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BENIAMINO ANDREATTA
di Massimo Lo Cicero
Beniamino Andreatta ci ha lasciato nel mese di marzo.
Era uscito dalla scena della vita pubblica molti anni prima. Nel 1999, il 15 dicembre, quando accusò un infarto in Parlamento e lo colpì una ischemia celebrale. Da allora ad oggi sono passati molti anni e la sua condizione è stata, oggettivamente, ma anche nella testimonianza dei suoi familiari, una prova materiale di quale sia la tragedia di un vivente che non è più in grado di comunicare ed interagire consapevolmente con gli altri esseri umani1. Ma questa personalissima dimensione della vita di Andreatta è solo una dimensione privata e particolare del valore che la sua presenza nella vita pubblica del paese ha avuto, grazie al modo in cui egli ha speso larga parte della propria esistenza.
Beniamino Andreatta nasce a Trento l’11 agosto 1928.
Si laurea a Padova in Giurisprudenza nel 1950, come quasi tutti gli economisti della sua generazione. La scelta di portare gli studi di Economia Politica al centro dell’attività didattica e di ricerca delle facoltà di economia si compie solo negli anni Settanta. Prima di quella data la tradizione italiana voleva che gli studi sull’economia, ed in particolare quelli sulla politica economica, la scienza delle finanze o la macroeconomia, si realizzassero proprio nelle facoltà di Giurisprudenza. Andreatta sceglie di essere un professore: la prima fase della sua vita lavorativa si realizza sul terreno della ricerca scientifica e dell’insegnamento. Compiti che egli assolve nella Università Cattolica di Milano e nelle Università di Urbino, Trento e Bologna. Lo introducono nella dimensione dell’economia pubblica, e del governo dei processi di crescita, Siro Lombardini e Pasquale Saraceno.
Lo affascina, sin dal primo momento, la necessità di misurare e verificare, sulla base di quelle misure, la dimensione dei fenomeni che si vogliono realizzare. Nella sua produzione scientifica la logica della matematica e le grandezze quantitative sono un vincolo da rispettare. Questa curiosità, una tra le altre e non certo assorbente rispetto alle altre, lo porterà alla fondazione di Prometeia, una delle prime organizzazioni private per la creazione e la gestione di modelli econometrici di previsione macroeconomica.
Partecipa alla fondazione dell’Università della Calabria e ne diventa il Rettore.
Nel 1961 diventa Consigliere economico presso la “Planning Commission” del governo Nehru. Negli anni Settanta la sua strada interseca definitivamente la politica nazionale. Diventa Consigliere economico del Presidente del Consiglio Aldo Moro. Nel 1974 crea l’associazione per le previsioni economiche Prometeia, e nel 1976 l’AREL, una Agenzia di Ricerche e Legislazione, nella quale si farà le ossa Enrico Letta, oggi sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nella quale sperimenterà la contaminazione tra gruppi politici e personale proveniente dal mondo dell’impresa e da quello delle professioni: clamoroso, tra tutti, il coinvolgimento di Umberto Agnelli. Ministri sono stati molti dei suoi allievi. Una vasta compagine in cui rientra anche Romano Prodi2. Andreatta viene eletto in Parlamento dal 1976 al 1992 e dal 1994 al 2001, come senatore e come deputato. Diventa anche europarlamentare, e vice presidente del Partito Popolare Europeo, dal 1984 al 1987. Entra nel Governo, per la prima volta nel 1979, come Ministro del bilancio e della programmazione economica del primo Governo Cossiga. Nel secondo Governo Cossiga è Ministro senza portafoglio con incarichi speciali. Un anno dopo, con Forlani presidente del consiglio, guida il Ministero del tesoro, dove rimane anche nei due successivi Governi Spadolini. Il primo dei quali attraversa una robusta crisi per lo scontro feroce tra Andreatta e Formica, Ministro delle Finanza, etichettato da Andreatta come un “commercialista di Bari”. Sono anche gli anni nei quali nomina Guido Rossi presidente della Consob e gestisce, con Giovanni Batoli, la grave crisi del Banco Ambrosiano, conseguenza del dissesto della gestione di Roberto Calvi e la sua drammatica e misteriosa morte, sotto il ponte dei frati neri a Londra. Inventa, letteralmente, in quella occasione, il modello che verrà riproposto in altre e successive crisi bancarie: la nascita di una banca parallela che affianca quella andata in crisi e prende le distanze dalle origini e dalle conseguenze della crisi, nell’interesse dei risparmiatori e della stabilità del sistema.
