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L'élite dei compradores. Le privatizzazioni in Russia alla fine del XX secolo
di Sandro Petriccione
1. Introduzione

Durante la tarda dinastia Ch’ing si sviluppò in Cina fino all’inizio del XX secolo una classe di intermediari commerciali e finanziari i quali operavano e accumulavano ingenti fortune profittando del disfacimento delle istituzioni e ponendosi a servizio degli interessi dei paesi occidentali e delle loro mire politico-economiche sull’impero. Ma già dall’inizio del Novecento il termine portoghese comprador stava nel dibattito politico in Cina ad indicare chi accettava le logiche degli stranieri e svendeva a suo vantaggio il patrimonio del paese, profittando del disfacimanto del vecchio regime.
Il termine è stato richiamato da Andrej Bunich1, politologo e presidente degli industriali russi, nel corso dell’accesa discussione che precede le elezioni per la Duma che avranno luogo alla fine di quest’anno e alle quali si prevede si presenteranno anche i più decisi oppositori a Putin, legati al periodo eltziniano. L’aspetto interessante è, che a differenza del passato quando, salvo isolate eccezioni (e si può ricordare la coraggiosa polemica dello scrittore Alexandr Zinoviev)2, si preferiva tacere sul dramma della disgregazione dell’URSS e del periodo immediatamente successivo, ormai sono messi in discussione gli eventi degli anni Novanta dello scorso secolo. In particolare il periodo della presidenza di Eltzin a partire dall’intervento armato contro il Soviet Supremo arroccato nella “Casa Bianca” che costò 150 morti e che pure fu salutato come un fatto democratico da una parte consistente dell’opinione pubblica occidentale; ma soprattutto, alla vigilia delle elezioni del 1996, la svendita ad un gruppo di giovani imprenditori (in media avevano poco più di trenta anni), che già si erano impadroniti di una parte del patrimonio dell’Unione, delle principali imprese operanti nel settore della trasformazione o dell’estrazione e del trasporto del petrolio e del gas e di altre risorse naturali.
La fine dell’URSS poneva alla classe dirigente che aveva preso il potere come reazione al ridicolo tentativo di colpo di stato dell’agosto del 1992, che era però il segno dell’insofferenza della vecchia nomenklatura comunista ad ogni politica di riforme, il problema della transizione da un’economia diretta dal centro ad una economia di mercato. Già all’interno del PCUS si combattevano due tendenze per contrastare l’ormai evidente crisi delle istituzioni sovietiche: una che voleva le riforme e credeva nei valori democratici e l’altra che intendeva solo conservare il potere. Gorbacev con la sua politica indecisa non volle o non potette dare dei contenuti concreti alla politica di perestroika anche se dai documenti preparatori del XXVIII Congresso del PCUS (che non si tenne mai con l’avvento al potere di Eltzin) si delineava la politica di passaggio ad una società libera ed alla economia di mercato3. Nella dichiarazione programmatica K gumannomu demokraticeskomu Sozializmu (verso un Socialismo democratico ed umano) ci si ponevano i problemi della politica di “transizione” mettendo in luce la necessità che ad essa si accompagnassero misure capaci di difendere gli interessi economici e la salute dei cittadini. Questo problema si era già posto parecchi anni prima in pieno regime sovietico quando Yuri Andropov, allora Segretario generale del Presidium, si rese conto che tutto il mondo si allontanava dall’economia pianificata dal centro e cercò di immaginare le strade lungo le quali avrebbe dovuto trasformarsi lo Stato Sovietico. La successiva disgregazione dell’URSS, sancita e accelerata da Eltzin per conquistare il potere, richiedeva una politica decisa ed accorta per passare senza troppe scosse dall’economia amministrata dal Gosplan, ad un’economia di mercato. La crisi di una grande struttura sopranazionale quale era l’Unione Sovietica, la cui integrità era stata confermata a grande maggioranza da un referendum popolare che non riuscì in tempo ad arrestare o almeno a rallentare il processo di dissoluzione in corso, poneva il drammatico problema di trasformare le istituzioni che avevano gestito un sistema sociale ed economico integrato per adeguarlo alle nuove dimensioni geografiche del paese ed alle esigenze di riforma fortemente sentite dai cittadini.
