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Politica & Economia. I nodi della crescita italiana. Nostalgie e rimpianti della stagnazione e del declino
di Massimo Lo Cicero
1. La paura che nasce dalla consapevolezza di non saper governare la crescita

L’economia italiana sarà capace di crescere stabilmente nei prossimi anni? Come e perché? Alla ricerca di risposte credibili e convincenti per queste due domande si è svolto, dal 16 al 18 marzo, l’ottavo Forum di Cernobbio, promosso da Confcommercio ed Ambrosetti.
Queste due domande sono insidiose.
L’economia italiana viene minacciata da un problema oggettivo e dalla diffusione di comportamenti soggettivi.
I secondi compromettono sia la nascita che il buon esito di azioni collettive, capaci di imboccare e governare il circolo virtuoso della crescita1.
Per quanto riguarda il dato oggettivo la scena mondiale è dominata dagli effetti espansivi indotti dalla globalizzazione dei mercati e dalle sue due principali fenomenologie: integrazione economica e disintegrazione politica. La seconda, cioè la disintegrazione politica, si traduce nella relazione sempre più stretta tra comunità locale, produzione di beni pubblici ed interventi dei Governi. Nascono nuovi Stati nazionali e si riordinano, sulla base di processi di
decentramento amministrativo e di sussidiarietà, tra i vari livelli ai quali si ripartisce il controllo politico degli affari di pubblico interesse, i poteri di indirizzo sulla produzione e la gestione dei beni e dei servizi pubblici. Nascono, in parallelo, forme di cooperazione, di variegata intensità, tra Stati nazionali che intendono promuovere aree sovranazionali di libero scambio, aree monetarie od altre forme di cooperazione interstatale. Viene meno, insomma, l’identificazione tra mercato domestico e spazio operativo della politica economica nazionale, monetaria o fiscale, che aveva alimentato il tradizionale compromesso keynesiano – crescita e piena occupazione, con ragionevole pressione inflattiva – negli anni Settanta. Ma viene meno anche la identificazione, tipica di ogni approccio al Welfare State ed all’intervento pubblico sul sistema economico, tra la macchina dello Stato, la sua amministrazione, ed il monopolio della produzione dei beni e servizi pubblici all’interno di quella macchina. Cresce, al contrario, la presenza operativa, in questo genere di attività economiche, sia delle forme di public private partnership, che derivano, in larga parte per gli strumenti e le tecniche di valutazione, dalla diffusione della finanza di progetto, sia delle organizzazioni non governative e not for profit, promosse e gestite da attori privati. Si moltiplicano, in una parola, le forme istituzionali esse si espandono ben oltre le forme organizzate della politica democratica della seconda parte del Novecento, utilizzate per coinvolgere gli individui nei processi di azione collettiva e governare il corso di quei processi medesimi.
La politica economica diventa, grazie a questo genere di cambiamenti, una sorta di lubrificante e non il solo ed unico propellente della crescita.
La prima delle due fenomenologie che segnano il profilo attuale della scena mondiale, cioè la integrazione economica, si confronta invece, come dice Sabino Cassese2, con la difficoltà di andare oltre lo Stato nella ricerca di un governo dell’economia legittimamente fondato sul terreno costituzionale.
I governi nazionali riescono sempre meno ad essere decisivi nella determinazione dei ritmi dello sviluppo economico da quando le relazioni di mercato si svolgono attraverso e non dentro i perimetri amministrativi della loro giurisdizione: i confini degli Stati.
La nuova economia mondiale si affida alla segmentazione transnazionale delle filiere di offerta ed a protagonisti imprenditoriali che non siano necessariamente le grandi opache compagnie multinazionali: gli spettri ostili del lato oscuro del capitalismo.
Oggi si conquista il successo economico anche attraverso strade diverse. Rimane decisiva la relazione virtuosa tra specializzazione e industriale e sviluppo del commercio internazionale ma la produzione di quei prodotti specializzati deriva dalla diversificazione internazionale dei luoghi della produzione che concorrono nel risultato.
Le filiere industriali si reggono grazie ad un grande volume di scambi tra segmenti produttivi, localizzati secondo modelli di diversificazione internazionale, che frammentano la continuità territoriale del processo di formazione del valore nella sua complessità.
Gli scambi cross border, rispetto ai confini nazionali, riguardano piuttosto semilavorati e parti dei prodotti finiti che non gli stessi prodotti finiti: beni di consumo o di investimento che essi possano essere. Da un carattere inter-trade il processo di scambio si è trasformato, prevalentemente in termini di flussi relativi rispetto al totale del commercio internazionale, in un’attività intratrade, rispetto alla dimensione merceologica dei settori, catalogati in termini di prodotto finale. La conseguenza di questa trasformazione è evidente: perde significato l’esperienza dei distretti industriali, legati dalla prossimità territoriale degli impianti che si collegavano reciprocamente, perché non conta la contiguità ma la capacità di collegare tra loro relazione interindustriali 3. Ne segue la crescente rilevanza delle attività logistiche, che entrano nel costo di produzione dei prodotti finiti, e nel loro stesso ciclo di lavorazione, ma non rappresentano più solo l’anello terminale che collega al mercato di destinazione un prodotto pronto per essere utilizzato.
Miracoli della information and communication technology, che genera filiere multinazionali come sciami di imprese collegate da relazioni fiduciarie, contrattuali piuttosto che gerarchiche, reciproche.
In Italia questo fenomeno si presenta come architrave del successo ottenuto dalle medie imprese che producono l’italian style of life per la nuova ruling class che la diffusione del benessere genera oggi nel mondo intero.
Ma perché queste imprese medie italiane fanno sistema tra ciascuna di loro, il leader, ed una miriade di microimprese che agiscono come fornitori o come partner industriali del leader – generando filiere di prodotto – o si integrano con reti commerciali alla scala dei mercati mondiali, mentre l’Italia non gioca la sua scommessa per la crescita come un sistema coeso? Perché, nel nostro paese, questa sembra essere l’origine dell’indebolimento accusato dall’azione collettiva, egoismi, rigidità ed una diffusa paura del cambiamento rendono vischiosa e sterile proprio l’azione collettiva. L’Italia – ecco la condizione soggettiva che interagisce negativamente con le due tendenze oggettive della globalizzazione – sembra, nelle cronache economiche e politiche quotidiane, violare la iperadditività che conduce al successo gli insiemi complessi: la circostanza per cui il valore dell’insieme risulta maggiore della somma dei singoli risultati di ognuna delle sue parti.
Gli esempi sono evidenti.
