «riuscito a trasformare il proprio disgusto per la vita in una ostilità attiva»3, veniva presentato come «un esempio per chiunque desideri fallire nella vita e, eventualmente, riuscire nell’arte»4. L’esegeta, divenuto a sua volta narratore, non si è sottratto alla sfida. Houellebecq sostiene, con Antonin Artaud, che «dal punto di vista artistico la crudeltà verso gli altri genera solo risultati mediocri, mentre quella verso se stessi è molto più interessante»5; tanto che a lui potrebbe adattarsi, in maniera speculare, la suggestiva definizione che, in Lolita, Nabokov dà di Proust: «martire della combustione interna»6. Inizialmente ammirato dall’élite intellettuale francese, pluripremiato per la produzione poetica degli esordi7, salutato come il nuovo Camus all’uscita del primo romanzo, Estensione del dominio della lotta (1994)8, Houellebecq è divenuto poi, non soltanto in Francia, il più discusso caso letterario degli ultimi decenni. Risulterà dunque utile, prima di affrontare alcune questioni nodali della sua produzione, fare chiarezza sulle accuse più frequenti che gli sono state rivolte, divenute ormai veri e propri topoi della critica delle gazzette.
Houellebecq razzista? Di sicuro non si può definire Houellebecq uno scrittore “politicamente corretto”. Nel 2004 è stato processato (e assolto) dal Tribunale di Parigi per incitamento all’odio razziale. Era stato citato in giudizio da alcune organizzazioni musulmane che si dicevano offese dalle dichiarazioni rilasciate alla rivista letteraria «Lire» alla vigilia della pubblicazione del suo controverso terzo romanzo, Piattaforma (2001). Nell’intervista incriminata egli definiva la religione islamica, dipinta come “grottesca” in Piattaforma, come la «più stupida e pericolosa esistente al mondo». Le accuse di razzismo sono state poi amplificate estrapolando dai romanzi di Houellebecq alcune frasi che suonano offensive nei confronti di “categorie protette” come i neri e le donne, con un’operazione ermeneuticamente scorretta: sia perché col procedimento della decontestualizzazione si può far dire a qualsiasi testo qualunque cosa, sia per l’ingenuità con la quale sono state confuse e sovrapposte le opinioni dei personaggi con quelle dell’autore (sarebbe come dire che in Delitto e castigo Dostoevskij incoraggi l’assassinio di vecchiette benestanti). Perché possa sussistere un’accusa di razzismo, è necessaria una contrapposizione tra un polo negativo, disprezzato e/o odiato, e un polo positivo, elogiato come modello, che si reputa necessario preservare da ogni contaminazione. Houellebecq non propone alcun modello positivo, né dal punto di vista religioso (ogni verità rivelata viene trattata con eguale insofferenza), né da quello politico o culturale. Il suo ultimo romanzo, La possibilità di un’isola (2005), è stato concepito anche come una critica al buddhismo, attraverso la caratterizzazione dei neo-umani, privi di ogni desiderio ma non per questo più felici, anzi torturati dalla “nostalgia del desiderio”, soli e sofferenti per la mancanza di un qualsiasi contatto tra simili. Come è ovvio, nessuno ha accostato la critica di un’idea basilare del buddhismo, ossia la correlazione tra serenità e estinzione del desiderio, alle posizioni di un razzista. È razzista chi fomenta l’odio per un’etnia, non chi contesta un’idea o una visione del mondo. Se avessero letto bene anche il solo incriminato Piattaforma, gli islamici radicali avrebbero paradossalmente trovato in esso un fortissimo alleato a supporto delle loro tesi anti-occidentali, anche le più estremistiche. Così si legge, ad esempio, in una delle ultime pagine: «Rimarrò fino all’ultimo un figlio dell’Europa, dell’ansia e della vergogna; non ho alcun messaggio di speranza da comunicare. Per l’Occidente non nutro odio, tutt’al più un immenso disprezzo. So soltanto che, dal primo all’ultimo, noi occidentali puzziamo di egoismo, di masochismo e di morte. Abbiamo creato un sistema in cui è diventato semplicemente impossibile vivere; e, come se non bastasse, continuiamo a esportarlo»9. Si possono trovare opinabili queste e altre affermazioni dello stesso tenore («tu sei una persona normale, e da questo punto di vista non hai niente in comune con gli occidentali di oggi»10; o, ancora, «l’unica cosa che può offrirti il mondo occidentale sono i prodotti firmati»11) ma certo è scorretto accusare l’autore di razzismo. Le critiche lucide e feroci rivolte alla società contemporanea nel suo insieme possono offendere potenzialmente tutti, e dunque nessuno in particolare. Se qualche lettore si è accostato a Houellebecq sperando di rinvenirvi accenti simili a quelli della «rabbia» di Oriana Fallaci è stato deluso.
Houellebecq pornografo? Pare che anche una parte della critica letteraria sia periodicamente soggetta a quella che si potrebbe definire la “sindrome Pinard”. Nel 1857, a distanza di sei mesi, il pubblico ministero Pinard si scagliò contro due testi fondativi della letteratura moderna, incriminando «pour délit d’outrages à la morale publique» prima Flaubert per Madame Bovary, poi Baudelaire per Les Fleurs du Mal; come è noto, il primo venne assolto, il secondo condannato a pene pecuniarie e alla soppressione di sei poesie. Oggi alcuni dei più accaniti detrattori di Houellebecq lo combattono nel nome della «guerre du goût». In un intervento che ben fotografa il dibattito francese, Marc Fumaroli ha contrapposto «l’entusiasmo di Philippe Sollers per la bellezza, la grazia, la gioia, l’audacia e lo stile» al «piccolo Tintin sovraffaticato di Houellebecq», che «non può evocare che di passaggio il suo Mefisto, uno Schopenhauer disfattista e livellatore»12. Chi liquida i libri di Houellebecq utilizzando categorie come il “buon gusto” rifiuta di discutere in sede critica sia le idee dello scrittore, sia ciò che più propriamente dovrebbe essere in quella sede oggetto di esame: il suo valore artistico. In nome dell’estetica razionalistica del “buon gusto” alla metà del Settecento Saverio Bettinelli arrivava a stroncare persino un testo che oggi appare intoccabile come la Commedia dantesca13. Contro un’impostazione critica che confonde il valore estetico e gnoseologico di un’opera con le valutazioni di ordine moralistico insorsero, nella seconda metà dell’Ottocento, due scrittori apparentemente molto lontani tra loro. È nota la posizione di Oscar Wilde (anch’egli costretto a difendersi dalle accuse di immoralismo per il suo Ritratto di Dorian Gray), espressa nel fulmineo aforisma «non esistono libri morali o libri immorali. I libri sono o scritti bene o scritti male: nient’altro», ma è bene ricordare che alcuni decenni prima il napoletano Vittorio Imbriani aveva già espresso un’idea analoga, poi ripresa da Croce:
Se domani passeggiando pel molo sclamassi – La pirocorvetta Governolo è immorale, ma il piro vascello Re Galantuomo è invece di specchiata onestà; gli occhi di quella ragazza sono storicamente inesatti […] c’è poco liberalismo in quegli alberi, ma lo zampillo di Fontana Medina è anticlericale – ogni fedel minchione mi darebbe del minchione e m’imporrebbe di finirla con siffatte sconnessioni. Un albero può essere fronzuto o sfrondato, una nave veloce o lenta, ma non già retrograda o progressista, morale o immorale. Vero? ed un lavoro poetico può essere bello o brutto, indovinato o sbagliato, sentito o rettorico; ma le parole morale e immorale, religioso e irreligioso, liberale e clericale, non hanno l’ombra d’un senso in critica14.