Nasce, in quella circostanza, il Nuovo Banco Ambrosiano che, per aggregazioni successive (la Cariplo, la Comit, il San Paolo) è diventato la prima banca italiana. Rimane in liquidazione la vecchia banca. Successivamente il modello verrà applicato, a parti ribaltate, per la crisi del Banco di Napoli. Nacque allora, per volere di Ciampi, una nuova bad bank, per ospitare fino al loro successivo recupero, i crediti incagliati, liberando la banca partenopea da quel peso e facendole iniziare il percorso che, nemesi della storia, la conduce oggi nel gruppo Intesa, dopo essere transitata attraverso la BNL ed il San Paolo di Torino. Beniamino Andreatta non si è occupato solo del riordino delle banche e dei mercati finanziari ma anche del così detto “divorzio” tra banca centrale e Tesoro dello Stato, ponendo le premesse perché i mercati, e non la tolleranza del banchiere centrale, rappresentino un argine all’incremento sistematico della spesa pubblica, dimostrando, in questa materia, un eccesso di fiducia nella razionalità economica del sistema politico italiano. L’esplosione dei tassi di interesse sul debito pubblico, negli anni Ottanta, non riuscì ad arginare troppo la slavina della finanza pubblica che, agli inizi dei Novanta, sarà necessario arginare con la stagione deflattiva inaugurata dalla svalutazione e dalla maximanovra finanziaria gestita da Giuliano Amato. Dal febbraio 1993, con Amato Presidente del Consiglio, Andreatta entra di nuovo nel Governo come Ministro del bilancio e della programmazione economica ma, nell’aprile 1993, con Ciampi, diventa Ministro degli affari esteri fino all’aprile 1994, quando viene designato alla presidenza del gruppo del PPI al Senato. Nel 1996, e fino al 1998, è Ministro della difesa nel Governo Prodi. Un altro dei suoi allievi, come abbiamo già detto, sia in economia che in politica, ma certamente più vicino del maestro all’economia reale, al management ed alla fenomenologia dell’organizzazione industriale. Certamente meno amico dei mercati, Romano Prodi presenta una inclinazione più accentuata verso il “capitalismo renano”: Andreatta tutelava il Welfare State ma seppe, proprio nella crisi del Banco Ambrosiano, garantire un sostanziale passo in avanti dal vecchio al nuovo sistema bancario italiano. Da una concezione della banca come sistema di relazioni ad una percezione della stessa come azienda. Anche se, nel medesimo tempo, aprì la strada ad un processo, sociale e politico, molto più complesso di una semplice opzione per la liberalizzazione dei mercati o la privatizzazione del sistema bancario. Egli aprì, proponendo l’avvocato Bazoli alla guida di quel processo di risanamento, un percorso nuovo alla cultura manageriale dei cattolici nel sistema finanziario italiano. Un luogo economico dal quale quella cultura era rimasta abbastanza esclusa nei decenni precedenti, un percorso che, passo dopo passo, ha condotto la cultura cattolica, austera ed a tratti giansenista, della Lombardia, alla leadership di una larga e significativa quota del sistema creditizio italiano. Romano Prodi, al contrario, per larga parte della sua storia professionale, sceglie di essere un professore di Economia industriale, di frequentare e realizzare studi applicati alle dinamiche dell’impresa e dei territori in cui essa si insedia, e, successivamente, di provarsi alla conduzione dell’IRI: una delle grandi centrali italiane dell’economia di Stato. A differenza del suo professore, Andreatta, che, al contrario, è stato e rimane uno dei grandi macroeconomisti keynesiani italiani.
Beniamino Andreatta ha dimostrato davvero, nei fatti oltre che nei suoi libri, di conoscere cosa significhi governare la moneta e la finanza, la politica fiscale ed il debito degli Stati. Ma non è neanche questa dimensione pubblica, di educatore e di uomo di Governo, che può riassumere il valore della sua vita.