La concentrazione delle banche ha migliorato la qualità di ciascuna di loro come azienda. Ma non è migliorata ancora la relazione sistematica e sistemica tra banche ed imprese, che restituirebbe all’economia nazionale nel suo complesso il vantaggio collettivo della crescita.
La pubblica amministrazione assorbe molta ricchezza e non produce valore economico come corrispettivo per il sistema. Ma la pressione fiscale aumenta per supportare l’obiettivo – richiestoci dal patto di stabilità e crescita – di risanare la struttura finanziaria della pubblica amministrazione e compromette, in questo modo, la dinamica della domanda interna che potrebbe e dovrebbe sostenere la crescita innescata dalle esportazioni delle medie imprese private 4.
Le reti infrastrutturali e le città – sia le piccole che le grandi aree metropolitane – restituiscono al sistema esternalità negative da congestione che superano di gran lunga le esternalità positive, che da esse ci dovremmo e potremmo aspettare. Il Sud è diverso dal Nord ma questa ricchezza potenziale diventa un freno alla loro integrazione reciproca.
Insomma, ed in generale, l’Italia non riesce a trovare una relazione tra istituzioni ed azione collettiva che sia capace di guidare una dinamica sociale capace di governare il cambiamento nell’interesse della gran parte dei gruppi sociali che in essa agiscono.
Ed, in questo modo, accusa tutta la portata negativa dei costi, mentre intercetta un volume abbastanza limitato dei vantaggi, che derivano dal nuovo ordine mondiale della globalizzazione. Quello, in ragione dell’esistenza del quale, i governi nazionali possono frenare con i propri errori la crescita ma hanno meno strumenti per stimolarla mentre i mercati globali sono più forti degli Stati nazionali. In Italia, le diverse parti del sistema si danneggiano reciprocamente invece di trovare una dimensione cooperativa che ne ecciti il valore complessivamente e permetta ai mercati di trasformare l’avvenuto apprezzamento in una maggiore opportunità di crescita e nella diffusione collettiva del benessere che da quella crescita deriva. Ci sapremo liberare di questa tenaglia? Utilizzeremo mai la corda, che oggi ci strozza come un cappio, per arrampicarsi meglio nel mercato mondiale?


2. La discussione avvenuta a Cernobbio

I ragionamenti, che hanno occupato per tre giorni la scena del Forum di Cernobbio, sono stati aperti da una introduzione di Giuseppe De Rita sulla natura della ripresa italiana nel 2006 e sulle modalità che essa è venuta assumendo. Per la prima volta un grande cambiamento è stato determinato – questa è la tesi di De Rita – dall’azione di elites e piccoli gruppi, lasciando fuori larga parte del paese reale, il “popolo”.
Quel popolo che era stato attore consapevole nello sforzo della ricostruzione, dopo la fine della guerra, e del successivo miracolo ma anche nella rincorsa, riuscita, dell’appuntamento con l’euro e dell’approdo in Europa come membri del club monetario e non solo del club commerciale. Questa volta – la ripresa che ci vede uscire dai cinque lunghi anni di stagnazione con i quali è iniziato il ventunesimo secolo – la crescita, il ritrovamento della strada per il benessere, non è stato il risultato di un’azione collettiva.
Sono state, invece, solo alcune imprese italiane – attraversato il deserto dei cinque lunghi anni di stagnazione – che hanno riproposto, nel mondo, una dimensione tipica e remota del nostro modo di fare. Come gli artigiani rinascimentali, ma in un mercato globale – che cresce e produce classi dirigenti, sparse in tutto il pianeta e dotate di redditi medio alti – queste imprese hanno rinnovato e rilanciato l’Italian Style of Life, fatto di cultura, gusto e glamour. Esportazioni ed investimenti hanno fatto seguito e la ripresa è arrivata anche in Italia. Una ripresa che, nel 2006, ha fatto espandere del 2%, rispetto all’anno precedente, il nostro prodotto interno lordo. Abbastanza, se si guarda al mediocre profilo della prima metà del decennio, ma ancora un valore inferiore a quello medio europeo: molto lontano da quello dei paesi europei più dinamici, la Spagna, ad esempio, che hanno realizzato tassi pari quasi a due volte quello italiano.
La domanda, che ha tenuto banco nella discussione di Cernobbio, è elementare perché all’aumento del tasso di crescita non segue, consolidando la ripresa stessa, anche l’aumento del consumo domestico? Perché le famiglie
non riappaiono sulla scena per consolidare questa onda espansiva?
Una prima risposta è venuta dal Nobel Edward Prescott 5 ed è stata secca ed evidente. Perché per fare riprendere il mercato domestico servirebbero capacità di spesa ed, insieme, un aumento della produttività nazionale.
La prima è frenata da un eccesso di pressione fiscale e la seconda da tre ragioni: l’ambiguità tra flessibilità e precarietà che domina il mercato del lavoro; la trasformazione incompiuta del mercato dei capitali; il fatto che catturare rendite risulti ancora più interessante e meno faticoso che produrre valore economico. Ma anche dalla circostanza che le giornate lavorative per anno sono inferiori a quelle degli Stati Uniti e perché, in ognuna di quelle giornate, si produce meno valore.
Su questo punto Prescott ha opposto dati e confronti internazionali 6.
Meno tasse, in questo contesto, servirebbero come incentivi capaci di eccitare l’offerta aggregata, grazie all’incentivo che la minore pressione fiscale attiva negli spiriti vitali delle imprese e degli imprenditori.
La riduzione della pressione fiscale, insomma, non dovrebbe essere solo percepita per le sue conseguenze keynesiane, e di breve periodo: l’aumento della domanda effettiva che si libera in presenza di una maggiore capacità di spesa delle famiglie e delle imprese.
Anche questa potenziale conseguenza keynesiana, di una riduzione della pressione fiscale, veniva esplicitamente esclusa dal giudizio del ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa, che concludeva il panel di discussione in cui Prescott ha proposto le sue analisi.
Padoa Schioppa ha annunciato, in quella sede, l’intenzione di dedicare alla riduzione del debito e, forse, alla riduzione delle imposte sulle imprese – ma non dicendo quando e di quanto – il surplus di entrate, effetto della ripresa economica in atto nel 2006. Questa “florida primavera” – cioè una ripresa di questa intensità – confessava Padoa Schioppa, di non averla proprio messa nel conto. Egli era più pessimista sui costi dell’aggiustamento degli squilibri americani e sulla forza della crescita asiatica, quando assunse il mandato di ministro, dopo le elezioni nel trapasso tra primavera ed estate del 2006. E resta ancora perplesso sulla sostanziale futura dinamica parallela di euro e dollaro, che dovrebbero garantire un assestamento, e non un deragliamento, della crescita futura.
