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La sinistra italiana e la seconda eredità di Tony Blair
di Maurizio Ambrogi
Nel 2007 Tony Blair potrebbe lasciare la guida del governo. Una staffetta più volte ipotizzata, anche se non confermata ufficialmente dopo la conquista del terzo mandato, nel 2005. Per molti dirigenti del centrosinistra, in Italia, sarebbe la fine di un incubo. Perché Blair non è mai stato troppo amato da una parte della sinistra post-comunista italiana, che gli preferisce modelli perdenti, come quelli di Jospin e Lafontaine; e che magari è pronta a rivalutare Clinton in funzione anti-Bush, ma non digerisce la Terza Via in salsa britannica. E avendo assimilato a fatica il fallimento del comunismo e il tramonto del socialismo, ancora non ha il coraggio di ammettere che la socialdemocrazia ha esaurito la sua spinta propulsiva nello scorso millennio.
L’avversione è diffusa con accenti diversi: da quelli di Rifondazione, che boccia Blair come versione di destra del clintonismo1, a quelli più morbidi di dirigenti diessini. È un fastidio che trova poi sponda nel cattolicesimo progressista. Il quale guarda all’esperienza laburista con significativo distacco, pur ammettendo che il bilancio di nove anni di governo non può dirsi negativo.
Sull’ultimo numero del «il Mulino», ad esempio, si ripropone l’analisi tipica del fenomeno del blairismo che va di moda in Italia: si mette in luce che in nove anni di governo sono aumentati gli investimenti pubblici, in particolare nei trasporti, nella scuola e nella sanità, che è stato introdotto il salario minimo, che due milioni di persone sono uscite dal ghetto della povertà. Ma si conclude con fretta che
all’origine del crollo dell’appeal del New Labour pare esserci soprattutto lo sfilacciarsi del progetto politico complessivo messo a punto alla metà degli anni Novanta che aveva fatto nascere sogni e speranze in milioni di cittadini e garantito una solida maggioranza ai Comuni sui conservatori allo sbando2.

Come se il successo del New Labour fosse riconducibile e riducibile ad una serie di risultati positivi nella formazione e distribuzione del reddito e non al progetto, profondamente innovativo appunto, che lo sottende.
Riduttiva, del resto, era sulla stessa rivista anche l’analisi dedicata al «fallimento del semestre europeo» a guida britannica, dovuta in buona sostanza «all’incapacità di Blair di tradurre in pratica i principi nei quali afferma con forza di credere». Se l’occasione europea è stata sprecata ciò è dovuto al fatto che «la spinta propulsiva del blairismo appare ormai esaurita e l’enfasi retorica o la cura nel preparare i grandi eventi di sicuro impatto mediatico sembrano aver preso il posto del paziente lavoro diplomatico e dell’impegno quotidiano per raggiungere gli obiettivi ritenuti prioritari»3.
Ma quali erano gli obiettivi del semestre britannico? Non cose da poco, in un clima di sbandamento dell’Unione che doveva fare i conti con la bocciatura della costituzione europea da parte di Francia e Olanda. Blair si proponeva in primo luogo di modernizzare il modello sociale ed economico che blocca l’Europa con tassi di produttività inferiori a quelli Usa e con la zavorra di venti milioni di disoccupati. E dunque di modificare i meccanismi del welfare europeo e di spostare le risorse del bilancio europeo, in particolare quelle concentrate sull’agricoltura, verso i settori che garantiscono innovazione: ricerca, istruzione, informatica. Il modello inglese applicato al continente. Una vera e propria rivoluzione copernicana.
Il problema del blairismo e dell’esperienza del New Labour sta proprio qui: nel riconoscere che esso pone l’Europa di fronte a problemi cruciali, ne mette in discussione il modello e lo sviluppo proponendo una ricetta che non solo è innovativa, ma è anche indubbiamente di successo. E allo stesso modo mette da tempo sotto esame la sinistra europea, indicando un terreno di evoluzione del progressismo che è un poco semplicistico liquidare con la formula del “pragmatismo”. Indubbiamente Blair ha messo in soffitta l’armamentario ideologico della sinistra laburista inglese. Ma non per sostituire le idealità con il pragmatismo. Semmai per sostituire massimalismo con responsabilità. C’è una forte carica ideale nel rinnovamento proposto alla società inglese, così come c’è una forte carica ideale nella sua politica estera.