Chi si prefigge di dare un giudizio complessivo sul periodo che va dal 1992 con la reazione al tentativo di colpo di stato e la fine dell’Unione Sovietica sancita dall’accordo di Minsk, al 2000 con le dimissioni di Eltzin che aveva dominato tutta questa turbolenta fase politica, non può non distinguere le due fasi che si sono succedute prima e dopo le elezioni del 1996 e la riconferma di Eltzin alla presidenza. La prima caratterizzata da una politica ultraliberista in presenza dello sfacelo delle istituzioni che, pur con tutte le distorsioni e le sofferenze che aveva comportato, portò al passaggio verso l’economia di mercato; la seconda caratterizzata dal potere personale di Eltzin e dal dominio degli “oligarchi” che ne avevano determinato la rielezione.


2. La transizione al mercato

Putin ha più volte affermato che la situazione della Federazione russa negli anni Novanta del XX secolo era quella di uno Stato che aveva perso la guerra. L’aria di libertà che si respirava per la prima volta, dopo decenni di dittatura, fin dai tempi della perestroika gorbacioviana, origine di discussioni e dibattiti sui temi più svariati che il pubblico seguiva con grande passione ed entusiasmo, che si accompagnava alla ripresa del sentimento religioso avvertito come unico punto di riferimento dopo la crisi del marxismo-leninismo,
degenerò presto nell’anarchia e provocò perfino carenze di beni alimentari di fronte alle quali si dovette far ricorso agli aiuti umanitari dei paesi occidentali. Ma la disgregazione delle istituzioni venne accelerata, forse intenzionalmente, dalla rapidità con la quale fu attuata la politica delle privatizzazioni dalla nuova classe dirigente nel primo periodo della presidenza di Eltzin e in particolare da due giovani politici poco più che trentenni: Egor Gaidar, proveniente da una famiglia della élite sovietica, ideologo della transizione, e Anatolii Chubais che ne tradusse in termini pratici gli orientamenti in maniera geniale e spregiudicata. L’ideologia di questi politici era la “terapia shock” (cioè l’adozione di misure immediate e dirompenti di grande portata) per passare all’economia di mercato e non a caso Gaidar prese contatti con il liberista Vaklaw Klaus che l’aveva animata in Cecoslovacchia e si premurava di negare ogni continuità col riformismo di Dubcek. La prima decisione adottata fu la improvvisa e generalizzata liberalizzazione dei prezzi (esclusi quelli dei servizi) che fece ricomparire le merci sul mercato ma a prezzi molto superiori a quelli precedenti, e allo stesso tempo polverizzò i risparmi delle famiglie in presenza di un’inflazione che superava il 100% all’anno. La fine del periodo sovietico con tutte le sofferenze e i sacrifici che lo avevano caratterizzato doveva significare la nascita di una società più libera e più umana; invece si passò ad un liberismo senza freni e contrappesi col quale alcuni, e di solito erano i “nuovi russi” abbracciarono nel modo più acritico il consumismo ed il modo di vita americano mentre per la maggioranza, in attesa di un futuro di benessere promesso dall’élite di governo, si poneva il drammatico problema di sopravvivere dopo la scomparsa dei servizi sociali e il vertiginoso aumento dei prezzi che rendevano la vita anche più misera di quella che assicurava il regime sovietico. In molte occasioni pensioni, stipendi e salari dei civili e dei militari non venivano pagati per mesi e comunque erano drasticamente ridotti dall’inflazione.