La sortita di Padoa Schioppa ha aperto una lunga discussione sulle destinazioni possibili del “tesoretto”: definizione attribuita dallo stesso ministro al surplus di gettito fiscale che si è manifestato nel corso del 2006 rispetto alle previsioni formulate dal Governo all’atto del suo insediamento, subito prima della pausa estiva del medesimo anno. Questa lunga discussione, ancora in essere, non riesce a trovare un punto di convergenza sulle dimensioni del “tesoretto” spendibili in direzione diversa da quella che viene indicata dalla legge finanziaria approvata nel dicembre del 2006: la riduzione del debito pubblico. In questa direzione, del resto, sembrano andare, nel dibattito che è proseguito ben oltre la “tre giorni di Cernobbio”, sia le preferenze di Padoa Schioppa che quelle del Governatore della Banca Centrale, Mario Draghi.
A Cernobbio il presidente del Senato, Franco Marini, apriva la strada ad una interpretazione keynesiana della soluzione possibile: finanziare salari e pensioni per sostenere il consumo aggregato interno e, per questa strada, dare anche fiato alla domanda interna e, di conseguenza, alla crescita dei fatturati imprenditoriali. Prospettiva raccolta anche da Linda Lanzillotta, presente essa stessa a Cernobbio, e da larga parte degli imprenditori associati alla Confcommercio.
Più rigido, al contrario, il giudizio della Confindustria che, attraverso il proprio presidente Luca Cordero di Montezemolo, successivamente è intervenuta più volte per un’utilizzazione di queste eventuali risorse aggiuntive in direzione di una riduzione del debito in essere e non in una operazione di tipo redistributivo, in favore dei redditi e della capacità di spesa degli attori economici privati. Singolare che, in un articolo apparso in aprile su il «Corriere della Sera», il presidente del consiglio, Romano Prodi abbia annunciato, ad aprile, la destinazione ma non ancora il quantum di questo “tesoretto”. Esso, una volta definite le sue dimensioni, andrebbe utilizzato, secondo Prodi, per il 66% ad un incremento dei redditi medio bassi e delle pensioni e per il 33% ad interventi di supporto alle imprese, alle politiche per la crescita, lo sviluppo e gli investimenti in infrastrutture di un’economia che si sta risanando ma che ha ancora bisogno di stimoli ed incentivi, soprattutto alla ricerca, all’innovazione ed al rilancio delle risorse umane 7.
Sta di fatto che l’Italia che si raccontava, e si ascoltava, nei panel e nelle stanze del Forum, è un Italia molto diversa da quella di quindici anni prima. Gli italiani, le imprese italiane, percepiscono il cambiamento ma non capiscono ancora il perché ed il destino del nuovo stato delle cose e, dunque, non si fidano troppo del carattere stabile e persistente che quel cambiamento in atto dovrebbe e potrebbe assumere.
Anche perché si capisce bene, al contrario, che l’unificazione europea offre una chance piuttosto ai new comers che ai padri fondatori della stessa Unione. Essi non dovranno ripetere il nostro, eventuale, calvario verso la riduzione del welfare state, perché non hanno una fiscalità pesante e, non avendo problemi di stabilità ancorati alla condivisione della moneta unica, non devono per ora né progettarla né realizzarla. Anzi possono utilizzare questo grado di libertà, in materia fiscale ed in tema di contratti di lavoro, per accelerare l’espansione dei propri apparati produttivi.
Non si tratta solo di una sorta di barriera normativa che agevola i new comers che entrano nel mercato comune europeo. La forza che spinge e supporta il cambiamento è reale e non fiscale: è l’onda lunga della rivoluzione alimentata dagli asset intangibili, quelli che vengono dalla nuova tecnologia dell’informazione e della comunicazione.
Ribaltando la catena che porta dalla produzione al consumo, la digitilizzazione dei contenuti della comunicazione rende il mondo più coeso, avvicina i desideri ai bisogni, le emozioni alle decisioni.
Il consumo torna in una posizione dominante rispetto alla produzione.
Finisce davvero, con il ventesimo secolo, il mondo di Taylor e di Stalin, quello delle grandi manifatture e della produzione di oggetti che si devono solo comprare. Nasce, al suo posto, un mondo della esperienza e della percezione, nel quale il consumatore torna al centro del processo di cambiamento ed orienta, con le sue scelte, le decisioni di investimento delle imprese. La tutela della competizione sui mercati dovrebbe, in questo nuovo mondo, proteggere il consumatore da eventuali pratiche di cartello o dalla formazione di monopoli tra le imprese. Si potrebbe affermare che la difesa dall’aumento dei prezzi si sia trasferita, sul piano domestico, dalla sorveglianza realizzata dalle banche centrali a quella gestita dalle autorità per la tutela della competizione 8. Enzo Rullani proponeva quattro linee di approccio alle imprese che vogliono accompagnare i consumatori in questo inedito percorso: networking, global service, aggregazione di comunità, attenzione al sentiment 9. E ribadiva come la nuova centralità del consumatore si accompagni a due circostanze assai diverse dalla situazione in cui agiva l’industria nazionale di stampo fordista. Il consumo ritorna ad essere caratterizzato da una dimensione esperienzale, è una sorta di avventura nel mondo che l’immagine ed il brand del produttore evocano piuttosto che rappresentarlo. L’altrove, rispetto al dato contingente della transazione, è un luogo vero e proprio, non solo un tempo diverso da quello in cui si sperimenta l’emozione del rapporto con il prodotto.
Non si può escludere, insomma, che il luogo della vendita possa, al limite, diventare anche virtuale – esistere solo grazie al web ed alla connettività che esso assicura – mentre la sua conclusione affidata ad un sistema logisitico che raggiunge il consumatore dove egli desidera mentre il luogo in cui si incontrano il prodotto, e la cultura che lo supporta e ne determina l’esistenza, sia solo uno spazio dedicato appunto alle emozioni indotte da queste percezioni. Si pensi al caso di IKEA, in cui il processo lavorativo viene, parzialmente affidato al consumatore in un luogo remoto, la sua abitazione, rispetto al luogo in cui si trascorre l’esperienza dell’impatto con il modo di abitare evocato da IKEA.
Edmund Prescott aggiunge che, in questo nuovo sistema di relazioni, il Governo deve stare lontano dalla tentazione di Prometeo: non può guidare l’innovazione e la trasformazione indotta dalle nuove tecnologie.
