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Le pasque di sangue e l'Europa
di Paola Paumgardhen
LE PASQUE DI SANGUE E L’EUROPA
Omicidio rituale: mito o rito? Terminus
a quo, cioè racconto di fondazione
dal quale ha origine la ricezione, o al contrario
terminus ad quem, cioè evento al
quale poter risalire con l’analisi storica e
perciò documentabile? Il tentativo, che
può dirsi temerario, di Ariel Toaff, professore
di storia del Medioevo e del Rinascimento
alla Bar-Ilan University in Israele,
di fare «un’analisi non reticente» della
leggendaria «accusa del sangue» nel suggestivo
e sconcertante libro-inchiesta
(Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi
rituali, Bologna, il Mulino, 2007, pp.
366), ha riaperto nello scorso febbraio il
dibattito sull’atroce capo di imputazione
contro gli ebrei che per tutto il Medioevo
aveva fornito la presunta “prova legante”
per aprire la caccia all’ebreo e avrebbe
agito come fatale e tenace stereotipo nella
propaganda dell’antisemitismo razzista
e nazista ed oggi in quello arabo. Alla lettura
alternativa, o quanto meno non univoca
o unilaterale di Toaff, ha corrisposto
immediatamente una violenta affollata
polemica di stampa sull’ancestrale ed intramontabile
calunnia di omicidio rituale.
Che la ricerca storica di Toaff nella comunità
ebraica italiana, ma anche statunitense
ed israelitica, non sia risultata politically
correct è fuor di dubbio, visto che
il testo-scandalo sul blood libel con le pagine
ancora fresche d’inchiostro, dopo
un tempestivo autodafè mediatico, è stato
momentaneamente «congelato» dallo
stesso autore e dalla casa editrice il Mulino.
Eppure tra scalpore e curiosità l’eretico
libro ha tracimato prepotentemente
l’alveo d’interesse degli “addetti ai lavori”
ed ha conquistato – certo solo per poco
– la vertiginosa cima della book parade
italiana. Come dire che questa volta si è
aperta una vera e propria caccia al libro:
la prima edizione (circa 3.000 copie) è andata
a ruba prima ancora che gli attesi
esemplari fossero accomodati sugli scaffali
delle librerie. A giudicare dall’odierna
“quotazione in borsa” per un prezzo
“amatoriale” di oltre 300 euro a copia su
“ebay”, il libro è, a dispetto dei suoi tanti
detrattori, un indiscusso cult2.
Con la sua indagine, fondata come è
stato rilevato da numerosi studiosi su ipotesi
e non su prove, Ariel Toaff con innegabile
coraggio cerca di riportare alla luce
un mistero celato in fondo al pozzo
profondo della storia: l’infanticidio rituale,
un mito cruento che è stato divulgato
in due versioni altrettanto aberranti, dapprima
nella forma della «crocifissione rituale
», poi nella macabra variante del
«cannibalismo rituale»3.
Bisogna intanto ricordare che in ogni
paese e ad ogni latitudine ritroviamo l’accusa
di omicidio perpetrato per fini magici
o malefici. La funzionale favola ha
origine dalla pratica, un tempo universale,
dei sacrifici umani: abbandonata ed
esecrata, la criminosa usanza d’ispirazione
magico-pagana venne in seguito, con
dissimilazione rivelatrice, ascritta all’altro,
al nemico, all’eretico. L’accusa di assassinio
rituale nei tempi antichi fu rivolta
dai greci agli ebrei, dai romani ai primi
cristiani, dai cristiani ai seguaci delle sette
degli gnostici e dei montanisti. Si tratta,
dunque, di un tema universale, ormai
di un vero e proprio archetipo, che riaffiora
ogni qual volta una società si confronta
con stranieri conturbanti e odiati.
Sul banco degli imputati di omicidio rituale
per secoli è stato seduto lo straniero
per eccellenza, l’ebreo, contro cui sono
stati pronunciati, salvo rare eccezioni, efferati
verdetti di condanna per il crimine
di infanticidio rituale. Il mitologema, cioè
lo schema nucleare di un mito a cui afferiscono
poi le varie forme che il mito assume
– perché di questo si tratta – nasce
nel I secolo a.C. ad Alessandria, il più intenso
teatro dell’antigiudaismo pagano4.