Ma il passo decisivo verso la privatizzazione dell’economia fu quello della distribuzione tra i cittadini, che non ne conoscevano né il significato né il valore, di titoli rappresentanti il patrimonio delle imprese sovietiche (i vouchers) che venivano quasi sempre poi venduti per pochi soldi, rendendo in tal modo possibile il loro rastrellamento da parte di affaristi – e talvolta criminali – e tra essi i futuri “oligarchi”, che in tal modo acquisivano la proprietà delle industrie dello Stato sovietico.
Il giudizio sulla politica di privatizzazioni per il passaggio all’economia di mercato seguita in Russia all’inizio degli anni Novanta del XX secolo è oggi motivo di polemiche e di contrapposte interpretazioni tra chi è convinto che un più cauto ed ordinato passaggio sarebbe stato possibile evitando gli enormi sacrifici imposti alla popolazione e chi ritiene che la strada seguita fosse l’unica percorribile.
La signora Freeland, che è stata dal 1995 al 1998 a capo dell’ufficio del Financial Times a Mosca e successivamente vice direttore dello stesso giornale, descrive approfonditamente nel suo libro The sale of the century (la svendita del secolo)4 la politica delle privatizzazioni seguita in Russia e mette in luce, non senza simpatia, la figura dei suoi protagonisti che in diverse occasioni definisce i “giovani riformisti” o, in altre, a nostro avviso più esattamente, i “rivoluzionari capitalisti”. La Freeland, come molti osservatori occidentali, parte dalla convinzione che la fine dell’“impero del male” e la rivoluzione di velluto con l’accesso al potere della nuova élite formata dai “giovani riformisti” avrebbe visto la luce un’economia di mercato, equa e rispettosa della legalità, tanto da giustificare gli eccessi e le asprezze del periodo di transizione come il rastrellamento dei vouchers che consentirono ad individui spesso privi di scrupoli, i “nuovi russi”, di impadronirsi delle ricchezze dello Stato sovietico mentre allo stesso tempo la liberalizzazione dei prezzi riduceva in miseria e addirittura alla fame intere classi di cittadini5. Solo col passare del tempo e con lo svolgersi degli avvenimenti la giovane e brillante giornalista deve riconoscere onestamente che i “giovani riformisti” nella fase di transizione al mercato lasciarono un’eredità il cui principale aspetto negativo è stata la corruzione che già esisteva ai tempi dell’Unione Sovietica ma che si ingigantì presentandosi in maniera sfacciata nel periodo di Eltzin. I “liberali” (come attualmente li chiama la pubblicistica russa cioè i “giovani riformisti” secondo la denominazione della Freeland) si allearono con i “nuovi russi” (cioè per lo più quelli che si erano arricchiti con i vouchers) per sostituire dovunque era possibile la vecchia burocrazia industriale sovietica anche se ciò rendeva necessario l’alleanza con dei corrotti e degli avventurieri. Il principio «corruzione per il bene della democrazia» fu teorizzato da Chubais, allora a capo della potente GKI [Gosudarstvennaia Kommissia Imushestva (Commissione statale della proprietà)] il quale affermò «[i “nuovi russi”] rubano e rubano […] stanno rubando assolutamente tutto ed è impossibile fermarli. Ma lasciamoli rubare e prendersi la loro parte. Diverranno proprietari e corretti amministratori della loro proprietà». La Freeland commenta che questo era un calcolo machiavellico ma che ricorda più, ad avviso di chi scrive, in termini peggiorativi le famose parole di Luigi Filippo.
Che cosa fecero le istituzioni internazionali e la maggior parte dei commentatori occidentali? Circa 1/10 dei vouchers fu intermediato da banche occidentali; la EBRD (Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo) sostenne senza riserve il processo di privatizzazione, dando piena fiducia ai politici “riformisti”, e qualche suo dirigente fondò poi a Mosca una sua banca d’affari mentre dei consulenti americani lautamente pagati assistevano Gaidar e Chubais.