Se queste considerazioni hanno una portata di carattere generale, il ‘caso’ Houellebecq risulta ancor più complesso perché lo scrittore francese è stato oggetto di attacchi apparentemente inconciliabili: è stato infatti marchiato nello stesso tempo, su fronti diversi, sia come pornografo sia come puritano moralista. L’ultima accusa deriva soprattutto dall’analisi non conformistica del processo di liberazione sessuale avviato nel Sessantotto, descritto ne Le particelle elementari (1998) come uno strumento del sistema capitalistico, che maschera «sotto la forma di un ideale collettivo» ciò che in realtà è «un nuovo stadio nell’ascesa storica dell’individualismo», con la conseguenza di distruggere «coppia e famiglia, l’ultima isola di comunismo primitivo in seno alla società liberale […], comunità intermedie, le ultime a separare l’individuo dal mercato»15. La tesi è esposta con chiarezza sin dal titolo del primo romanzo, Estensione del dominio della lotta, con riferimento alle teorie darwiniane: «Il liberalismo economico è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società. Altrettanto, il liberalismo sessuale è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società». La “legge del mercato” estesa su un piano inedito rispetto a un sistema che ha retto nei millenni («In un sistema economico dove il licenziamento sia proibito, tutti riescono più o meno a trovare un posto. In un sistema sessuale dove l’adulterio sia proibito, tutti riescono più o meno a trovare il proprio compagno di talamo») ha come conseguenza una mai così netta divisione tra «la schiera dei vincitori» e «quella dei vinti»: «In una situazione economica perfettamente liberale, c’è chi accumula fortune considerevoli; altri marciscono nella disoccupazione e nella miseria. In una situazione sessuale perfettamente liberale, c’è chi ha una vita erotica varia ed eccitante; altri sono ridotti alla masturbazione e alla solitudine»16. Convinto che il desiderio costituisca una «autentica nodosità esistenziale»17, il narratore di Estensione del dominio della lotta confessa di perseguire col suo racconto uno «scopo decisamente filosofico». In questa chiave, la rappresentazione esplicita del sesso viene a costituirsi non come pornografia gratuita o voyeuristica, ma come essenziale per la “visione del mondo” dell’autore, che si definisce un “militante schopenhaueriano”: una visione non allineata e scomoda sia per la destra che per la sinistra. Se Daniel Lindenberg ha bollato Houellebecq come neoreazionario18, c’è stato anche chi ha con più finezza suggerito che «si possa essere di sinistra» e nello stesso tempo «trovare qualcosa di vero nella critica del Sessantotto»: «Che i meccanismi di azzeramento della tradizione, che il vilipendio del divieto, che il movimentismo narcisista possano essere serviti a consolidare l’homo consumativus e festivus e un modo di concepire la partecipazione pubblica al di fuori delle regole della rappresentanza pare un lecito dubbio»19. I libri di Houellebecq sollevano questioni etiche e sollecitano un giudizio morale del lettore, morale nel senso che Yehoshua ha riattribuito al termine in riferimento alla letteratura, e che è ovviamente molto diverso da moralistico20. Se qualche lettore si è accostato a Houellebecq sperando di rinvenirvi pruriti paragonabili a quelli della nostrana Melissa P. è stato deluso.
Houellebecq astuto stratega del marketing editoriale? È vero che lo scrittore e i suoi editori hanno sfruttato le strategie di marketing in diverse occasioni: presentando il breve e scialbo racconto di una vacanza dell’autore (con annesso album fotografico) come un esaltante romanzo (Lanzarote, 2000), o esasperando le attese dei lettori tenendo rigorosamente segreto tutto ciò che riguardava la stesura de La possibilità di un’isola, fino al giorno della pubblicazione (31 agosto 2005), nel quale l’autore è stato presente al telegiornale di Tf1, il primo canale francese, nell’ora di massimo ascolto (le 20), come Chirac il 14 di luglio. Con tenacia (e con una buona dose di livore) Jean-François Patricola ha nel suo Michel Houellebecq ou la provocation permanente21 dato voce a una posizione da molti condivisa, vedendo nei libri di Houellebecq semplici prodotti commerciali concepiti per vendere sulla scia di scandali creati ad arte. La storia è vecchia: a uno scrittore contemporaneo si perdona tutto tranne il successo, specie se nell’ordine delle centinaia di migliaia di copie vendute. Ma queste stroncature sono ancora una volta non pertinenti, ed esulano dal reale oggetto dell’indagine critica. Ogni testo va giudicato per il suo valore intrinseco, anche nel caso estremo in cui sia stato concepito esclusivamente per vendere. Dostoevskij, assillato dai creditori e costretto a tener fede a un impegno preso con l’editore Stellovskij, per guadagnare tempo non scrisse ma dettò a una giovane stenografa Il giocatore in soli 28 giorni, nell’ottobre 1866. I romanzi di Dickens, in gran parte pubblicati in fascicoli mensili, conservano tra un capitolo e l’altro le tracce del meccanismo tutto commerciale della suspense, concepito per indurre assuefazione nei lettori invogliandoli ad acquistare la puntata successiva. Nel 1838 un critico del calibro di Sainte-Beuve scrisse un famoso articolo sulla Littérature industrielle prendendo di mira Balzac, da lui annoverato tra i fautori dell’ingresso delle pratiche industriali nella letteratura; e anche in seguito continuò a manifestare una violenta avversione per quelli che chiamava «i facchini del mercato»: Hugo, Balzac, Dumas. Sono passati quasi due secoli, e Dostoevskij, Dickens, Balzac, Hugo sono assurti allo status di classici, annoverati tra i massimi esponenti di quello che Harold Bloom ha definito il «il romanzo canonico nell’Età Democratica»22. La dicotomia istituita alla metà del Novecento da Edmund Wilson nel suo Classics and Commercials conosce dunque numerose eccezioni: ci sono opere che possono essere insieme l’una cosa e l’altra. Il successo di uno dei vertici assoluti della narrativa di ogni tempo, l’Anna Karenina di Tolstoj, fu enorme sin dalla pubblicazione delle prime parti, prima ancora che lo scrittore avesse portato a compimento il suo romanzo. Anche se è forse inevitabile che la critica soffra di presbiopia, riuscendo a mettere bene a fuoco solo ciò che è lontano, sarebbe auspicabile un giudizio centrato sempre e solo sul testo e non su considerazioni extratestuali (i dati di vendita, le strategie promozionali ecc.).