E su questo si forma a Cernobbio un accordo di fondo tra tutti i relatori.
Come accade anche sulla nozione del “paradosso creativo” proposta da Giuliano Da Empoli: l’Italia è il paese della conservazione: deve scommettere sul valore implicito del suo passato.
L’Italia, in altre parola, dispone di una eredità – lo conferma anche Norbert Walter, chief economist di Deutsche Bank – che può essere il punto di partenza verso un grande futuro. Il valore della sua storia, rappresentato dal suo immenso patrimonio artistico e culturale, se fosse combinato con una piccola dose di serendipity – l’arte di cogliere le opportunità quando si presentano anche se non eravamo stati in grado di prevederne l’avvento – potrebbe portarla molto lontano.
Come si dovrebbe ragionare in termini strategici lo spiega, pour cause, una economista cinese 10. Il futuro non si prevede, e non si può pianificare rigidamente, ma si disegnano le sue possibili strade per differenza con quella che vorremo fosse la nostra. La opzione migliore che ci aspettiamo possa, ma non siamo mai assolutamente certi che debba, realizzarsi.
Al termine della sua presentazione appaiono una gamma di futuri possibili che si allontanano dalla opzione di riferimento, individuata dal redattore dello scenario, per motivi legati alla incapacità degli attori del progetto, e della loro azione collettiva, così come essa appare governabile da idonee istituzioni pubbliche o private, di cogliere le ambiguità implicite nel cambiamento e riportarle nella direzione attesa, individuata nel progetto originario. Il successo appare quindi, come effettivamente esso è, una combinazione di capacità e di circostanze favorevoli.
Grande contemporaneità di pensiero e linguaggio assolutamente impressive per questa giovane economista cinese.
Assai povero, per differenza, il linguaggio delle banche italiane, che stentano, invece, a riconoscere come, oggi ed in Italia, esista la competizione ma non ancora la trasparenza nei mercati finanziari.
E, proprio per questo, guardare alla gestione ed alla valutazione del rischio risulta esercizio assai diverso se viene realizzato dalla prospettiva in cui esso viene osservato dalla banca o da quella che deve utilizzare l’impresa.


3. Dal governo della ripresa alle riforme possibili: il federalismo fiscale

Una attenzione particolare è stata dedicata a Cernobbio al tema del riordino, in chiave federale, dell’amministrazione pubblica e delle giurisdizioni di governo, in direzione di un rafforzamento del processo federalista. Anche il federalismo, nel senso improprio di un decentramento amministrativo e di una definizione territoriale ristretta dei poteri di indirizzo politico sulla macchina amministrativa, può e deve essere considerata una delle forme che assume, nella stagione della globalizzazione, la disintegrazione politica di cui abbiamo accennato in premessa. La futura frontiera a medio termine del federalismo – una riorganizzazione della macchina della pubblica amministrazione e delle regole di governo politico che la dovrebbero indirizzare – sembra essere comunque il federalismo fiscale. Chi governa la produzione dei servizi pubblici in periferia incassa anche il gettito fiscale che quella produzione dovrebbe finanziare. E risponde di entrambi: gettito e qualità delle prestazioni.
L’applicazione di questi principi, sic stantibus rebus, non sembra un traguardo accettabile per il Mezzogiorno italiano.
Facciamo un piccolo esercizio aritmetico. Nel Sud risiede un terzo della popolazione italiana ma si produce solo un quarto del prodotto interno lordo. Esiste uno squilibrio strutturale tra dimensione demografica e dimensione economica del sistema. Infatti si ritrova nel Sud circa la metà dei disoccupati italiani: sia quando la congiuntura ristagna che quando tira. Fatto uguale a 100 il reddito procapite in Italia, quello del Mezzogiorno si colloca a quota 70 e quello del Centro-Nord a quota 120.
Nel primo semestre 2006 la Banca d’Italia misura il volume delle entrate fiscali sul pil pari al 43% e quello della spesa pubblica al 46%.
Semplificando le cose – ma senza rinunciare ad un ragionevole grado di realismo – immaginiamo che la spesa si ripartisca secondo la popolazione e che le entrate si debbano ripartire in proporzione al reddito.
La macroregione del Mezzogiorno, somma di tutte le regioni meridionali, disporrebbe del 10,75% del pil, come entrate, e dovrebbe spenderne, per produrre servizi pubblici, il 15,18%. Avrebbe un deficit annuale pari ad oltre 4 punti di pil che, in valore assoluto, sarebbe nell’ordine dei 66 miliardi di euro. Sembra chiaro, anche se le misure del problema si possono prendere meglio, come un paese tanto disuguale sul piano della struttura economica non possa ridistribuire entrate e spese senza creare anche un meccanismo correttivo che trasferisca al Sud una parte del reddito prodotto, ed incamerato a titolo fiscale, nel resto d’Italia.
Ma questo non è l’unico problema con cui fare i conti.
Le imposte si pagano in proporzione al reddito ma le tasse e le tariffe, se il reddito medio dei meridionali è così distante dalla media italiana e dai livelli del nord ovest, hanno un chiaro effetto regressivo: assorbono cioè quote crescenti del reddito personale, nel Mezzogiorno.
Non è detto, inoltre, che a parità di costo finanziario dei servizi pubblici la prestazione reale sia identica, al Nord come al Sud.
La dimensione, e la dinamica, dei deficit che maturano nella sanità, dal Lazio andando verso il Sud, unite alla generalizzata insoddisfazione per le prestazioni ricevute, ci fanno pensare che la relazione tra costi e qualità delle prestazioni pubbliche sia, nel Mezzogiorno, sproporzionata negativamente per le prestazioni.
Da ultimo, non sembra, eccellente, in assoluto e non solo per il settore sanitario, la capacità di spendere delle regioni meridionali.
La Ragioneria dello Stato ci dice che, per i trasferimenti finanziari provenienti dall’Unione Europa nel periodo 2000/2006, le regioni meridionali abbiano speso al 31 dicembre 2006 solo 18 dei 32 miliardi di euro a loro disposizione, il 57%.
Le regole di utilizzo per i programmi europei affermano che, nel 2007 e nel 2008, si debbano completare e collaudare le opere realizzate con quei fondi: attività che dovranno essere svolte nei prossimi venti mesi in parallelo con la spesa di altri 14 miliardi di euro.
Altrimenti quelle disponibilità saranno inutilizzabili e dovranno essere rimborsate alla Commissione Europea.