Gli strali della «calunnia malvagia» si irradiano
inarrestabilmente dai testi di una
letteratura parenetica tendenziosamente
antisemita, ad opera di due infervorati
polemisti antiebraici, Damocrito e Apione,
che descrivono gli ebrei come genti
barbare, «odiatori del genere umano»5,
inclini all’onolatria ed a truculente cerimonie
sacrificali, in cui ammazzano ed
immolano i nemici greci6. La testimonianza
di Apione presenta dettagli vieppiù
raccapriccianti, in quanto alla già inquietante
accusa di omicidio rituale è
correlata quella ancor più brutale di
«cannibalismo rituale», che avrebbe a
lungo ossessionato l’immaginario collettivo
greco-romano. Si tratta, tuttavia, di
versioni ancora «anemiche»7 del cruento
rito, in cui non compare la necessità del
sangue, che sarebbe divenuto il tropo
centrale dell’accusa (si parlerà di ematofagia
rituale) a partire dal Medioevo.
Toaff, pur non sconfessando il potere
pervasivo dei miti nelle indagini storiche,
conduce la sua impervia ricerca prestando
«la dovuta attenzione a quelle concezioni
che rendevano plausibile l’omicidio
rituale all’interno di contesti storici e locali
particolari»8, in area ashkenazita9 e
non sefardita10, come viene puntualizzato,
cercando di rintracciare l’«eventuale
presenza di credenze ebraiche negli infanticidi
rituali, legati alla celebrazione
della Pasqua, ricostruendone i significati
»11. L’angolo di riflessione dello storico
si fissa sulle realtà concettuali, sui riti, sulle
prescrizioni liturgiche “effettivamente”
esistenti all’interno di un mondo
ebraico particolare, quello ashkenazita,
un mondo ebraico-germanico percorso,
come nota Toaff, da tracce di magia popolare
che hanno contaminato l’antica
Legge ebraica e permeato pure di elementi
tipici della cultura cristiana che ricorrono
modificati e talora sovvertiti nelle
credenze ebraiche12. Secondo il medievista,
più inquietante della venefica letteratura
antisemita degli egiziani per una
«conferma indiretta del fenomeno»13 dei
sacrifici rituali basati sulla sacralità del
sangue, sarebbe un riferimento individuabile
nella prima edizione a stampa del
Talmud pubblicata a Venezia nel 1521, in
cui viene usato il verbo ebraico shachat
(«scannare», «uccidere» secondo le regole
della «macellazione rituale» ma anche
«immolare»14, nel caso è collegato ai sacrifici)
per descrivere un infanticidio a
scopo di lucro perpetrato in una famiglia
ebraica «alla vigilia di Pesach»15. Un particolare
talmudico davvero significante
per avvalorare la «calunnia malvagia», di
cui, osserva Toaff, neanche i polemisti
cristiani si sono avvantaggiati, probabilmente
solo per scarsa conoscenza dei testi
talmudici e dell’ebraico16.
Se è vero che già nel IV secolo il padre
della chiesa, san Giovanni Crisostomo,
il maggior esponente dell’antigiudaismo,
nelle sue feroci invettive contro gli
avidi e perfidi ebrei, dipinge i figli d’Israele
come gente feroce che immola la
progenie alle forze del maligno, si può asserire
che fino ai pesanti assalti di Agobardo
da Lione nel IX secolo non si rinviene
traccia di tale imputazione nell’Occidente
cristiano. Questa avversione contro
gli ebrei infanticidi rituali sembra originarsi
sull’onda antigiudaica durante le
Crociate17. Tra il 1141 e il 1150 la calunnia
di omicidio rituale nasce spontaneamente
in luoghi diversi e in forme differenti,
che si intrecciano tra loro e generano
infinite variazioni mitologiche. La storia
delle persecuzioni antiebraiche nell’Europa
cristiana si tinge del colore vermiglio
del sangue della menzogna e di
quello delle sue vittime innocenti, un calvario
atroce, che fece meritare al continente
l’appellativo ebraico di ‘emeq habakhà,
«la valle del pianto»18.