Tra l’altro, l’universo della letteratura “commerciale” o di consumo (alla quale Houellebecq non appartiene) andrebbe esplorato e studiato senza pregiudizi come luogo in cui, almeno nei casi più riusciti, il dispiego sapiente di meccanismi narrativi anche elementari riesce ad ammaliare il lettore tenendolo incatenato al libro. Nessuno ricorda i ponderosi romanzi storici a cui Sir Arthur Conan Doyle voleva fosse legato il suo nome, mentre sono pochi i personaggi romanzeschi capaci di conservare una vitalità e un’aura paragonabile a quella di Sherlock Holmes, al quale egli si dedicava solo perché pressato da bisogni economici e dalle richieste dei lettori. Per usare una metafora forse poco elegante, sarebbe utile tentare una “raccolta differenziata” della letteratura di consumo o di genere, cercando di individuare anche all’interno di essa delle gerarchie, di indicare i testi più riusciti, quelli che meglio adempiono alla funzione primaria di intrattenere. Una funzione anch’essa nobile, che ha le sue radici nel plot del romanzo greco, da Bachtin definito «d’avventure e di prove», zeppo di naufragi, prigionie, presunti tradimenti, false accuse di delitti, nemici imprevisti, e dal finale inevitabilmente lieto23. Autori di best-sellers come Michael Connelly, Arturo Pérez-Reverte, o, per citare un caso italiano, il gruppo che sotto il nome di Luther Blissett ha scritto Q, sono capaci di narrare storie avvincenti e ben costruite; altri, come il Dan Brown del Codice Da Vinci, meritano di essere stroncati non per la mancata aderenza alla realtà storica (un romanzo non è un trattato) ma perché, nonostante il successo, sono pessimi narratori. Dan Brown, ma è un esempio che vale per una intera categoria di scrittori di genere, lascia che l’azione e i dialoghi (spesso banali) soffochino del tutto la descrizione24, relegata a una serie di stereotipi scontati: «la frizzante aria d’aprile», «l’assordante sirena», «col sangue che gli ribolliva» e così via. La descrizione della Monna Lisa, un’opera importante non soltanto in sé ma per l’intreccio, è fastidiosamente piatta, sembra tratta da un bignami per le scuole medie inferiori: «Nonostante la sua enorme fama, la Monna Lisa era un semplice quadro di cinquantacinque per ottanta centimetri, più piccola dei poster che la raffiguravano e che erano in vendita nel negozio di souvenir del Louvre. Era appesa sulla parete nordovest della Salle des Etats, dietro una lastra protettiva di plexiglas spessa cinque centimetri. Dipinta su una tavola di legno, la sua atmosfera eterea e nebulosa veniva attribuita alla padronanza dello stile “sfumato”, nel quale le forme paiono evaporare l’una nell’altra»25. Dan Brown mostra poca considerazione per i suoi lettori, ai quali ritiene si debba spiegare tutto, e costruisce personaggi privi di spessore psicologico, che si muovono come automi secondo le esigenze dell’intreccio. Per converso, un autore che si cimenta col medesimo genere (il thriller) come Pérez-Reverte si mostra attentissimo ai dettagli ed è capace di far rivivere, in un dialogo, i gesti dei protagonisti. Un esempio per tutti. Ne Il club Dumas il bibliofilo mercenario Lucas Corso, incaricato di verificare l’autenticità di un capitolo manoscritto dei Tre moschettieri, mentre cerca di carpire informazioni a un esperto conoscitore di Dumas viene dal narratore seguito nei suoi gesti più caratteristici: si toglie gli occhiali, alita sulle lenti e le pulisce con uno «stropicciatissimo fazzoletto», poi suggerisce «“Torniamo a Dumas”, indicando con gli occhiali il manoscritto»26. La descrizione di questo gesto così realistico e riconoscibile, indicare con gli occhiali appena tolti qualcosa che costituisce l’oggetto della conversazione, è ininfluente ai fini dell’intreccio, ma contribuisce a creare un universo verosimile, a conseguire quello che Barthes ha con una espressione fortunata definito «effetto di reale»27 (e torna alla memoria un proverbio tedesco caro a Croce, Gott ist im Detail, Dio è nel dettaglio). Sondare la letteratura d’intrattenimento cercando di operare distinzioni qualitative pare dunque necessario per una critica militante seria che voglia costituirsi come bussola per i lettori (altra cosa, insomma, dal sensazionalismo di chi ha salutato al suo esordio Giorgio Faletti come il più grande scrittore italiano).
Il successo dei libri di Houellebecq non è un marchio d’infamia ma un dato confortante. In un contesto culturale che vede le classifiche di vendita intasate da non-libri legati al mondo dello spettacolo (le barzellette sul noto calciatore, le ricette della nota conduttrice, le interviste del noto giornalista, i testi delle performance del noto comico televisivo) o da libri-usa-e-getta (si pensi alla fortuna di mercato della cosiddetta chick lit, la letteratura per pollastrelle, lanciata dall’inglese Helen Fielding con Il diario di Bridget Jones), la presenza di libri veri, come quelli di Houellebecq, che fanno pensare e discutere, è rincuorante.