La contabilità europea non ammette, giustamente, l’accumulo di residui. Ricapitolando, il federalismo fiscale incontrerebbe nel Mezzogiorno tre ostacoli difficili da superare: la definizione, condivisa tra Nord e Sud, di criteri per la creazione e la gestione di un fondo perequativo accettabile; la capacità operativa delle autorità locali nel gestire la spesa mantenendo adeguati livelli di qualità in termini reali e non solo rispettando uno standard di costi finanziari assegnati; la difficoltà, in un’area a basso reddito, di integrare gli investimenti pubblici con la finanza di progetto, non potendo proporre ad utenti troppo poveri di pagare una quota dei servizi pubblici e dell’utilizzo delle infrastrutture.
Forse le regioni meridionali, essendo troppe e troppo piccola ciascuna di esse, dovrebbero trovare una forma cooperativa che le opponga, come un tutto, al Governo centrale oggi e, domani, alla Padania ed alle regioni del Centro Italia. Forse dovrebbero rilevare dal Governo il controllo di un ramo di azienda di Sviluppo Italia, quello che si occupa di microcredito ed infrastrutture, e farla diventare una propria banca di sviluppo: magari chiedendo alle banche, che agiscono nel Sud, di entrare, per una quota, nel capitale di questa istituzione per il governo della produzione ed il finanziamento delle reti e dei servizi pubblici. Forse una simile svolta ci preparerebbe meglio a due eventi certi: la creazione dell’area di libero scambio nel Mediterraneo (2009) e l’ultimo ciclo, quello 2007/2013, delle politiche di coesione e crescita finanziate dall’Unione Europea. Forse, tutto questo rappresenterebbe uno stimolante laboratorio per la trasformazione della pubblica amministrazione, la crescita economica del Sud e la nascita di un vero regime di sviluppo endogeno – guidato consapevolmente da parte della classe dirigente locale – nel Mezzogiorno.


4. Una nota conclusiva sugli sviluppi potenziali dei temi sollevati a Cernobbio: una nuova politica economica per il Sud che sia anche un esperimento utile per rinnovare quella italiana

Quanto al declino alle nostre spalle e al tesoretto di Padoa Schioppa da dividerci, tornano le cicale dopo il trionfo pessimista delle formiche? Torna il
mito della distribuzione del reddito senza la preventiva verifica della capacità di produrlo? Troppo facile vedere nello swing di queste montagne russe lo spettro della propaganda (prima e dopo la campagna elettorale).
Ci deve essere una ragione più profonda per spiegare un simile sbalzo di umore e di percezione. La spiegazione di questo ribaltamento cognitivo, insomma, potrebbe venire dalla stessa fonte che giustifica oggi quanto inaspettata ed “invisibile” sia stata la ripresa del 2006.
Insomma, non si offenda Scalfari, ma sembra che questa volta abbia ragione proprio il “cattolico” De Rita. Questa ripresa non è stata avvistata in tempo perché nasceva fuori della relazione che governa le azioni collettive: quella tra Governo e Popolo 11. Sono piccoli gruppi, guidati da logiche assolutamente singolari, quelli che hanno messo mano alla riorganizzazione delle medie imprese italiane avendo come punto di riferimento i mercati internazionali. Sono scelte singolari, quelle dei manager come Sergio Marchionne, che hanno tirato fuori la Fiat dalla pesante eredità del Fordismo combinata con la ragnatela tra politica, affari e potere diffuso, ben oltre il perimetro del mercato.
Il problema che si pone oggi, insomma, non è congedare il declino per inventare qualche alchimia che trasformi la ripresa in crescita. Un quesito quasi ontologico, essendo la fenomenologia della ripresa la crescita.
Il problema è capire se la nostra economia possa espandersi stabilmente in parallelo con una sorta di schizofrenia nei consumi e nella produzione.
Il successo del made in Italy coincide con la vendita dell’Italian Style ai nuovi ricchi del mondo e si fonda, opportunamente, sul decentramento dei processi lavorativi elementari altrove e la concentrazione in Italia di quelli complessi, come la progettazione ed il coordinamento di quelli elementari. Si può immaginare un paese in cui le imprese producono beni e servizi che la maggioranza della popolazione non riesce a comprare e nel quale la maggior parte dei lavoratori viene impiegata nelle unità periferiche di grandi multinazionali dei servizi – come nel caso della grande distribuzione e, tra poco, delle banche – oppure in segmenti marginali e lenti del sistema economico?
La storia economica spiega ad oltranza che, se ognuno si specializza in una produzione lo scambio genera vantaggi per entrambi: pensate al vino portoghese ed ai prodotti tessili inglesi nel Settecento. Il grande mercato europeo, da questo punto di vista, è un driver forte della espansione.
Ma quelle erano filiere nazionali ed il commercio era tra nazioni; oggi la filiera vive di scambi tra paesi in cui sono installati segmenti del processo produttivo. L’economia meridionale somiglia troppo a quella dei new comers europei ma non gode dei vantaggi competitivi, in termini di costo del lavoro, flessibilità del cambio e bassa pressione fiscale, di cui essi dispongono. Le regole di Reggio Calabria sono come quelle di Amburgo ed è difficile, in queste condizioni, essere all’altezza della competizione. Affiora, in definitiva, una patologia tutta italiana. Un paese troppo eterogeneo al suo interno decide di unificarsi ma crea una oggettiva dipendenza degli attori deboli dai trasferimenti di spesa, alimentati dal prelievo fiscale su quelli forti ed integrati nell’economia europea.
La macchina pubblica, che doveva garantire la efficacia dei trasferimenti tra industria pubblica ed industria privata come tra Sud e Nord, si corrode e si corrompe progressivamente. Ad un certo punto il costo di questa macchina non trova corrispettivi. Cede il vecchio sistema. Ma la presunta palingenesi degli anni Novanta non è in grado di rimediare al tracollo. Nasce la percezione del declino: nel senso che non esisteva più, prima di mani pulite, una guida coerente ed efficace dell’azione collettiva. E non esiste neanche dopo quel trauma. Il declino non è la fine dell’impero romano ma solo l’effetto di una frattura tra Istituzioni e Popolo che compromette l’efficacia dell’azione collettiva. Che non si sana neanche applicando il bipolarismo all’italiana. Non ci è riuscito il centrodestra ma anche il centrosinistra accusa difficoltà con gli assetti organizzativi ed i contenuti programmatici di cui dispongono attualmente i due fronti.