Serghiei Markedonov, un “liberale”, vice-direttore della Sezione Problemi internazionali dell’Istituto di analisi politica e militare6 è oggi uno dei pochi sostenitori in Russia della politica dell’inizio degli anni Novanta (cioè del primo periodo delle privatizzazioni) ed in particolare di Gaidar che ne fu l’ideologo, anzi “il padrino”, come sostiene. E si domanda perché oggi il popolo rimpiange l’URSS e maledice le riforme. A suo avviso il principale errore dei “liberali” fu frutto della loro originaria formazione marxista per cui si riteneva che il passaggio ad una economia di mercato avrebbe automaticamente provocato la trasformazione di tutta la società. Perciò la visione economicistica di Gaidar sarebbe stata responsabile della mancata trasformazione degli istituti democratici del potere ed in particolare dei “corpi separati” (Esercito e KGB), avendo ritenuto che l’emergere di una nuova classe di uomini di affari (i “nuovi russi”) – che i “liberali”consideravano un fatto molto positivo – fosse sufficiente a garantire la nascita di uno Stato liberale. Di conseguenza si trascurò il fatto che la difesa delle estese frontiere della Russia, modificate ma non ridotte con la fine dell’URSS, richiedeva attenzione per le forze armate e i servizi di sicurezza. Non avendo assicurato la legittimazione delle riforme mediante la trasformazione dell’amministrazione, i “liberali” avrebbero permesso l’interpretazione degli avvenimenti data dai loro avversari politici.
E tuttavia Markedonov sembra sottovalutare le conseguenze sociali della politica di privatizzazioni e il diffuso malcontento popolare per le sue conseguenze. E oggi – conclude – Putin è definito dagli ideologi del Cremino “patriota liberale” in contrapposizione al liberismo lesivo degli interessi nazionali, ed espressione di un nazionalismo popolare il quale si richiama ai simboli e ai miti politici e militari sovietici mentre considera l’immediato periodo postsovietico non come quello della creazione di un nuovo Stato, ma di anarchia e di umiliazione nazionale.
Bunich, che esprime punti di vista sotto certi aspetti non lontani da quelli di Putin, può considerarsi un esponente della tendenza eurasiatica, come la definisce James Billington, uno dei maggiori studiosi del pensiero politico e della letteratura russa7, prima direttore del Woodrow Wilson International Center e poi della Library of Congress degli USA. La corrente eurasiatica era sorta nella seconda metà del XIX secolo ed aveva avuto dei suoi continuatori perfino nella emigrazione durante il periodo sovietico, ma ha preso forza dopo la fine dell’URSS come ideologia che si propone di sostituire quella comunista e valorizzava la unicità geopolitica della Federazione russa mentre auspica, in continuità con la tradizione russa,un crescente ruolo dello Stato anche se ciò dovesse significare il rafforzamento di tendenze autoritarie. Le tesi di Bunich si contrappongono a quelle dei “liberali”; a suo avviso nel caos seguito alla fine dell’URSS la nomenklatura sovietica ed in particolare i dirigenti e gli studiosi, si divise in due categorie: quelli che dignitosamente si misero in disparte e coloro che, talvolta senza grandi meriti, ma solo perché si trovavano a capo di imprese del settore petrolifero e del gas (i neftianiki e i gazoviki) ed erano solo esecutori di ordini che provenivano dal centro, si impadronirono spesso senza grandi difficoltà, dei beni dello Stato; oppure solo perché erano funzionari di banca che si limitavano ad eseguire gli ordini della Gosbank, la onnipotente banca centrale, divennero inaspettatamente i padroni delle istituzioni creditizie dell’economia di mercato nella Federazione Russa. I politici ultraliberisti (Eltzin, Gaidar, Chubais) conquistarono il potere con il concorso di questa parte della nomenklatura; ad essa si affiancarono elementi che non appartenevano originariamente all’élite: affaristi che trovavano l’occasione di legalizzare i loro capitali ed anche gruppi criminali. Si creò attorno a Eltzin – secondo Bunich – una coalizione di favoriti, uniti dalla caratteristica della completa irresponsabilità sociale, che utilizzò anche l’appoggio dell’Occidente accecato dal miraggio della nascita di un’economia di mercato in Russia.