L’Italia di oggi, le dinamiche che percorrono la cronaca politica, sono esse stesse figlie della passione civile di Andreatta, del suo impegno come cattolico democratico. Erede della grande tradizione morotea e, per certi versi, anche della lezione di Dossetti, Andreatta è certamente uno dei traghettatori che hanno portato, progressivamente, una parte importante del cattolicesimo politico italiano ad incontrarsi ed a collaborare con il partito comunista italiano e con la sinistra non comunista. Chiunque lo abbia conosciuto sapeva che faceva una certa fatica a collaborare con l’altra anima, meno estesa ma combattiva, della sinistra italiana: quella socialista. Ed abbiamo già ricordato la sua frizione con Rino Formica. Sta di fatto che l’assetto politico del centrosinistra italiano, che rappresenta oggi la maggioranza a sostegno del Governo in carica, è certamente l’effetto anche del suo impegno e delle sue battaglie. Molte cose sono cambiate da quando questa lunga marcia, dalle convergenze parallele di Aldo Moro fino al compromesso storico di Enrico Berlinguer, è cominciata. Ma senza l’iniziativa politica, di cui Andreatta fu certamente uno dei motori più significativi, non ci sarebbero mai stati l’Ulivo, il Partito Popolare e la Margherita, la trasformazione del Partito Comunista in Pds, prima, e, poi, nei Democratici di Sinistra.
Essendo stato amico e consigliere economico di Aldo Moro, tuttavia, Andreatta avrebbe comunque diffidato della “fusione fredda” che sta per partorire il nuovo partito democratico, ricomponendo larga parte dei DS e della Margherita in un’unica organizzazione politica. Andreatta, nel suo tempo che era ovviamente diverso dal nostro, sembrava più attento al coinvolgimento politico dei comunisti e dei socialisti nella piena responsabilità di un’azione di Governo che fosse capace di mitigare i difetti che impedivano alle virtù italiane di portare fino in fondo la capacità espansiva del nostro paese.
Nell’azione politica di Andreatta, insomma, non si trattava di dare corpo a nuove organizzazioni, inclusive sia della cultura cattolica che di altre dimensioni culturali del ceto politico nazionale, ma di “catturare” la forza e la rappresentanza sociale della sinistra italiana in un patto esplicito di innovamento, che realizzasse le condizioni per fare entrare definitivamente l’economia, e la società italiana, in un contesto economico aperto al mercato ed alla crescita, nella stabilità dei prezzi interni e dei cambi. Nel 1988 «Il Mulino» pubblica un piccolo volume, curato da Giuseppe Guarino, che raccoglie gli atti di un seminario promosso dai gruppi parlamentari, nazionali ed europei, della Democrazia Cristiana e dal Bureau del Gruppo del PPE al Parlamento Europeo. Una delle relazioni riguarda l’impianto possibile di una costituzione monetaria per l’Europa. L’autore è Beniamino Andreatta e l’impianto del suo ragionamento, riletto quando molti degli eventi paventati allora sono diventati fatti, consente chiaramente di vedere quale fosse l’interpretazione che Andreatta dava della relazione positiva tra economia e politica, tra controlli esogeni e capacità endogena di governo nel nostro paese3.
Dalle prime pagine Andreatta evoca la prospettiva di un «aggiustamento [che] sarà doloroso» e la funzione vitale di quella che Schumpeter definiva la concorrenza, la «distruzione creatrice». Andreatta, prima di entrare nel merito del tema affidatogli – la nuova architettura monetaria e finanziaria europea da realizzare – espone gli effetti del processo di unificazione del mercato ed individua chiaramente un problema italiano.
[…] quello dei settori oggi sottoposti a restrizioni sul lato della domanda, in particolare per l’esistenza di commesse pubbliche che riservano gli appalti all’industria nazionale. Produzione di energia, trasporti, mezzi per la difesa, attrezzature per ufficio, servizi finanziari, trasporti su strada di merci e di persone, opere pubbliche: qui gli sconvolgimenti possono essere notevoli […] l’aggiustamento sarà tanto più doloroso se non verrà preparato fin da oggi da una progressiva apertura degli appalti. È il caso recente della nostra azienda di pubblica utilità nel campo telefonico che,
avendo per la prima volta effettuato acquisti per appalto, ha spuntato riduzioni del 25% e del 30% nelle prime due gare di appalto rispetto al prezzo base.

