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RETORICHE DELL'IMMIGRAZIONE
di Valerio Petrarca
Quando si dice che «l’economia vuole gli immigrati e la società no» si coglie una contraddizione carica di significato. Segnala, tra le altre cose, anche una sorta di oscurità nei modi di documentare, conoscere e comunicare i problemi culturali posti dal contatto tra migranti provenienti da paesi poveri e popolazioni stanziali dei paesi ricchi.
L’immigrazione investe la totalità dei riferimenti in cui può essere scomposta una società (territorio, economia, lingua, cultura, religione, politica) e tuttavia è spesso analizzata, quando lo è, attraverso categorie settoriali che pretendono però di interpretare il fenomeno nella sua totalità o nelle componenti ritenute sbrigativamente determinanti.
Questo tipo di conoscenza, anche quando è di carattere scientifico, alimenta anziché contrastare una sorta di mitologia dell’immigrato: interpretazioni, che orientano talvolta anche il comportamento, basate su «verità» preliminari e classificatrici, non soggette a verifiche e a problematizzazioni. Ne sono esempi significativi le due opposte retoriche sugli immigrati, in cui si possono sistemare molti dei discorsi che si sentono o si leggono dai mezzi di informazione di massa. Da una parte la retorica dell’esclusione, che paventa, attraverso un lessico apocalittico, la fine delle tradizioni culturali e religiose (se non «razziali») dell’Occidente, per l’invasione o l’intrusione di soggetti creduti estranei alla sua storia. Dall’altra parte, la retorica dell’inclusione o dell’addizione, che prefigura l’illimitata possibilità di convivenza linguistica, culturale e religiosa; retorica che, anche nel lessico, identifica la complessità con la molteplicità (aggiunge ai termini delle vecchie nozioni il prefisso «multi» o «pluri»). L’una e l’altra retorica sono portatrici di valori che, a seconda dei convincimenti, possono essere considerati positivi o negativi, ma l’una e l’altra sono, in misura diversa, avare di attenzione verso le specificità degli immigrati di cui parlano. Cosa sappiamo degli immigrati che vogliamo o non vogliamo a casa nostra? Siamo sicuri che tutte le loro esperienze possono essere assimilate a quelle vissute dai nostri emigrati in terra straniera uno o due secoli fa? Di quali mondi sono portatori gli immigrati che vivono nelle nostre città? Possiamo averne un’idea a partire da ciò che sappiamo di qualcuno di loro? E ciò che sappiamo di pochi immigrati vale per tutti i loro «simili», per paese di provenienza, per lingua, cultura o religione? È ovvio che la conoscenza non può prescindere dall’individuazione di tipologie e di classificazioni, ma come si possono ottenere se si salta il passaggio di una documentazione analitica?
Anche le posizioni apparentemente più tecniche e oggettive si ispirano a valori, impliciti o espliciti. I valori che dovrebbero ispirare le scelte di metodo nell’accertamento delle realtà culturali degli immigrati che si trovano in Occidente andrebbero ricercati non tanto nella pretesa di un’oggettività impossibile da verificare, non nei contesti poco e mal conosciuti dell’esotico, quanto proprio in quel percorso culturale, non indolore e mai interamente concluso, che ha dato vita all’idea di «Occidente», pur nel coesistere di differenze linguistiche, culturali e religiose. Questa idea si evidenzia, nel diritto, come nel senso comune, nella concezione dell’autonomia della «persona», nella sua centralità e inviolabilità. Si tratta in un certo senso di valori che fanno appello a forme di garanzia dell’individuo e dei gruppi «vuote di contenuto», come per esempio la libertà di espressione (che prescinde, nei limiti del possibile, da ciò che è espresso) o il diritto alla salute (chiunque sia
l’ammalato). Questi valori, che costituiscono o dovrebbero costituire la base elementare e condivisa del vivere civile dell’Occidente, come si trovano riflessi nelle energie dedicate alla conoscenza del fenomeno dell’immigrazione?