Si deve comunque osservare che non mancò chi in Europa e negli USA sostenne che delinquenza e corruzione erano il prezzo per il passaggio ad un’economia di mercato che era inevitabile la Russia dovesse pagare e che anche nei grandi paesi occidentali la costruzione di un’economia capitalistica non era stata scevra da abusi e sofferenze, omettendo così di tener conto del fatto che, nel caso della Russia, non si trattava di creare ricchezze che già esistevano ed erano state principalmente il risultato dell’“accumulazione originaria socialista” con tutti i costi – e non erano pochi – che aveva comportato, ma solo di riorganizzarne la ripartizione tra centro e periferia e tra settore privato e pubblico per assicurare il funzionamento di una corretta economia concorrenziale.
La vittoria dell’Occidente, ma soprattutto degli Stati Uniti, nella “guerra fredda” fu seguita dall’arrivo di banchieri ed industriali americani ed europei che profittarono del disfacimento delle istituzioni per realizzare lauti guadagni aiutati o per lo meno non ostacolati dagli oligarchi del centro e della periferia che in più di un’occasione se ne fecero soci, i compradores secondo la definizione di Bunich. Ed è interessante osservare che Bunich non se la prende con gli stranieri che specularono sfacciatamente sulla tragica situazione russa e che a suo avviso fecero il loro mestiere trovandosi in un paese in una situazione simile a quella della Germania e del Giappone dopo la sconfitta, ma con il regime di Eltzin e con la nuova élite che ne era espressione.
Mentre sulla politica seguita nel primo periodo delle privatizzazioni si confrontano tesi diverse che abbiamo appena cercato di esporre, il giudizio di
quanti hanno seguito ciò che avvenne appena prima e dopo le elezioni del 1996 è unanimemente negativo salvo chi su quei fatti fa calare la coltre del silenzio.
Nel 1995 il generalizzato malcontento dei cittadini minacciava il potere di Eltzin. Si prevedeva la netta vittoria dei comunisti di Ziuganov – che certamente non era uno stalinista ma, come molti post comunisti, non brillava per chiarezza di idee e di programmi –; per evitarla i “giovani riformisti” proposero un patto con i principali imprenditori che ruotavano attorno al gruppo di Eltzin, quasi tutti giovani molto abili e spregiudicati. Fulvio Scaglione nel suo libro La Russia è tornata8, un’acuta analisi della politica di Putin, e che sotto certi aspetti può essere considerato la continuazione del lavoro della Freeland, tratta anch’egli dell’origine degli oligarchi e di come alcuni di essi già nel periodo di Gorbacev si erano creati dei grandi patrimoni, frutto delle operazioni più spericolate. L’idea del patto (che poi è stato denominato “prestiti in cambio di azioni”) era di Vladimir Potanin discendente ed egli stesso giovane componente della nomenklatura sovietica, padrone della Onexinbank, istituzione creditizia che si era arricchita avendo ottenuto da Eltzin la concessione delle dogane. Di fronte alla crisi finanziaria dello Stato che otteneva magri ricavi dalle esportazioni e quasi inesistente gettito fiscale, Potanin proponeva un accordo col governo: i banchieri avrebbero prestato allo Stato delle ingenti somme, ottenendo in cambio la gestione delle principali imprese ancora pubbliche e cioè tutte quelle che sfruttavano le risorse naturali, la principale ricchezza dell’URSS. Inoltre la proposta era completata da una condizione: dopo alcuni mesi lo Stato si impegnava a restituire le somme prese in prestito o a vendere all’asta le imprese, dando incarico al gestore di organizzare la vendita. Aderirono subito alla proposta Boris Berezovski – oggi fuggito a Londra e acerrimo nemico di Putin – col gruppo Most che era riuscito ad impadronirsi della rete televisiva pubblica ORT –, Michail