Attraverso la voce del narratore principale de La possibilità di un’isola, un comico di successo cinico e infelice che sceglierà di farsi clonare, Houellebecq scopre una delle proprie carte. Descrivendosi come «un pungente osservatore della realtà contemporanea», Daniel ricorda che i meccanismi che analizza sono già stati «ben descritti dai moralisti francesi tre secoli prima»28; più avanti sostiene di essere stato «spesso paragonato ai moralisti francesi, talvolta a Lichtenberg»29. E di sicuro Houellebecq è tra i più importanti esponenti contemporanei della letteratura moralistica (il termine va qui inteso nella sua derivazione etimologica da mos, costume), di quella letteratura cioè che, senza «argomentare la diagnosi», «osserva i costumi, e di solito va dietro alla verità effettuale della cosa»30.
Una spia del suo inscriversi in questa tradizione è la ricerca continua dell’aforisma memorabile, della sentenza che racchiude una verità universale: «Nella prima parte della vita, ci si rende conto della propria felicità solo dopo averla perduta. Poi viene un’età, una seconda età, in cui si sa già, nel momento in cui si comincia a vivere una felicità, che si finirà col perderla. […] Non avevo ancora raggiunto la terza età, quella dell’autentica vecchiaia, in cui l’anticipazione della perdita della felicità impedisce persino di viverla»31. A volte l’aforisma è costruito come un paradosso: «Nella vita può succedere tutto, e soprattutto niente»32; «La vita comincia a cinquant’anni, è vero; a parte che finisce a quaranta»33; oppure generalizza ciò che un’osservazione particolare pare indicare: «I gruppi umani composti di almeno tre individui hanno una tendenza apparentemente spontanea a dividersi in due sottogruppi ostili»34. Altro segnale inequivocabile è il ripetuto innesto, nel primo romanzo, di una tra le forme più caratteristiche della letteratura moralistica: l’apologo. Il narratore, un informatico annoiato, solitario e depresso, nel tempo libero si dedica alla scrittura di «novelle d’argomento animale». La prima, intitolata Dialoghi tra una mucca e una puledra, viene esplicitamente presentata come «una meditazione etica»35, e del protagonista di un’altra si dice che «certi indizi dovevano permettere di supporre che egli detenesse la verità, e che essa potesse riassumersi in poche e sobrie frasi»36. Houellebecq richiama così uno dei generi della letteratura classica dei moralia, e con una scelta rivelatrice affida le pagine più dense del romanzo, depositarie della visione del mondo del narratore, alla voce degli animali protagonisti delle sue novelle. Nei Dialoghi tra un bassotto tedesco e un barboncino, un cane legge al compagno un manoscritto rinvenuto nello scrittoio del suo giovane padrone, che teorizza la sessualità come «sistema di gerarchia sociale»37 al quale si è esteso “il dominio della lotta” tipico del capitalismo; nei Dialoghi tra uno scimpanzé e una cicogna, definiti «un pamphlet politico d’inaudita ferocia»38, lo scimpanzé pronuncia un discorso in cui dichiara di amare Robespierre, e interpreta il «comportamento aberrante di alcuni spermatozoi», che al momento del concepimento «si mettono a nuotare controcorrente per qualche secondo», come «una rimessa in questione ontologica». L’inserzione di una forma diversa e dalla connotazione così specifica, all’interno di un genere – il romanzo – che può includerle tutte, pare avere un valore unicamente demarcativo: è la forma stessa infatti a suggerire il senso, isolandosi dal contesto narrativo e richiedendo al lettore avveduto un’attenzione differente, segnalandogli che si tratta di una riflessione etica; è come se quelle pagine fossero, per così dire, scritte in corsivo. Gli animali sono solo un pretesto per raggiungere questo scopo: il barboncino si limita infatti a leggere, senza nessun commento, a un bassotto che si addormenta «prima della fine della sua tirata», pagine che toccano “nodosità esistenziali” tipiche degli umani; allo scimpanzé che parla di questioni ontologiche (creando nel lettore un effetto di straniamento) la cicogna che lo tiene prigioniero risponde soltanto, «con voce lenta e terribile: “Tprr mrrrà”».
Un’immagine rende efficacemente la volontà che Houellebecq ha di scavare oltre le apparenze, di andare “dietro alla verità effettuale”: «Su una carta geografica 1:200.000, in particolare su una carta Michelin, tutto sembra bello; le cose si guastano su una carta in scala più grande, come quella che avevo di Lanzarote: vi si distinguono gli alberghi e le infrastrutture destinate al divertimento. In scala 1:1, ci si ritrova nel mondo normale, il che non ha nulla di divertente; ma, se si ingrandisce ancora, si precipita nell’incubo: si cominciano a vedere gli acari, le micosi, i parassiti che rodono le carni»39. Questa immagine richiama alla memoria il celebre “giardino” di un altro grande moralista come Leopardi, nel quale, al di là dell’esteriore rigoglio, la vegetazione risulta tutta in «istato di souffrance»40, infestata da formicai, bruchi, mosche, zanzare, colpita dal caldo o dal freddo, calpestata. Leopardi scorge nella natura «un ordine ove il male è essenziale»41; analogamente Houellebecq, che scrive dopo Darwin, la descrive come luogo di una selezione che tende a realizzare il peggio: «Di tutti i sistemi economici e sociali, il capitalismo è senza dubbio il più naturale. Il che basta già di per sé a indicarlo anche come il peggiore»42. E la concezione leopardiana di un’infelicità che colpisce tutto ciò che esiste, in primo luogo il genere umano che «fu e sarà sempre infelice di necessità», è la medesima che anima le pagine di Houellebecq, declinata dal piano ontologico a quello biologico: «a ogni osservatore imparziale appare chiaro che l’individuo umano non può essere felice, che non è in alcun modo concepito per la felicità»43; «la radice di ogni male è biologica e indipendente da qualsiasi trasformazione sociale immaginabile»44. Quasi a dimostrare allegoricamente che la radice del male è biologica e non storica, in chiusura de La possibilità di un’isola viene demolito il mito del buon selvaggio: le ultime comunità umane sopravvissute e isolate, delle quali il neo-umano Daniel 25 va nostalgicamente in cerca, si rivelano nella realtà composte da «creature nefaste, sciagurate e crudeli»45, che combattono furiosamente tra loro e si inebriano alla vista del sangue.