Si può rispondere, in modo necessariamente schematico, che sono raramente rappresentati. Disponiamo di accertamenti quantitativi preziosi (grande merito va al Dossier statistico, dedicato all’Immigrazione, di Caritas/ Migrantes, giunto nel 2006, al XVI Rapporto). Restano però poche le ricerche che ci informano della vita e dei mondi interni delle persone di cui parliamo. Cominciamo solo ora, con grande ritardo, ad avere qualche notizia non superficiale sui vari e molteplici mondi culturali di cui gli immigrati sono portatori, sulle loro storie di vita. E tuttavia queste ricerche sono indispensabili per documentare il fatto evidente, ma spesso trascurato, che l’immigrazione è fatta di immigrati, provenienti da numerosissimi paesi, di cui qui è impossibile fare l’elenco, anche perché (si pensi per esempio ai paesi dell’Africa a sud del Sahara) ognuno di essi può racchiudere nei suoi confini centinaia di popolazioni aventi tra loro lingue, religioni e culture tradizionali diverse. I fenomeni culturali dell’immigrazione potrebbero trovare organica sistemazione soprattutto negli studi antropologici. Si tratterebbe in fondo di farsi carico di un’etnografia rovesciata (il migrante che vede con occhi stranieri l’Occidente) e di un’etnografia interna (l’etnografo occidentale che trova gli «altri» sotto casa sua).
Accogliere come dati utili per lo studioso anche le «interpretazioni» dei testimoni non è frutto di demagogia o di incertezza dei confini che separano l’osservato dall’osservatore. È frutto invece della nuova realtà linguistica, culturale e religiosa di cui gli immigrati sono portatori. Anche nell’esempio più semplice, ma rarissimo, di un immigrato, poniamo, proveniente da una piccolo villaggio extraeuropeo dove si parla una sola lingua trasmessa oralmente, si pratica una sola religione e si vive immersi in una cultura tradizionale «chiusa» all’esterno, per il semplice fatto di trovarsi in una città europea, sospeso tra
due mondi culturali e almeno due varietà linguistiche (ma spesso sono molte di più), l’immigrato sviluppa, efficacemente o meno, proprio per sopravvivere mentalmente, un piano di comparazione tra l’universo di provenienza e quello di arrivo; una comparazione che innesca interpretazioni di secondo grado (rispetto a quelle, diciamo così, di primo grado a cui era abituato). Si vuole dire che tutti gli uomini interpretano i fatti, anche se non ne sono consapevoli, ma quando si trovano esposti alla comparazione, il piano interpretativo tende a farsi esplicito, perché necessario per scegliere (o anche semplicemente desiderare) tra diverse opzioni culturali.
L’esempio appena richiamato è appunto raro e semplice, ma nella maggior parte dei casi, gli immigrati hanno storie linguistiche, culturali e religiose assai più complicate: possono provenire da situazioni dinamiche già in atto nel paese di provenienza, essere cresciuti tra villaggio natale e città, tra culture e lingue tradizionali e culture e lingue di origine occidentale, tra religioni tradizionali e religioni missionarie, possono essere già stati esposti a tutti o quasi tutti i fenomeni considerati caratterizzanti il futuro delle società occidentali. Dal punto di vista culturale (ovviamente non dal punto di vista economico e sociale), gli immigrati rappresentano più il nostro futuro che il nostro passato.
Avviare studi organizzati di documentazione, comparazione e interpretazione dei mondi mentali e culturali connessi con l’immigrazione, apre campi di conoscenza utili per loro e per noi. Perché l’essere sospesi contemporaneamente tra concezioni del mondo e della vita tra loro diverse genera condizioni più problematiche di quanto le opposte retoriche dell’esclusione e dell’inclusione lasciano intendere. I sistemi culturali non funzionano come il denaro (due non sono meglio di uno), ma come delicati dispositivi di messa in ordine simbolica del mondo. E più questi dispositivi sono numerosi e contigui, più è difficile organizzare il pensiero e il mondo nella vita individuale e nella vita comune. La crisi dei dispositivi simbolici non è un problema esclusivo degli immigrati (in loro può assumere, ma non necessariamente, forme drammatiche perché associato anche alle incertezze materiali più elementari). È un problema di molti, un problema che attraversa le stesse società occidentali, indipendentemente dalla presenza fisica degli «stranieri». Al pari dei beni materiali, si rendono contemporaneamente disponibili per la nostra mente e per le nostre società anche molti e diversi sistemi simbolici di organizzazione del mondo e della vita. Questi si fronteggiano, nella difficoltà di sintesi, spesso nella mente di una stessa persona, separano membri di una stessa famiglia, ci mettono gli uni di fronte agli altri uniti soltanto dall’accidente del tempo e dello spazio, moltiplicano i rischi di reciproco fraintendimento.
Forse è proprio questa realtà o questa prospettiva del futuro che si è soliti esorcizzare semplificando e dividendo il mondo in due (noi occidentali e tutti gli altri) o accontentandosi dei suffissi «pluri» e «multi».
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