Tutte le leadership hanno una parabola, e la propria Blair l’ha messa in gioco più volte, soprattutto con le scelte di politica estera. Ma stiamo parlando dell’unica esperienza, recente e compiuta, di innovare il messaggio e la pratica politica della sinistra europea. Il suo appannamento ha molte ragioni, oltre al fallimento della guerra irakena: alcune certo caratteriali, altre politiche, altre che attengono alla fisiologica necessità di ricambio. Ma cancellare il carattere di profonda innovazione che tale esperienza lascia in eredità alla sinistra significa non avere visione delle cose.
La fine della premiership di Blair non cancella l’esperienza del New Labour e l’azione di governo su almeno quattro punti: la disciplina di bilancio come chiave della crescita, la riforma del welfare con attenzione particolare alla lotta alla disoccupazione, la riforma del sistema educativo in chiave meritocratica, l’accento sulla sicurezza individuale. Tutti terreni dove i successi sono evidenti e i numeri sfatano i luoghi comuni. A cominciare da quello sulla spesa pubblica, che dopo il rigore iniziale è aumentata a partire dal 2000 di oltre il 4% l’anno in termini reali, con una crescita superiore alla media in tre settori: sanità, trasporti, istruzione.
Nel 2005 Blair si è presentato alle elezioni con un Pil in crescita di un punto sopra la media europea, con una disoccupazione al 4,7% contro il 10,2 della Francia. Un tasso di occupazione del 75% rispetto alla media europea del 64%. È stato in gran parte merito di una riforma del mercato del lavoro che puntava su tre elementi: il salario minimo, la flessibilità e la formazione. Il cosiddetto “welfare to work” adottato anche dall’Europa, come indirizzo, nell’agenda di Lisbona. Obiettivo: rimettere la gente al lavoro, soprattutto i giovani e far crescere l’economia, creando così un circolo virtuoso: più facile licenziare, più facile ritrovare un posto di lavoro. Trasformando lo stato sociale da meccanismo di protezione e occasione per creare nuove opportunità. Secondo Anthony Giddens e Patrick Diamond,
il nuovo egualitarismo prevede diritti, come quello a lsussidio di disoccupazione, e corrispondenti responsabilità, iscriversi ad esempio a programmi di formazione o partecipare alle iniziative volte a incrementare i livelli di occupazione. Si concentra anzitutto sull’ampliamento delle opportunità piuttosto che sulla tradizionale redistribuzione del reddito4.

Non è solo una questione di investimenti: la svolta sta nel cambiamento di accento da una difesa statica degli assetti e dei meccanismi di protezione ad una politica diretta all’incoraggiamento dello spirito imprenditoriale in un ambiente economico reso più favorevole dalla privatizzazione di alcuni servizi pubblici, dall’allentamento delle regolamentazioni, dalla liberalizzazione del mercato del lavoro. Nella convinzione che in un mercato che funziona sia più facile raggiungere l’obiettivo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale. «L’efficienza dell’economia è la garanzia della giustizia sociale» ricorda sempre Tony Blair. La parola “blairismo” a sinistra suona come un insulto, scriveva «Le Monde» commentando la conquista del terzo mandato conquistato da parte del premier britannico, «ma la realtà è ben diversa: fra il modello anglosassone e quello francese la differenza è semplice: il primo è riuscito, il secondo ha fallito»5.
Un discorso a parte merita la politica estera. Blair paga il fallimento della guerra irakena, la sua convinzione di dover giocare un ruolo al fianco degli Stati Uniti, di riuscire a condizionare l’interventismo dei neoconservatori, proponendo una sfida sul loro stesso terreno. «Da progressista mi trovo perfettamente a mio agio con l’idea che la nostra sicurezza dipenda dalla diffusione dei valori di democrazia e libertà – commentava due anni fa in una intervista al direttore del “New Yorker”, David Remnick –. Certo questo non significa andare a modificare ogni regime che non corrisponda a questi principi. Significa che, lì dove abbiamo deciso di intervenire, in Iraq come in Afghanistan o in Palestina e Libano, abbiamo fiducia che saranno le popolazioni di quei paese a decidere il loro futuro». È una scelta basata su una visione e su una convinzione, non su uno schieramento pregiudiziale. Una scelta frutto di un’agenda di politica estera discutibile ma chiara, che metteva al primo posto la gestione della minaccia del terrorismo e della proliferazione
nucleare, che aveva il suo punto critico certamente in Iraq, ma non solo. La convinzione di Blair era ed è che in questa opera di stabilizzazione il ruolo degli Stati Uniti non sia sostituibile e il compito degli alleati debba essere non quello di ostacolare ma di condizionare Washington. Come appunto mirò a fare alle Nazioni Unite nel 2003; quando, secondo la ricostruzione di uno storico autorevole come Timothy Garton-Ash rimase sconfitto dal nazionalismo europeo di Chirac, alleato consapevole dell’unilateralismo americano dei Cheney e dei Rumsfeld.