Come Leopardi, anche lo schopenhaueriano Houellebecq analizza la concatenazione tra l’inaccessibilità dell’uomo alla felicità e il suo inesausto desiderio di attingerla, di provare un piacere perfetto. Leopardi notava acutamente che l’uomo «perfezionandosi» tende a «proccurarsi nuovi piaceri, forse più vivi che i naturali, non però altrettanto 1.comuni, 2.durevoli, 3. facili ad acquistarsi, anzi i più, difficilissimi, perché, se non altro, esigono una studiatissima educazione, e una lunga formazione dell’animo, e per ciò stesso non possono esser comuni a tutti, anzi ristretti a certe classi solamente, ed alcuni a certi individui»46. La medesima lente viene da Houellebecq applicata alla realtà contemporanea: le storie che egli narra, le sue riflessioni, se non apportano tematicamente nulla di nuovo all’universo del pessimismo sono illuminanti perché calate nel mondo che ci appartiene. «Aumentare i desideri fino all’insopportabile, rendendo la loro realizzazione sempre più inaccessibile, è il principio unico su cui poggia la società occidentale»47. La correlazione tra desideri indotti parossisticamente e infelicità è un tema centrale in Houellebecq: «La società erotico-pubblicitaria in cui viviamo si accanisce a organizzare il desiderio, a svilupparlo fino a dimensioni inaudite, al tempo stesso controllandone la soddisfazione nel campo della sfera privata. Affinché la suddetta società funzioni, affinché la competizione continui, occorre che il desiderio cresca, si allarghi e divori la vita degli uomini»48. Una società che si poggia su queste basi non può conservare nessun tabù, tranne uno: quello della vecchiaia. «Nel mondo moderno si poteva essere scambisti, bisex, trans, zoofili, SM, ma era vietato essere vecchi»49. La morte, nell’indifferenza generalizzata, di migliaia di anziani francesi durante la caldissima estate del 2003 prova che «la Francia sta diventando un paese moderno»: «solo un paese autenticamente moderno è capace di trattare i vecchi come meri rifiuti, un simile disprezzo per gli anziani sarebbe inconcepibile in Africa o in un paese tradizionale dell’Asia»50. Il «carattere insostenibile delle sofferenze morali» di chi si ritrova «pieno di desideri da giovane in un corpo da vecchio»51 è esasperato da un contesto sociale che ha fissato nella giovinezza il suo valore supremo. Una delle protagoniste de La possibilità di un’isola è impegnata nella realizzazione di una nuova rivista femminile, della quale così espone il progetto: «Conosci il giornale in cui lavoro: ciò che cerchiamo di creare è un’umanità artificiosa, frivola, che non sarà mai più toccata dalle cose serie né dall’umorismo, che vivrà fino alla morte in una ricerca sempre più disperata del fun e del sesso; una generazione di eterni kids». In questa chiave il tanto discusso Piattaforma, un romanzo che descrive il sempre più florido e cinico mercato del turismo sessuale, frequentato soprattutto da anziani, e non soltanto uomini (sempre più numerose le “tardone d’assalto”) ha il valore di un exemplum che conferma la tesi. All’autore è stata rimproverata la mancanza di una presa di posizione etica, il compiacimento col quale racconta una realtà degradata senza distanziarsene; ma il suo narratore (che non per caso porta il medesimo nome dell’autore, Michel) dichiara esplicitamente di porsi nei confronti della realtà come chi osserva e non come chi giudica: «Il dispiegamento del mondo, mi dissi, io lo constato; procedendo empiricamente, in perfetta buona fede, io lo constato; non posso fare altro che constatarlo»52.
Parlare di “procedimento empirico” significa far riferimento a un ambito che è non solo letterario o filosofico ma che vuol porsi come contiguo alla scienza. Nella prefazione alla seconda edizione del saggio su Lovecraft, Houellebecq, che ha alle spalle una formazione di chimico e di ingegnere agronomo, scrive di aver come scrittore «messo a profitto […] il suo [di Lovecraft] aver fatto esplodere l’impostazione del romanzo tradizionale tramite l’utilizzo sistematico di termini e concetti scientifici»53. Quest’affermazione è vera soprattutto per le Le particelle elementari. Le vite dei due fratelli protagonisti del romanzo, il geniale e algido biologo molecolare Michel e il frustrato e sessuomane insegnante di lettere Bruno, sono anatomizzate col bisturi di quel che è stato definito un neodeterminismo, che fa riferimento insieme alle posizioni del positivista Auguste Comte e alle teorizzazioni dei fisici della meccanica quantistica Werner Heisenberg e Niels Bohr54. Un esempio particolarmente significativo di questa sovrapposizione tra ambiti differenti tocca un tema esplorato con passione dai filosofi e dagli studiosi della letteratura: quello dello statuto teorico e del contenuto di verità dell’autobiografia. Se un esponente di spicco dello storicismo tedesco come Wilhelm Dilthey ha posto il genere autobiografico al centro del sistema delle Geisteswissenschaften55, oggi si tende a evidenziare l’inaffidabilità epistemologica della rappresentazione soggettiva56. Riproducendosi nell’autobiografia il rapporto tra retorica e storia57, ha poco senso parlare di “verità” o di “autenticità”: l’atto stesso del raccontare, rivestendolo linguisticamente e retoricamente, deforma l’evento. In aggiunta, ogni autobiografo rivive il passato dal presente, e come lo storico tende a stabilire a posteriori un nesso causale e teleologico tra gli eventi, attribuendo loro un significato che originariamente non hanno. Houellebecq affronta il tema da un’angolazione inedita, proponendo un’analogia con un concetto centrale della fisica quantistica, esposto nel dettaglio:
Tu hai dei ricordi di diversi momenti della tua vita, riassunse Michel, e questi ricordi si presentano sotto aspetti diversi; tu rivedi pensieri, atteggiamenti, facce. Talvolta ti torna in mente un semplice nome, come per quella Patricia Hohweiller di cui parlavi poco fa, e che oggi non saresti in grado di riconoscere. Altre volte invece rivedi un volto, senza neppure potergli associare un ricordo. […] Le storie consistenti di Griffiths sono state adottate nel 1984 per collegare le misure quantistiche in schemi narrativi verosimili. Una storia di Griffiths viene costruita a partire da una serie di misure rilevate più o meno a casaccio in momenti diversi. Ciascuna misura esprime il fatto che una determinata quantità fisica, eventualmente diversa da una misura all’altra, sia compresa, in un dato momento, in un certo arco di valori. Per esempio, nel tempo t1, un elettrone ha una certa velocità, determinata con un’approssimazione che dipende dal tempo di misura; nel tempo t2, il suddetto elettrone è situato in un certo arco spaziale; nel tempo t3, ha un certo valore di rotazione. A partire da un sottoinsieme di misure possiamo definire una storia, logicamente consistente ma di cui tuttavia non possiamo dire che sia vera; può semplicemente essere sostenuta senza contraddizione. Tra le storie possibili del mondo in un dato quadro sperimentale, alcune possono venire riscritte sotto la forma canonizzata da Griffiths; tali storie vengono allora definite storie consistenti di Griffiths, e si svolgono come se il mondo fosse composto di oggetti separati, dotati di proprietà intrinseche e stabili. Tuttavia, il numero di storie consistenti di Griffiths che possono essere riscritte a partire da una serie di misure è, in genere, sensibilmente superiore a uno. Tu hai una coscienza del tuo io; questa coscienza ti permette di fare un’ipotesi: la storia che sei in grado di ricostruire a partire dai tuoi ricordi è una storia consistente, giustificabile nel principio di una narrazione univoca. In quanto individuo isolato, perseverante nell’esistenza per un certo lasso di tempo, sottoposto a un’ontologia di oggetti e di proprietà, su questo punto non hai alcun dubbio: si deve necessariamente poterti associare una storia consistente di Griffiths. Questa ipotesi a priori vale per il campo della vita reale, non per quello del sogno58.

Il rapporto tra “storia e verità”, che è al centro del dibattito filosofico e critico contemporaneo59, è dunque in questa pagina associato, con un cambio di prospettiva che allarga l’orizzonte, a un concetto scientifico. In un’intervista rilasciata subito dopo la pubblicazione de La possibilità di un’isola, Houellebecq ha sostenuto: «Ci ho messo molto tempo ad ammetterlo, ma la filosofia dipende dalla letteratura, e non è la letteratura che dice la verità, ma solo la scienza»60. Il fascino di un romanzo come Le particelle elementari deriva in buona parte dal tentativo dell’autore di realizzare il sogno, già dei Romantici, del superamento dell’antinomia tra arte e scienza (il compito che Schlegel assegnava alla «poesia universale progressiva» è arrivare al punto in cui «ogni arte deve diventare scienza e ogni scienza deve diventare arte»), giungendo a una ideale «metamorfosi reciproca» che, come ha mostrato Starobinski, non è stata mai realizzata61. Un’esigenza che è stata di recente evidenziata da un critico acuto come George Steiner, il quale ha sostenuto che «l’umanesimo di domani sarà scientifico» e che anche i romanzi contemporanei «più alti, più raffinati, sembrano preistoria» se confrontati con gli oggetti di discussione della scienza contemporanea: «la creazione artificiale della vita, i buchi neri (che sono i limiti dell’universo) secondo la teoria di Hawking e Penrose» e «l’ego cartesiano, la coscienza […] una neurochimica che presto conosceremo»62.
Le particelle elementari e La possibilità di un’isola affrontano letterariamente due dei temi cruciali individuati da Steiner, la creazione artificiale della vita e «un nouveau déterminisme d’ordre microchimique»63, presentandosi, a un tempo, come science fiction e conte philosophique. Houellebecq ha intuito, con grande lucidità, che il futuro dell’umanità sarà determinato non tanto dagli sviluppi dell’informatica, come ha ipotizzato negli ultimi decenni la fantascienza (si ricordi il computer di 2001 Odissea nello spazio), ma dalla biologia: di qui il fascino che esercita per lui un romanzo visionario come Il mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley, nel quale viene descritto uno Stato totalitario ipertecnologico che si regge su condizionamenti psicologici e fisici determinati a monte dall’ingegneria genetica. Houellebecq si dice convinto che tutto ciò che la scienza consente sarà realizzato, anche se comporterà quella che nelle Particelle elementari è definita una «terza mutazione metafisica», una «trasformazione radicale e globale della visione del mondo adottata dalla maggioranza», paragonabile all’avvento del cristianesimo prima e della scienza moderna poi64. Il suo continuo moto ondivago tra letteratura (il protagonista de La possibilità di un’isola sostiene che l’intera sua vita ha costituito un «commento più o meno esplicito» ai «versi sublimi» del Baudelaire de La mort des pauvres), filosofia e scienza ha un punto di riferimento comune nell’interesse esclusivo per la «condizione umana»65 e per la direzione che l’uomo intende dare al proprio futuro. Anche in questo selezionare della scienza solo ciò che ha o avrà un reale impatto sull’uomo Houellebecq si mostra profondamente schopenhaueriano. Così scrive il narratore di Estensione del dominio della lotta: «È strano, ma adesso mi sembra che il sole sia ridiventato rosso, come durante il viaggio di andata. Ma non me ne frega granché: anche se di soli rossi ce ne fossero tre o quattro la mia meditazione non muterebbe di un millimetro il proprio corso». In questo passo è palese l’allusione, ancorché criptica, a un noto passo dei Parerga e Paralipomena, denunciata dalla scelta del medesimo termine di paragone: «Le verità fisiche possono avere grande importanza esteriore; ma esse mancano di importanza interiore […]. Se per esempio noi acquistassimo la certezza che, come ora soltanto si congettura, il sole produce termoelettricità all’equatore, questa il magnetismo della terra, il quale produce a sua volta la luce polare, noi avremmo acquistato verità di grande importanza esteriore, ma di povera importanza interiore»66. Il fare di quelle verità che hanno «importanza interiore» l’oggetto della narrazione ha conseguenze anche nella messa in forma del racconto. Non è un caso che in tutti i romanzi di Houellebecq il narratore e il personaggio il cui “punto di vista” orienta la prospettiva narrativa coincidano67. Su cinque romanzi sinora editi dal francese, quattro hanno la forma dell’autobiografia fittizia, uno – Le particelle elementari – quella della biografia fittizia; sono pertanto, tendenzialmente, non polifonici ma monologici. Tutto ciò che accade viene filtrato dalla prospettiva univoca di chi dice “io” o – nelle Particelle – di chi si fa storico di un’esistenza.