Lucida, come in altre occasioni, la diagnosi sulle deformazioni che sarebbero nate da una privatizzazione delle imprese di Stato, che non fosse stata accompagnata anche da una effettiva liberalizzazione dei mercati e da una marcata diffusione della cultura di mercato tra gli stessi operatori privati. Ma, aggiunge Andreatta, «l’unificazione finanziaria rischia però di entrare in conflitto con l’unificazione monetaria europea». La prima, spiega citando Marco Fanno, maestro suo e di Guido Carli a Padova, crea le condizioni per importanti e rapidi movimenti di capitale che, se realizzati, pregiudicano la seconda, cioè la stabilità dei cambi, che è la base dell’auspicabile futura moneta comune. Deriva da questa diagnosi il dilemma che, secondo Andreatta, dovrà affrontare il sistema monetario europeo, allargare il bordo di oscillazione tra le monete, ridurlo a zero e determinare una rigida parità tra tutte le valute europee. La soluzione, cioè la nascita della moneta unica e di una banca centrale, è la conseguenza della seconda opzione. Ma, allora, cambi fissi e riorganizzazione istituzionale del regime monetario sono le due facce del medesimo problema e la nuova banca centrale europea dovrà avere sei caratteristiche: priorità alla stabilità dei prezzi interni; essere una magistratura tecnica indipendente dai Governi e dai Parlamenti; avere una struttura federale della propria governance; creare un comitato, parallelo al board, per le operazioni di mercato aperto sulla base monetaria europea; ottenere il divorzio, negli stati nazionali, tra tesoro e banche centrali. Da questo ragionamento emergono tre caratteristiche politiche che fanno intendere bene la prospettiva strategica di Andreatta: la centralità della filosofia tedesca rispetto alla identità monetaria che assumerà l’Europa, la convergenza con l’approccio di Guido Carli, e con chi crede che il rispetto delle regole monetarie possa solo essere imposto dall’esterno alla riottosa società italiana; la necessità di mettere sotto il controllo di una magistratura tecnica non solo la moneta ma anche la finanza pubblica. È quello che è accaduto, dal 1988 ad oggi, come è facile provare, ma è anche facile verificare che questo non era tanto un progetto condivisibile da tutte le culture politiche europee quanto il risultato di una percezione pessimista sull’efficacia delle democrazie parlamentari in tema di spesa pubblica e moneta e sulla esigenza di regolare esogenamente questa incapacità.
È un pensiero politico forte e lungimirante ma esso evoca la moderazione capace di governare il cambiamento di Helmut Kohl, come avvenne appunto negli anni successivi. Questa capacità di assicurare la nascita di nuove istituzioni, perché il cambiamento si compia secondo un ordine razionale delle sue conseguenze, caratterizzava il pensiero di Andreatta e lo spingeva a creare accordi politici tra agenti diversi, per rompere la cristallizzazione oggettiva delle forze che avrebbero potuto impedire quei cambiamenti.
Ne segue, se questa diagnosi è condivisa, che egli non avrebbe lavorato oggi per creare una forza dalla incerta identità culturale, che si traduce comunque in una frammentazione dell’analisi ed in una caduta di efficacia negli effetti dell’azione politica, ma avrebbe preferito che, ancora una volta, culture diverse avessero potuto trovare una convergenza comune in un progetto dalla razionalità terza, oggettiva ma limitata ad una questione puntuale, che fosse, appunto condivisibile. Per accordi successivi di tal genere, secondo Andreatta, ed in uno stile certamente Moroteo, si può e si deve governare il cambiamento.
Non certo evocando alchimie organizzative che partono dall’identità di nuovi attori politici e non dalla concretezza dei traguardi, limitati, che gli attori esistenti possono concludere in una logica di coalizioni temporanee. Siamo in presenza di atteggiamenti e principi assai diversi dall’entusiasmo, con cui alcuni propongono oggi agli italiani la creazione di un partito democratico. Ed è evidente che, ove questa creazione avvenisse, si potrebbe e dovrebbe anche interagire con questo nuovo soggetto politico almeno nella consapevolezza che esso non sarebbe, per l’esserci, capace di realizzare un disegno razionale di trasformazione e cambiamento che ancora nemmeno è stato enunciato.