La partita è ancora tutta da giocare: il mercato internazionale ha eccitato gli spiriti vitali di alcuni imprenditori ma, ora, questa vitalità deve diventare un dato diffuso nel paese e non un tratto di successo che segnala i migliori, condannando la maggioranza degli italiani alla marginalità rispetto alle luci dello star system. Il fatto è che il mondo è cambiato e non si possono applicare i vecchi paradigmi del compromesso keynesiano, in cui eccelleva la Democrazia Cristiana, od il sogno della programmazione, monopolio dell’intelligenza socialista. La politica conta meno ma deve dare risultati ancora più affidabili se vuole conquistarsi il consenso che alimenta la sua capacità di incidere sulla intensità dei cambiamenti. Se i cambiamenti non convincono le resistenze diventano insormontabili e molte istituzioni, dal sindacato agli enti pubblici, si arroccano in difesa ed ostacolano il cambiamento. Troppi tavoli di concertazione, se non c’è davvero voglia di mettere in gioco l’esistente, sono un problema e non la sua soluzione 12.
Esistono, in altre parole, almeno due terreni sui quali occorre ripensare la relazione tra istituzioni e crescita, tra governo dell’azione collettiva ed impatto degli effetti generati dall’azione stessa sul tasso di crescita del sistema economico.
Il primo riguarda il superamento della ipertrofia assunta dalla pratica della concertazione, della negoziazione tra la rappresentanza di ceti ed interessi con i poteri tradizionali della democrazia rappresentativa come unica fonte di legittimazione sostanziale delle scelte in tema di politica economica.
Il secondo riguarda la ricerca di una soluzione idonea e speciale per affrontare il problema, inedito e particolare, di una questione assai originale: il dualismo dell’economia, e della società, italiana tra il Nord ed il Sud del paese.
Partiamo da questo secondo problema perché la individuazione di una strada per il suo superamento potrebbe rappresentare un caso particolare, da utilizzare per arrivare ad una formulazione più generale sulle strade idonee al superamento di una situazione asfittica che riduce, oggi, la politica economica
alla mera dimensione della concertazione di politiche redistributive tra interessi sociali organizzati, governi locali e governo centrale del paese.
Secondo l’impianto del documento 13 licenziato dal Governo e consegnato alla Commissione Europea il quarto ciclo delle politiche di coesione dovrebbe collegare le politiche di bilancio regionali a quelle territoriali e gestire la creazione di trasporti ed infrastrutture in relazione agli obiettivi complessivi di crescita nelle regioni economicamente sottoutilizzate del nostro paese.
Il QSN individua quattro direttrici prioritarie nel periodo 2007/2013: trasporti e mobilità; supporto della capacità di competere all’industria; promozione e valorizzazione del rapporto tra ricerca applicata ed imprese; utilizzazione sostenibile delle risorse ambientali.
L’insieme di queste quattro priorità assorbirà il 63% delle risorse disponibili: i miliardi di euro di cui ha parlato Romano Prodi a Caserta nel corso di una riunione del Governo dedicata a questi problemi, tenutasi nei primi mesi del 2007. Se si aggiungono i fondi dedicati a rendere più competitivi i sistemi urbani si arriva al 70% del totale.
Il precedente ciclo di politiche europee, in particolare quelle realizzate attraverso i PIT, è stato considerato troppo frammentato e, per questo motivo, generatore, tra l’altro, di un rilevante sfasamento tra la formazione degli impegni e la spesa effettiva realizzata: per la segmentazione eccessiva dei processi di esecuzione, monitoraggio e controllo che derivavano proprio da quella frammentazione.
Il problema da risolvere rimane quello di un impianto organizzativo e funzionale più efficace nella realizzazione delle politiche di sviluppo.
Un impianto che sia capace di collegare la dimensione della rappresentanza degli interessi in gioco con quello della realizzazione e del controllo dei progetti selezionati. Trovando un potente fattore correttivo all’anomalia rilevata nell’esperienza dei PIT: lo scollamento tra la sede della partnership sociale e della concertazione (il PIT) e quella della realizzazione e del controllo dei progetti selezionati (la macchina amministrativa ed il sistema degli assi e delle misure in cui si ripartisce il POR).
Il diverso modello organizzativo potrebbe essere ricavato dalla lezione implicita nell’ingegneria istituzionale europea. Ne abbiamo già fatto un rapido
cenno nel paragrafo precedente, ipotizzando la nascita di una banca regionale di sviluppo che accompagni la fragile economia meridionale, oggi dipendente in maniera eccessiva dai trasferimenti pubblici, verso un regime di mercato, che dominerà il Mediterraneo quando, dopo il 2009, si aprirà al suo interno un’area di libero scambio.
La Commissione, infatti, agisce come una sorta di agenzia tecnica per la realizzazione ed il controllo delle politiche, l’indirizzo delle quali viene indicato dal Consiglio dei capi di Stato e di Governo o dai consigli di ambito (Ecofin per le materie finanziarie e monetarie, ad esempio).
Le regioni dell’obiettivo uno, dunque, dovrebbero creare un Consiglio dei presidenti, che governi l’indirizzo relativo ai progetti infraregionali che abbiano valenze relative alla creazione di reti per il capitale fisso sociale ed o il capitale umano e relazionale.
Questi “grandi progetti” andrebbero affidati alla realizzazione, ed al controllo, di un’Agenzia o di un segretariato tecnico che, nel caso avesse personalità patrimoniale e giuridica, potrebbe essere aperto alla partecipazione delle regioni stesse, ed a quella di intermediari finanziari, nel proprio capitale. Assumendo le vesti di una vera e propria banca regionale, nel senso della macroregione meridionale nel suo complesso, di sviluppo, sul modello delle banche regionali promosse dalla World Bank.
Regione per Regione, inoltre, non andrebbe redatto un piano operativo regionale (POR) ma andrebbe solo progettato, e gestito, un archivio dei progetti potenziali, ordinato con criteri legati alla realizzabilità ed alla valutazione economica degli stessi, da finanziare secondo un ordine di priorità e secondo la disponibilità dei fondi rinvenienti non solo dalle politiche europee ma anche da altri finanziatori, pubblici o privati.
Questa selezione dei progetti andrebbe affidata alle giunte ed ai consigli regionali ed i progetti andrebbero catalogati in relazione alle priorità indicate, a scala nazionale, dal QSN.