Le cose, almeno in Iraq, sono andate in maniera diversa: ad un errore di valutazione iniziale sulla reale pericolosità di Saddam si sono aggiunti errori di strategia e di conduzione della guerra e vistose defaillance nella fase di ricostruzione. Errori gravi dovuti soprattutto al prevalere delle opzioni ideologiche e strategiche dei neo-conservatori. Ma anche in questo caso le posizioni di Blair interrogano la sinistra europea sul nodo della lotta al terrorismo, dell’uso della forza e della diffusione della democrazia. Questioni che non si possono liquidare attribuendo agli Stati Uniti una volontà di dominio mondiale e pensando che l’alternativa sia abbandonare ogni impegno militare, e difendere i propri interessi economici con una sorta di “multilateralismo mite”, che sopravviva barcamenandosi fra dittatori e discutibili regimi.
La vicenda dell’Afghanistan dimostra quanto la sinistra italiana – anche quella che si proclama riformista – sia lontana dalla capacità di giocare un reale ruolo politico sullo scenario internazionale. Perché se è vero che la coalizione si trova a dover subire gli strappi e l’estremismo pacifista della sinistra cosiddetta radicale, è anche vero che la debolezza ha radici antiche e riguarda tutti. Per anni il centrosinistra non ha saputo maturare una concezione moderna del “pacifismo”, ha accettato che esso diventasse una questione di principio – pacifismo come rinuncia, rifiuto, testimonianza – e non una questione politica: cioè pacifismo come costruzione delle alleanze e delle istituzioni necessarie a preservare la pace, come intervento e come difesa, anche in armi, della democrazia. Del resto la pace europea nasce da una guerra che tutti hanno combattuto: e la sinistra in prima linea.
Il centrosinistra italiano, nel suo semplicistico anti-berlusconismo, ha coltivato il pacifismo “di principio”, ha marciato con la sinistra radicale, ha accettato la contaminazione con l’anti-americanismo, ha lasciato che si confondesse la critica all’amministrazione Bush con la denuncia di una presunta vocazione imperialista degli Stati Uniti. Ha coltivato insomma quel lato infantile del proprio carattere che oggi, da posizioni di governo, diventa scomodo e più difficile arginare.
I nodi arrivano sempre al pettine. Nelle scelte di politica internazionale come in quelle di politica economica, la sinistra italiana – e soprattutto il Partito Democratico, se mai si farà – si troverà a fare i conti con il “blairismo”: dovrà farlo sia se vorrà contare davvero sulla scena internazionale, sia se vorrà davvero modernizzare il paese. E dovrà farlo anche se Blair dovesse chiudere la sua parabola politica con un repentino tramonto. Perché sarà pur vero, come osserva John Lloyd citando Enoch Powell, che «tutte le carriere politiche sono destinate a chiudersi con un fallimento», ma questo non cancella il successo pieno raggiunto nell’obiettivo di cambiare il vecchio socialismo del Labour Party: «egli ha creato un nuovo genere di partito di sinistra – scrive Lloyd – e lo ha visto riscuotere più successo di qualsiasi altro modello in Europa»6. Abbastanza per non essere liquidato come una scomoda deviazione del socialismo.



NOTE



1 Il quale “clintonismo”, secondo Piero Sansonetti, consiste peraltro nella «esaltazione della flessibilità del lavoro e sulla riduzione dei diritti dei lavoratori» promettendo «l’aumento dei profitti e delle rendite, in cambio di misure minime di protezione sociale e della rinuncia allo smantellamento dello Stato». In «Liberazione», 7 maggio 2006.^
2 R. Bertinetti, Nuovi leader e vecchie idee nella politica britannica, in «il Mulino», n. 6/2006, p. 1131 .^
3 Id., Che fine ha fatto Tony Blair, in ivi, 1/2006, p. 161.^
4 The New Egalitarianism, in «Corriere della sera», 25 giugno 2005.^
5 J-P. Langellier, Pour le New Labour, «ce qui compte, c’est ce qui marche», in «Le Monde», 8 giugno 2005.^
6 J. Lloyd, Il tramonto obbligato del Leader che reinventò la sinistra britannica, in «la Repubblica», 3 febbraio 2007.^
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