Khodorkovski con la sua banca Menatep, Vladimir Gusinski che controllava la NTV, la principale rete televisiva russa. Sembrava una proposta assurda che alcuni esperti stranieri giudicarono subito inaccettabile, sopratutto per il “liberale” Chubais allora vice presidente del consiglio dei ministri, ma che a ben guardare conteneva una condizione che ne faceva una scelta obbligata: il periodo di alcuni mesi previsto tra l’assegnazione in gestione e quello dell’asta competitiva era quello a cavallo delle elezioni; e quindi gli imprenditori, con tutti i mezzi finanziari e di informazione in loro possesso avrebbero nel proprio interesse combattuto per la rielezione di Eltzin, visto che in caso di vittoria di Ziuganov era probabile che non si sarebbe proceduto alla vendita delle imprese. Ed infatti, portata al Governo, la proposta “prestiti in cambio di azioni”, fu approvata da tutti a cominciare da Chubais capofila del gruppo “liberale”, nel novembre 1995; per giunta nella lista delle imprese da privatizzare, su pressante richiesta di Berezovski che sostenne dover finanziare la televisione ORT in vista delle elezioni, fu inclusa la Sibneft, altra grande industria petrolifera in mano allo Stato.
Con la riconferma di Eltzin si aprì la fase delle aste competitive, visto che il governo non poteva, o meglio non voleva, rientrare in possesso delle industrie. Fu un turbine nel quale meno di venti imprenditori (diciassette per essere esatti come rileva Sakwa9) divennero i padroni delle principali industrie russe del settore delle risorse naturali, dal petrolio e dal gas all’acciaio, all’alluminio, al nichel. Alcuni politici e mezzi di informazione europei ed americani, forse per il sollievo della mancata vittoria comunista, furono portati a considerare favorevolmente lo schema “prestiti in cambio di azioni” in quanto sembrava loro che l’assegnazione delle industrie sarebbe avvenuta rispettando le regole della libera concorrenza. In realtà, come era da aspettarsi, le cose si svolsero diversamente. Potanin mosse alla conquista della Norilsk Nikel, il maggiore produttore al mondo del metallo. All’asta competitiva organizzata dallo stesso Potanin secondo il contratto, si presentò la Banca Rossiiski Kredit ma Alfred Koch un Chubaishik (cioè uomo di Chubais) che era succeduto a quest’ultimo alla presidenza della GKI, sostenne che la banca non aveva titolo alla partecipazione all’asta e così la Norilsk Nikel fu assegnasta a Potanin senza offerte in concorrenza. Per la Yukos, grande industria petrolifera, Khodorkovski organizzò l’asta: questa volta si presentò un altro “oligarca” Michail Friedman con la sua Alfa Bank, la Incombank, ed ancora la Rossiiski Kredit ma venne subito minacciato mentre il governo inviò suoi funzionari per verifiche fiscali nelle tre banche. Con questi metodi, sempre con il sostegno di Koch, che anche questa volta escluse i concorrenti, Khodorkovski si impadronì della Yukos. Il commento di Chubais fu “meglio una cattiva asta che nessuna asta”. La Freeland osserva mestamente che i “giovani riformisti” avevano evitato la vittoria di Ziuganov ma avevano venduto l’anima al diavolo.
Per conquistare la grande industria erano state necessarie intese tra gli oligarchi che, come osserva Bunich, avevano creato una specie di “Presidium” (l’organo di comando del Partito Comunista dell’Unione Sovietica) che d’accordo con i “liberali” prendeva le principali decisioni in campo economico.
Nel periodo successivo alle elezioni l’integrazione tra governo, ed in particolare il gruppo dei “liberali, e gli oligarchi divenne sempre più stretta. Berezovski fu nominato da Eltzin suo vice del potente comitato di sicurezza, Potanin divenne ministro mentre Chubais e Nemtzov erano alternativamente vicepresidenti del consiglio dei ministri.