Sintomatica è la difficoltà persino fisica che il narratore di Piattaforma avverte quando è costretto a passare dalla riflessione e dall’osservazione al dialogo: «“A Parigi c’è molta più gente…” riuscii finalmente a dire, stremato» (p. 23); «Era un’ottima domanda; ebbi una vaga sensazione di soffocamento. “Non deve rispondere subito” disse allora lei» (p. 83). Anche la conversazione più banale, quella che ruota intorno a luoghi comuni come la bellezza di un paesaggio tropicale, risulta gravosa: «“Bisogna dire, in effetti, la natura, sì…” farfugliai. Valérie si voltò a guardarmi, incuriosita; aveva i capelli raccolti a crocchia, ma qualche ciocca le svolazzava intorno al viso, nel vento. “La natura, in effetti, certe volte…” proseguii, scoraggiato» (p. 103).
L’impianto narrativo dei due romanzi che paiono più riusciti (Le particelle elementari e La possibilità di un’isola) è raffinato, con continui slittamenti tra piani temporali, che sottopongono il lettore a un’oscillazione costante tra identificazione e straniamento: il nostro presente, impietosamente analizzato, è infatti storia morta per la nuova specie che dal futuro lo ricostruisce (il narratore eterodiegetico delle Particelle) o lo apprende e lo commenta (i cloni neo-umani dell’Isola obbligati a chiosare l’autobiografia del loro padre genetico). Questa distanza insieme temporale e di specie determina un’illusione di oggettività: i narratori guardano all’uomo come a un animale ormai estinto, lo vivisezionano con la crudezza e la distanza di un entomologo, ricostruiscono con precisione documentaria le ragioni della sua decadenza e della sua scomparsa. Nell’ontogenesi delle singole vite oggetto di narrazione si riassume filogeneticamente la storia dell’umanità intera, una storia fatta non di anime ma, materialisticamente, di corpi: «Siamo dei corpi, siamo innanzitutto, principalmente e quasi unicamente dei corpi, e lo stato dei nostri corpi costituisce l’autentica spiegazione della maggior parte delle nostre concezioni intellettuali e morali»68.
Un materialismo aspro, dunque, chiave di lettura di una realtà descritta anche nei suoi aspetti più sgradevoli. La letteratura come la pratica Houellebecq non è consolatoria ma vuol porsi come depositaria di un sapere alternativo ai saperi costituiti69, con uno sforzo in direzione del vero anticipato in uno scritto teorico, Rester vivant (1991), dato alle stampe prima di cimentarsi con la poesia e la narrativa: «La verità è scandalosa. Ma senza, non c’è nulla che abbia valore».


NOTE


1 H.P. Lovecraft, Contro il mondo, contro la vita [1991], trad. it. Milano, Bompiani, 2005.^
2 Ivi, p. 20.^
3 Ivi, p. 153.^
4 Ivi, p. 110.^
5 Ivi, p. 138.^
6 V. Nabokov, Lolita, Milano, Adelphi, 1996, p. 317.^
7 In ed. italiana è stato pubblicato il volume di poesie intitolato Il senso della lotta [1996], trad. di A.M. Lorusso, Milano, Bompiani, 2000.^
8 Queste le edizioni italiane dei romanzi di Houellebecq alle quali in nota si farà riferimento in forma abbreviata: Estensione = Estensione del dominio della lotta, trad. it. di S.C. Perroni, Milano, Bompiani, 2005; Particelle = Le particelle elementari, trad. it. di S.C. Perroni, Milano, R.L. Libri, 2005; Piattaforma = Piattaforma. Nel centro del mondo, trad. it. di S.C. Perroni, Milano, Bompiani, 2005; Isola = La possibilità di un’isola, trad. it. di F. Ascari, Milano, Bompiani, 2005.^
9 Piattaforma, p. 294.^
10 Ivi, p. 202.^
11 Ivi, p. 267.^
12 La guerra dei romanzi, in «la Repubblica», 11 gennaio 2006.^
13 S. Bettinelli, Dieci lettere di Publio Virgilio Marone scritte dagli Elisi all’Arcadia di Roma sopra gli abusi introdotti nella poesia italiana [1757], in Illuministi italiani, II, Opere di Francesco Algarotti e di Saverio Bettinelli, a cura di E. Bonora, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, pp. 629-83.^
14 Il passo, comparso sulla «Patria», 5 (1865), n. 149-150, è citato e commentato da E. Giammattei, Croce e la funzione Imbriani. Su alcuni modi di citazione, in Ead., La Biblioteca e il Dragone. Croce, Gentile e la letteratura, Napoli, Editoriale Scientifica, 2001, p. 164. Vale la pena di ricordare, sul tema, anche una pagina crociana che conserva la sua validità: «L’arte […] si sottrae altresì a ogni discriminazione morale, non perché le sia accordato un privilegio di esenzione, ma semplicemente perché la discriminazione morale non trova il modo di applicarlesi. Un’immagine artistica ritrarrà un atto moralmente lodevole o riprovevole; ma l’immagine stessa, in quanto immagine, non è né lodevole né riprovevole moralmente. Non solo non v’ha codice penale che possa condannare alla prigione o alla morte un’immagine, ma nessun giudizio morale, dato da persona ragionevole, può farla suo oggetto: altrettanto varrebbe giudicare immorale la Francesca di Dante o morale la Cordelia di Shakespeare (che hanno mero ufficio artistico e sono come note musicali dell’anima di Dante e di Shakespeare), quanto giudicare morale il quadrato o immorale il triangolo». B. Croce, Breviario di estetica – Aesthetica in nuce, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990, pp. 27-28.^
15 Particelle, p. 116.^
16 Estensione, p. 98.^
17 Ivi, p. 83^
18 D. Lindenberg, Le rappel à l’ordre. Enquête sur le nouveaux réactionnaires, «La République des Idées», Paris, Seuil, 2002.^