Andreatta ci ha lasciato alla vigilia di un voto delicato sulla politica estera, sulla quale egli non avrebbe mai dubitato del valore strategico dell’alleanza atlantica. Ma anche alla vigilia della nascita di un partito democratico che aspira ad essere l’erede dei popolari ed, insieme, della tradizione comunista, transitata attraverso i democratici di sinistra e l’esperienza dell’Ulivo. In effetti siamo anche in presenza di una stagione in cui potremo raccogliere, finalmente, i benefici della moneta unica europea, della stabilità finanziaria e, forse, anche della ripresa della crescita in una misura adeguata alle potenzialità latenti dell’Europa. L’Italia, se mai riuscirà in queste imprese, dovrà molto a Beniamino Andreatta e, proprio per questo motivo, la migliore maniera per onorare la sua memoria sarebbe proprio quella di conseguire finalmente questi traguardi, riflettendo sulla necessità di adeguare la dimensione organizzativa dell’azione collettiva alla coerenza ed alla fattibilità dei traguardi piuttosto che, e non solo, alla nobiltà delle intenzioni. Dato che le buone intenzioni lastricano spesso la strada per luoghi che, invece, non avremmo mai voluto raggiungere.




NOTE




1 Sulle pagine di «la Repubblica» Michele Smargiassi raccontava, nel 2003, la cronaca di un incontro con Giana, la moglie di Beniamino Andreatta: «La signora Giana è una donna riservata e forte, e non solo perché, come psicanalista, conosce i segreti movimenti dell’animo umano. “Nessuno può dire che a loro non serva. Non possiamo saperlo. Di sicuro serve a chi li accompagna”. A lei, ai suoi quattro figli, è servito e serve. È scorso già il terzo anno da quel 15 dicembre 1999, quando suo marito, Beniamino Andreatta, per l’Italia un ex ministro e un grande economista, per lei il professore che la incantò tanti anni fa quand’era studentessa alla Cattolica, perse i sensi durante una seduta della Camera, ed entrò nella vita sospesa del coma, per non uscirne più. Finora. Da allora, Giana non ha mai smesso di vivere con lui […] “Io non mi sento vedova, non sono vedova. Ringrazio di poter ancora vedere mio marito, di potergli parlare, di poterlo toccare”». ^
2 Un altro degli allievi di Andreatta, circostanza che non è altrettanto nota di quella relativa al suo rapporto con Romano Prodi, è Guido Bertolaso. A Bertolaso, in un ricordo del maestro, si deve una singolare testimonianza sulla natura reale degli effetti generati dalla sua attività intellettuale: «Andreatta non ha scritto grandi libri, non ha mai sistematizzato il suo pensiero affidando alle pagine sogni, progetti e ipotesi: ciò che si legge di lui è sempre un’antologia di scritti brevi, funzionali al fare politica di ogni momento, utili a risolvere il problema scientifico o politico di quel giorno, dove si respirano grandi valori, soprattutto una grande, inesausta, stima dell’uomo e di ciò che gli è possibile fare con le risorse di intelligenza, di conoscenza, di volontà, di coraggio e di tenacia che può coltivare. Si legge soprattutto il senso delle cose fattibili, il gusto della ricerca di un percorso verso il meglio, la voglia di fare e di mettere in pratica. I suoi passaggi nei diversi Ministeri di vari Governi non sono mai stati inefficaci: le burocrazie spesso hanno festeggiato le crisi e i cambiamenti che lo allontanavano da un incarico speso fino all’ultimo giorno a riformare, modificare, razionalizzare quello che trovava, imponendo alle macchine ministeriali ritmi ed intensità di lavoro considerati improbabili, decisioni spesso rinviate da decenni, opzioni e scelte scomode per i tanti che della cosa pubblica considerano essenziali soprattutto i vantaggi personali acquisibili. Con questo metodo di lavoro ha fondato facoltà e costruito Università, ha dato vita ad Istituti di ricerca come Nomisma, per fare in Italia una parte di lavoro di scienza economica assente e sottovalutata e produrre dati ed informazioni necessari a poter decidere, ha organizzato l’Arel, centro studi che ha visto passare per le sue stanze persone importanti per il paese, ma soprattutto le intelligenze più fini, sensibili e preparate, senza impedimenti all’ingresso per chi aveva militanze e riferimenti politici e partitici diversi dai suoi». Singolare, in questo testo. l’inversione tra Nomisma, fondata da Prodi, e Prometeia, creata, come si è già detto da Andreatta. Il testo completo della testimonianza di Bertolaso si trova in http://www.protezionecivile.it/cms/view .php?cms_pk=3636&dir_pk=187 ^
3 Si tratta del volume, G. Guarino (a cura di), Europa 1992: le libertà e le regole, Bologna, Arel, il Mulino, 1988.^
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