Nel primo volume del Capitale Marx scrive che quando i briganti si accapigliano tra loro c’è sempre qualche cosa da apprendere. Quando sulla privatizzazione della grande impresa di telecomunicazioni Sviazinvest entrarono in contrasto Guzinski che riteneva gli fosse dovuta per il suo appoggio alla campagna elettorale, e che aveva già preso accordi con imprese straniere per la partecipazione al capitale, e Potanin che, forte del legame con Chubais era riuscito a farsela assegnare, ebbe inizio una lotta senza quartiere nel corso della quale Guzinski, che era perdente nella conquista di Sviazinvest, utilizzò l’arma che aveva a disposizione per discreditare il gruppo “liberale” legato a Potanin, cioè la rete televisiva NTV. Vennero alla luce fatti sconcertanti: Koch per un suo libro sulle privatizzazioni, che ben pochi avrebbero letto, ricevette la somma di 100.000 dollari (quando lo stipendio medio in Russia era di 300 dollari!) da una banca svizzera legata alla Onexinbak di Potanin, Chubais oltre al compenso relativo alla campagna elettorale assegnatogli dagli oligarchi ricevette 400.000 dollari per la sua “Associazione per la difesa della proprietà privata”, Nemtzov risultava coinvolto negli scandali privati degli oligarchi. Il risultato era che si appannava l’immagine dei “liberali” come rigorosi introduttori dell’economia di mercato ed aumentava l’odio dei comuni cittadini per la classe politica al governo. Le accanite lotte di potere anche all’interno della “famiglia” Eltzin (cioè il gruppo di politici, industriali e finanzieri attorno al presidente) rese meno attenta la élite a fronteggiare la congiuntura del mercato finanziario internazionale e non venne valutata nella sua gravità la crisi delle borse dei paesi dell’Estremo Oriente nel 1998. Nel giro di poche settimane, nonostante i prestiti del Fondo Monetario Internazionale che cercò invano di sostenere il governo russo ormai debole e discreditato, la crisi si propagò a tutto il sistema bancario che non fu in grado di sostenere il rimborso dei GKI (i titoli di Stato ad altissimo rendimento molti dei quali sottoscritti da investitori esteri). La crisi bancaria e la svalutazione del rublo provocarono la rovina dei piccoli e medi industriali e dei risparmiatori ma condussero anche alla definitiva sconfitta del gruppo “liberale” che perse tutte le posizioni di governo. Eltzin sopravvisse per qualche anno e fu poi costretto a cedere le redini al poco conosciuto Vladimir Putin che fin dall’inizio dichiarò di voler combattere gli oligarchi. Richard Sakwa nel suo libro Putin: Russia’s Choice10, elogiativo del Presidente russo, descrive l’ambiente eltziniano dei compradores con considerazioni simili a quelle della Freeland e osserva che nella campagna elettorale del 2001 Putin non esitò a fare uso dello slogan “liquidare gli oligarchi come classe” riprendendo le parole di Stalin (sul problema della liquidazione dei Kulak come classe)11 quale premessa della sua politica di rafforzamento dello Stato; si faceva così interprete della reazione popolare ad un regime che aveva arricchito una minoranza tra cui gli odiati compradores-oligarchi, a spese della stragrande maggioranza della popolazione la quale aveva dovuto subire la politica di liberalizzazione dei prezzi che aveva annientato risparmi e pensioni e drasticamente ridotto il valore delle retribuzioni e poi di nuovo, quando sembrava che la situazione stesse migliorando, la crisi finanziaria del 1998 aveva colpito risparmiatori e piccoli imprenditori. In effetti poi i metodi seguiti da Putin furono molto meno brutali di quelli del dittatore georgiano: solo Khodorkovski, la mente politica degli oligarchi, è finito ed è rimasto in carcere; mentre Guzinski fu arrestato e tenuto in carcere per quattro giorni poi, come Berezovski, trovò conveniente riparare all’estero. Gli altri oligarchi hanno accettato l’egemonia di Putin, rispettando un patto tacito di non interferire con la politica e non cedere a stranieri, imprese considerate strategiche, e continuano a godersi le loro ricchezze. Appare chiaro che più che gli oligarchi nel loro complesso si voleva evitare che alcuni di essi, forti delle loro ricchezze, potessero avversare la politica del presidente.