19 V. Lavenia, Reazionari di sinistra e nipoti di Maurras. Un «pamphlet» di Daniel Lindenberg, in «Il Ponte», 59 (2003), n.9, pp. 65-73: 70.^
20 A.B. Yehoshua, Il potere terribile di una piccola colpa. Etica e letteratura, Torino, Einaudi, 2000.^
21 Paris, Ecriture, 2005.^
22 La definizione proviene dal fortunato (anche se a distanza di oltre un decennio appare per molti versi discutibile) lavoro di H. Bloom, Il Canone Occidentale. I libri e la scuola delle ere, Milano, Rizzoli, 1996, pp. 285-86.^
23 M. Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, pp. 233-58.^
24 Sull’importanza della descrizione, cfr. P. Hamon, Introduction à l’analyse du descriptif, Paris, Hachette, 1981.^
25 D. Brown, Il codice da Vinci, Milano, Mondadori, 2005, p. 138.^
26 A. Pérez Reverte, Il club Dumas, Milano, Net, 2002, p. 15.^
27 R. Barthes, L’effetto di reale, in Id., Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Torino, Einaudi, 1988, pp. 151-59.^
28 Isola, p. 21.^
29 Ivi, p. 318.^
30 L. Cellerino, Prosa d’invenzione morale, in Letteratura italiana, dir. A. Asor Rosa, vol. III, Le forme del testo, to. II, La prosa, Torino, Einaudi, 1984, pp. 1011-39: 1014.^
31 Isola, p. 143.^
32 Piattaforma, p. 172.^
33 Isola, p. 23.^
34 Piattaforma, p. 61.^
35 Estensione, p. 11.^
36 Ivi, p. 94.^
37 Ivi, p. 90.^
38 Ivi, p. 122.^
39 Isola, pp. 217-18.^
40 G. Leopardi, Zibaldone, ed. integr. diretta da L. Felici, Roma, Newton & Compton, 1997, pp. 854-55.^
41 Ivi, p. 956.^
42 Estensione, p. 123.^
43 Isola, p. 57.^
44 Ivi, p. 130.^
45 Ivi, p. 379.^
46 Leopardi, Zibaldone, cit., p. 856.^
47 Isola, p. 72.^
48 Particelle, pp. 161-62.^
49 Isola, p. 177.^
50 Ivi, p. 78.^
51 Ivi, p. 77.^
52 Piattaforma, p. 235.^
53 H.P. Lovecraft, cit., p. 8.^
54 Cfr. V. Aurora, La mesure de l’homme: Le positivisme d’Auguste Comte et la mécanique quantique dans Les Particules Élémentaires de Michel Houellebecq, in «Versants», n. 43 (2003), pp. 163-85.^
55 W. Dilthey, Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, in Id., Gesammelte Schriften, VII, Leipzig-Berlin, Teubner, 1927 (vd. anche la parziale traduzione italiana intitolata Critica della ragione storica, intr. e trad. di Pietro Rossi, Torino, Einaudi, 1954). Cfr. M.A. Pranteda, Individualità e autobiografia in Dilthey, Milano, Guerini e Associati, 1991.^
56 Cfr. il panorama delineato da C. Locatelli, Osservazioni sullo statuto dell’autobiografia nel pensiero della modernità, in Aa.Vv., Autobiografia e filosofia, L’esperienza di Giordano Bruno, «Atti del Convegno di Trento, 18-20 maggio 2000», a cura di N. Pirillo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 341-51.^
57 Cfr. H. White, Retorica e storia, 2 voll., Napoli, Guida, 1978.^
58 Particelle, pp. 66-68.^
59 Con riferimento alla fortunata teoria tropologica esposta nella Metahistory da Hayden White (trad. it., Retorica e storia, cit.), il quale ha esteso alla storia la dimensione strutturale propria delle opere narrative di finzione, Ricoeur ha parlato di «infrazione del divieto aristotelico», determinata dalla sovrapposizione tra il piano della poesia e quello della storia (P. Ricoeur, Tempo e racconto I, trad. it., Milano, Jaca Book, 1986, p. 243). Per un’ampia ricognizione del dibattito contemporaneo sulla natura della conoscenza storica, in particolare centrata sull’analisi delle posizioni ‘narrativiste’ sviluppate in America, cfr. F. De Giorgi, Teoria, narrativa e storia, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa – classe di Lettere e Filosofia», s. III, IV, 1984, pp. 1465-514. Per una panoramica sulle posizioni teoriche del New Historicism americano, che considera simmetrica la «storicità dei testi» e la «testualità della storia», cfr. Aa.Vv., The New Historicism, a cura di H. Aram Veeser, London, Routledge, 1989.^
60 Houellebecq: vi insegno la disperazione, in «La Stampa», 12 sett. 2005. ^
61 J. Starobinski, Linguaggio poetico e linguaggio scientifico, in Id., Le ragioni del testo, a cura di C. Colangelo, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 69-93.^
62 G. Steiner, La barbarie dell’ignoranza. Conversazioni con Antoine Spire, Roma, Edizioni Nottetempo, 2005.^
63 Aurora, La mesure de l’homme, cit., p. 180.^
64 Particelle, p. 8.^
65 Houellebecq usa spesso il sintagma “condizione umana” nei suoi romanzi, ed è significativa tanto l’aperta ammissione del suo debito nei confronti del Balzac della Comédie Humaine (cfr. Isola, p. 318), quanto la scelta di aprire Piattaforma con un’epigrafe balzacchiana: «Più la sua vita è infame, più l’uomo ce l’ha a cuore; essa diventa allora una protesta, ogni suo istante una vendetta».^
66 A. Schopenhauer, Morale e religione da “Parerga e Paralipomena” e Frammenti postumi, a cura di G. Riconda, Milano, Mursia, 1981, p. 33.^
67 L’espressione punto di vista, che si deve a osservazioni dell’Henry James critico (cfr. H. James, Le prefazioni, a cura di A. Lombardo, Venezia, Neri Pozza, 1956), è stata al centro di numerosi studi sulla tecnica narrativa: cfr. D. Meneghelli (a cura di), Teorie del punto di vista, Scandicci, La Nuova Italia, 1998, e Ead., Una forma che include tutto: Henry James e la teoria del romanzo,
Bologna, Il Mulino, 1997.^
68 Isola, p. 180.^
69 Cfr. C. Colangelo, Il critico e le maschere. Jean Starobinski e l’etica del saggio, postfazione a Starobinski, Le ragioni del testo, cit., p. 144.^
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