Gli enti pubblici territoriali, Comuni e Province, andrebbero associati alla selezione dei progetti ma la realizzazione ed il controllo della stessa andrebbero delegati ad agenzie territoriali, dotate di patrimonio e personalità giuridica, oltre che di un team di carattere professionale, alle quali finirebbe per essere attribuito anche il mandato di stazione appaltante dei progetti stessi. Come accadeva nei casi delle sovvenzioni globali o dei patti di seconda generazione: soluzione organizzativa che sembra avere avuto sul campo il massimo di efficacia e di efficienza. Ed è stata iterata, anche nella stagione dei PIT, in quei territori che ne avevano sperimentato i vantaggi e la qualità operativa.
In effetti la concertazione, purché rinunci ad una generalizzata invasività del terreno delicato che congiunge e separa il governo politico dalla gestione operativa degli investimenti pubblici, dovrebbe indicare la dimensione e la qualità dei bisogni e condividere l’impianto strategico delle soluzioni perseguite. Mentre la valutazione e la gestione dei singoli progetti di investimento andrebbero affidate a tecnostrutture responsabili del contenuto e dei risultati dei progetti stessi.
Un simile processo organizzativo, tenta di dividere la responsabilità che deriva dall’esercizio delle scelte di politica economica da quella che deriverebbe dalla gestione dei progetti puntuali che, di quelle politiche, rappresentino la realizzazione, caso per caso. Esso può essere considerato come una sorta di prototipo od almeno uno studio di caso.
Veniamo così alla individuazione di un percorso logico capace di aggirare e superare il problema posto dalla invasività eccessiva della concertazione. Senza rinunciare, tuttavia, alla ricerca di un esercizio legittimo del potere necessario a governare l’azione collettiva, con cui si intende avviare e gestire la crescita, di una nazione o di una regione, l’economia della quale ricada ormai nella dinamica contemporanea della globalizzazione. Sottraendosi, di conseguenza, ai modelli consolidati delle politiche utilizzate nel corso del ventesimo secolo, quando perimetro amministrativo dello Stato e confini economici del mercato coincidevano largamente tra loro. Non è questa la sede per generalizzare questo modo di ragionare. Basta ricordare che la crescita rappresenta, in ogni caso, un cambiamento e che la redistribuzione della ricchezza aggiuntiva consente un ragionevole equilibrio tra gli interessi costituiti e quelli alla ricerca di una propria affermazione aggiuntiva. Quando viene meno la opzione offerta dalla creazione di nuova ricchezza è molto difficile conciliare consenso e cambiamento. E quando la politica economica si riduce alla mera redistribuzione, anche attraverso strumenti di tipo fiscale, della ricchezza esistente viene esclusa, per definizione, la eventualità che si venga a creare nuova ricchezza. Il trauma subito dall’economia italiana nella prima metà degli anni Novanta fu originato da due componenti: drastica compressione della spesa pubblica, in particolare di quella destinata – ma ormai utilizzata assai male – alla chiusura del divario tra Nord e Sud e radicale svalutazione del cambio. La deflazione e la svalutazione hanno compromesso certamente il tasso di crescita dell’economia nazionale mentre le imprese italiane hanno incontrato, nel trapasso al nuovo secolo, l’ulteriore ostacolo di una difficile integrazione con il processo di globalizzazione.
Superata questa lunga parentesi in assenza di crescita, le medie imprese italiane ritrovano oggi, in parte, la capacità di espandersi sui mercati internazionali. Ma il Mezzogiorno, fragile e dipendente, in assenza di crescita non ha avuto alcuna opportunità di riprendere il proprio processo di integrazione. Si deve ora certamente ricostruire un sistema di istituzioni capaci di supportare il change over dell’economia meridionale dalla dipendenza dalla spesa pubblica all’integrazione nel mercato globale.
Questa operazione, tuttavia, non sarà mai compitamente realizzabile se l’Italia intera non ritrova un ragionevole equilibrio tra azione collettiva ed istituzioni capaci di governarne la crescita. Chiudendo la frattura tra istituzioni, pubbliche e private, ed interessi diffusi che le politiche di concertazione hanno, paradossalmente, cristallizzato negli anni alle nostre spalle, anche in ragione della lunga stagione deflattiva che abbiamo dovuto attraversare. Chiudere questa frattura comporta un difficile esercizio di ingegneria istituzionale: conciliare l’esigenza di progettare e realizzare credibili politiche economiche a supporto della crescita con quella che, nel gergo della politologia, viene chiamata “democrazia della prossimità”, intendendo in questa classe di soluzioni tutte le variazioni possibili sul tema dell’autogoverno locale, il decentramento amministrativo e lo snellimento delle procedure, ad ogni livello dell’amministrazione. Si tratta, come è chiaro, di un insieme di tecniche che cerca di realizzare un argine all’indebolimento della rappresentanza elettorale che nasce dalla disintegrazione della politica, considerata, come si è detto prima, una fenomenologia ricorrente della crisi dello Stato nazionale nel mondo della globalizzazione. È vero che gli Stati nazionali non possono più utilizzare né modelli keynesiani di controllo del mercato domestico né schemi, più o meno attenuati, di programmazione e pianificazione amministrativa.
Ma è anche vero che sono possibili forme di partnership tra pubblico e privato o processi regolatori della dinamica economica, che consentono di collegare, in una catena di strumenti e risultati, investimenti pubblici, creazione di esternalità per gli attori privati, aumento degli investimenti da parte degli attori privati e, di conseguenza, chiusura dei divari di crescita con altre aree o regioni più sviluppate di quelle destinatarie degli interventi di politica economica.
La “democrazia di prossimità”, al contrario, eccita quella dimensione della politica economica che si traduce in interventi che abbiano finalità di equità sociale. I fondi disponibili non vengono impiegati per creare strumenti capaci di ottenere risultati espansivi. Essi vengono distribuiti secondo il censimento dei bisogni espressi dalla valutazione, concertata tra governi locali e rappresentanze organizzate degli interessi sociali. Ma in questo modo gli strumenti diventano per se stessi una sorta di risultato, rispondono ai bisogni dei destinatari individuati dalle procedure di concertazione. Non rispondono alla logica che dovrebbe generare risultati in termini di esternalità ed, in via mediata, attivare effettivamente nuovi investimenti privati, che eccitino il tasso di crescita delle aree, nazionali o regionali, destinatarie delle politiche economiche.
Solo questa effettiva dinamica economia reale potrebbe, successivamente, tradursi in una maggiore giustizia sociale attraverso le tecniche della redistribuzione, fiscale o tariffaria, da parte della pubblica amministrazione e dei governi locali che la controllano.