La conclusione del periodo di Eltzin permette di tentarne una valutazione complessiva anche alla luce della politica seguita negli anni successivi da Putin. La prima fase della creazione dell’economia di mercato in Russia per mezzo della liberalizzazione dei prezzi e delle privatizzazioni e il conseguente sorgere della categoria dei “nuovi russi”, anche se aveva comportato un pesante costo per l’immiserimento di intere categorie di cittadini, fu giudicata positivamente da molti ambienti della UE e degli USA. Ma, se si guarda in una prospettiva storica, il giudizio è meno semplice e non può essere espresso separatamente da quello che avvenne nel periodo a cavallo delle elezioni del 1996 e degli anni successivi, dominato dagli oligarchi, dalle tendenze autoritarie del presidente e dalla crisi finanziaria che concluse di fatto il periodo eltziniano. La liberalizzazione senza gli adeguati contrappesi che esistono in tutti i paesi industrializzati, ed in primo luogo un Esecutivo che metta sotto controllo le posizioni di monopolio e si preoccupi del benessere dei cittadini, ha provocato per reazione un deciso rafforzamento dei poteri dello Stato e della sua presenza in economia mediante l’impiego a tutti i livelli dei siloviki gli uomini dei servizi di sicurezza, che, secondo Bunich, servono a ripulire le “Stalle di Augìa” del periodo Eltzin [sic], ma che è apparso a molti solo come limitazione delle libertà democratiche mentre, a parte aspetti autoritari, che pure non mancano, è comunque servito ad assicurare la stessa sopravvivenza della Russia nel XXI secolo.




NOTE



1 A. Bunich Osen’ Oligarkov, L’autunno degli oligarchi, Moskva, Iauza, 2005 ed anche Vremia Kompradorskoi eliti proshlo (è passato il tempo dell’élite dei compradores), in «Politkom.ru», 11 dicembre 2006. ^
2 A. Zinoviev, Ghibel’ russkovo Kommunizma (il crollo del comunismo russo), Moskva, Izd. Zentrpoligraf, 2001. ^
3 Materiali XXVIII Sezda Kommuynisticeskoi Partii Sovietzkovo Soiuza, Moskva, Politzdat, 1990. ^
4 C. Freeland, The Sale of the Century, London, Abacus, 2005. ^
5 «Quando si tagliano gli alberi, volano le schegge» è un proverbio russo che sta a significare che le grandi cause comportano necessariamente episodi incresciosi che tuttavia rappresentano il prezzo che occorre pagare nel corso del cambiamento. Ma è un proverbio che in Russia non si può più adoperare da quando sono divenute note a tutti le innumerevoli “schegge” del periodo staliniano. Non lo si può adoperare anche se implicitamente nemmeno per le privatizzazioni selvagge degli anni Novanta del XX secolo. ^
6 S. Markedonov, in «Gaidar Politkom.ru» 2/07. ^
7 J.H. Billington, Russia in Search of itself, Baltimore, John Hopkins Univ:Press, 2004. ^
8 F. Scaglione, La Russia è tornata, Milano, Boroli, 2005. ^
9 R. Sakwa, Putin: Russia’s Choice, London, Routledge, 2004. ^
10 Ibidem. ^
11 G. Stalin, Questioni del leninismo, Mosca, Edizioni in Lingue Estere, 1946. ^
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