NOTE


1 Giuseppe De Rita ha il merito di aver aperto questa linea di indagine eterodossa sulla “nostalgia del declino”. Si vedano molti dei suoi recenti contributi sulla stampa quotidiana negli ultimi mesi. In particolare: La scomparsa dell’azionista, una intervista rilasciata a Roberta Carlini, apparsa su «Il Manifesto», 16 febbraio 2007; Nostalgie segrete del declino, un articolo pubblicato da il «Corriere della Sera», 20 febbraio 2007; Dinamici o Inerti, il bipolarismo è tutto qui, una intervista rilasciata ad Aldo Di Lello ed apparsa su «Il Secolo d’Italia», 10 marzo 2007. Più in generale si veda l’analisi apparsa nell’ultimo Rapporto Censis, relativo alle dinamiche osservabili nel 2006, sulla società italiana.^
2 Si veda S. Cassese, Oltre lo Stato, Roma-Bari, Laterza, 2006.^
3 Le modificazioni intervenute nella struttura del commercio internazionale, ed il ruolo dei paesi new comers, rispetto ai membri consolidati dell’Unione Europea, sono esposte più analiticamente in C. Imbriani e M. Lo Cicero, Gli effetti dell’allargamento dell’Unione Europea; Politiche industriali compatibili e disuguaglianze strutturali, in «Rivista di Politica Agricola Internazionale», 2 (2003), n. 2, Edizioni l’Informatore Agrario.^
4 Osserva P. Savona su «Il Mattino», 15 aprile 2007, che, fino a quando il debito pubblico sarà superiore al 100% del prodotto interno lordo, un deficit annuale inferiore al 3% del pil è interamente giustificato dagli interessi sul debito se il tasso nominale è superiore o pari al 3%. Questa è una condizione aritmetica che si traduce in una politica “forzata”: comprimere le spese di investimento in infrastrutture, finanziate dal settore pubblico, perché sono rigidi gli impegni di spesa corrente – salari, pensioni e sussidi individuali o forniture funzionali per le amministrazioni – ovvero aumentare la pressione fiscale per incrementare il gettito, e ridurre il deficit annuale. Ma, in questo modo, dopo avere rinunciato alla sovranità monetaria, adottando l’euro, si deve rinunciare anche allo strumento fiscale e, francamente, non si capisce quale potrebbe, o dovrebbe, essere la chiave di volta di una politica pubblica amica della crescita. Si potrebbe azzardare che lo spazio potenziale per gli investimenti pubblici in infrastrutture si riduca alla sola dimensione dei fondi per le politiche di coesione e crescita messi a disposizione dall’Unione Europea ma finanziati dai singoli Stati, cioè coperti dalla tassazione nazionale. In questo caso, per l’Italia, essi diventerebbero tragicamente “ordinari” e sostitutivi dell’intervento, speciale ed aggiuntivo, che sarebbe necessario al nostro paese per aggredire un problema assolutamente peculiare di crescita: la riduzione del divario tra le due Italie, il Nord ed il Sud. Si veda P. Savona, Tesoretto per il debito, in «Il Mattino», 15 aprile 2007.^
5 Un economista, senior economic advisor per il sistema della Federal Reserve e professore di economia nella Arizona State University, che ha vinto il premio Nobel per l’economia nel 2004.^
6 Si vedano i materiali interni distribuiti al convegno ed, in particolare E.C. Prescott, The International Economic Outlook, mimeo, 17 marzo 2007. Ma anche Why Do American Works More than Europeans? in «The Wall Street Journal», 21 ottobre 2004; The European Disease, in «The Wall Street Journal», 8 febbraio 2006 e Five Macroeconomics Myths, in «The Wall Street Journal», 11 dicembre 2006.^
7 Si veda R. Prodi, Lettera Aperta su il «Corriere della Sera», 13 aprile 2007. Si veda anche una inconsueta intervista di Mario Baldassarri, economista, allievo di Andreatta e vice ministro per l’economia nel precedente Governo Berlusconi, raccolta da Myrta Merlino per «Il Mattino», 14 aprile 2007, assimila questa apparizione del “tesoretto” ad un falso in bilancio – quasi “false comunicazioni sociali”, se si discutesse in termini di diritto commerciale e non di amministrazione dello Stato – perché il Governo, essendo consapevole dell’esistenza di queste somme, le avrebbe volutamente ignorate nella predisposizione della legge finanziaria per il 2007, e, prima ancora, durante la ricognizione dei conti pubblici effettuata al suo insediamento. Il tutto per supportare una visione pessimista della finanza pubblica, che fosse coerente con l’impianto della legge finanziaria, assai impegnativa sul terreno dei volumi di fondi assorbiti (oltre il 2% del pil), che il medesimo Governo si accingeva a presentare. ^
8 Si ricordi, tuttavia, che negli Stati Uniti, il primo paese che crea una istituzione antitrust, essa è una divisione indipendente del Dipartimento di Giustizia e che, naturalmente, l’ordinamento giudiziario degli Stati Uniti è diverso da quello dei paesi continentali europei.^
9 Si vedano anche due lavori recenti di Rullani: La nuova economia dell’immateriale, in «Economia dei Servizi», in «Il Mulino», numero 1 (2006); Intelligenza terziaria e sviluppo economico: dalla prima alla seconda modernità, in Aa.Vv., Il terziario motore dell’Economia, Milano, Franco Angeli, 2005.^
10 Si tratta di J. Sanderson, Executive Director Center for Research on Chinese & American Strategic Cooperation at The University of California, Berkeley. Nei materiali del Forum Ambrosetti si può leggere la sua presentazione: J. Sanderson, China’s Scenarios and its Impact on Global, mimeo, 16/18 marzo 2007.^
11 Subito dopo il Forum di Cernobbio si è svolto, sulle pagine de «la Repubblica», una sorta di botta e risposta tra E. Scalfari e G. De Rita sulla relazione tra religione, cultura e comportamenti politici del nostro paese. Si vedano G. De Rita, Noi cattolici ed i falsi profeti della modernità, 17 marzo 2007 ed E. Scalfari, Se i laici porgono l’altra guancia, 18 aprile 2007.^
12 Si vedano il lucido articolo di L. Spaventa, Il Tavolo che manca, in «la Repubblica», 16 marzo 2007 ed, ancora una volta, G. De Rita, Politica ed Associazioni, Chi rappresenta chi, in il «Corriere della Sera», 28 febbraio 2007.^
13 Ci riferiamo al Quadro Strategico Nazionale, QSN, che indica l’impianto della politica per lo sviluppo delle regioni meridionali e, quindi, per il superamento del divario tra le due aree del paese. Il documento ed i suoi allegati si possono consultare nel sito web http://www.dps.tesoro.it/qsn/qsn.asp.^
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