Secondo le “cronache” del tempo gli
ebrei usano comunemente il sangue di
un bambino cristiano per impastare il
matse, il pane azzimo pasquale. Il tema
viene ricollegato alla solennità cristiana
della Pasqua, nel momento in cui all’interno
del mondo cristiano si afferma la
dottrina della transustanziazione, per cui
l’infanticidio viene recepito come una
reiterazione blasfema dell’assassinio di
Cristo (in carne o in effigie), cristallizzandosi
in un granitico e fatale stereotipo,
quello della crocifissione rituale. Il
pane azzimo ipoteticamente lavorato con
il sangue cristiano si trasforma in modo
grottesco in una sorta di pseudo-ostia
511
512
consacrata, riproponendo icasticamente
l’oltraggiosa scena del deicidio19. Di più
il sangue spillato dal crudele rito viene
destinato a fini magici prescritti da una
satanica farmacopea ebraica. Toaff dedica
un impressionante capitolo alle funzioni
magiche e terapeutiche del sangue
ricavate dalla lettura delle deposizioni
degli imputati per omicidio rituale. Il bisogno
del sangue di un infante cristiano
– così dicono le testimonianze, con buona
probabilità estorte, degli ebrei processati
– deriverebbe generalmente dalle
mirabili proprietà curative e prodigiose
del sangue giovane, un insuperabile coagulante,
che «adusto, essiccato e ridotto
in polvere»20 serviva «da emostatico di
straordinaria efficacia, quando veniva
applicato sul taglio della circoncisione»21
e, inoltre, guariva l’epilessia ed eliminava
l’insopportabile foetor judaicus22. Se da
una parte le testimonianze raccolte dallo
storico si riferiscono a resoconti di cristiani
o di ebrei apostati detrattori dell’ebraismo,
che potrebbero aver conferito
una tintura chimerica ai fatti, d’altra parte
esistono pure testi ebraici in cui vengono
enfatizzati i poteri emostatici e restrittivi
del sangue giovane, in specie sul
taglio del prepuzio. Lo scrittore parla di
passi della Cabbalah pratica, e segnatamente
di segullot, i prontuari di medicamenti
miracolosi, di raccolte di elettuari
prodigiosi e di antiche ricette segrete
composti nelle terre tedesche, che gli
ebrei si sarebbero trasmessi per generazioni
con trascurabili variazioni mediante
numerose ristampe dei taumaturgici
scritti23. Toaff conclude che la pratica degli
ebrei ashkenaziti di consumare pozioni
e medicamenti a base di sangue animale,
in stridente contraddizione con la
kasherut (la normativa ebraica sul cibo
che definisce il sangue la cosa più immonda
e proibita da un punto di vista alimentare),
viene attestata in modo inconfutabile
da «testi ebraici autorevoli e significativi
»24. Deve essere pur vero che la
credenza dei prodigiosi poteri terapeutici
del sangue era penetrata non solo nella
cultura ashkenazita, ma anche nel
mondo cristiano medievale. Nel poema
Il povero Enrico, databile intorno al
1195, opera del poeta e crociato Hartmann
von Aue, il giovane protagonista
Enrico, incarnazione dell’umanità cavalleresca
e cortigiana, nobile, bello, ricco
ed amato, improvvisamente si ammala di
lebbra. Dopo aver consultato numerosi
medici, cui ha offerto tutti i suoi averi,
Enrico, ancora ignaro che la sua sorte sia
unicamente nelle mani di Dio, viene a sapere
da un famoso medico della prestigiosa
Schola di Salerno, il più celebre
centro medico-terapeutico dell’Alto Medioevo,
che l’unico medicamento efficace
non è acquistabile: solo il sangue del
cuore di una vergine disposta a sacrificarsi
volontariamente per lui potrebbe
guarirlo25. Solo che il miracolo della guarigione
in questo poema cristiano può essere
operato esclusivamente da Dio e
non mediante un rito magico-pagano.
Enrico rinuncia al sacrificio della bella e
giovane figlia di un mugnaio quando accetta
la propria malattia come un volere
divino e concepisce la propria vita come
espiazione26.
Il primo caso documentato di blood
libel del Medioevo si registra a Norwich,
in Inghilterra, alla vigilia del venerdì santo
del 1144. L’omicidio rituale di un giovane
apprendista inglese, Jan William,
commesso – come si diceva – per irridere
la Passione del Salvatore, viene ricostruito
dopo qualche anno in un dettagliato
resoconto agiografico da Tommaso di
Monmouth, un monaco dalla fertile immaginazione,
che in realtà costruisce l’infamante
accusa sulla sabbia per elaborarvi
intorno il progetto di un nuovo santo.
La comunità ebraica inglese, bollata con
il marchio infamante dell’assassinio rituale,
viene espulsa dal paese nel 1290, tuttavia
l’ immagine dell’ebreo che si imbratta
le mani di sangue nell’atto di shachat
(di «scannare») turberà gli inglesi
molto tempo dopo la partenza degli
ebrei, sviluppando il cosiddetto fenomeno
dell’antisemitismo allo stato puro, dell’antisemitismo
in un paese ormai senza
ebrei27. Non è ritratto da un modello reale
il più spietato strozzino della letteratura
europea, l’ebreo shakespeariano Shylock28,
la cui figura malvagia – dell’usuraio
che stipula con il sangue del suo creditore
un “contratto di morte” – viene
animata dal soffio delle leggende malvagie
che i mercanti da tre secoli fanno circolare
in Inghilterra29. Ancora a fine Ottocento
il fantasma dell’ebreo “macellaio”
si aggira nei sobborghi orientali di
Londra, incarnandosi in un agghiacciante
serial killer, chiamato Jack lo Squartatore
o «grembiule di pelle»30.
In Germania, ancor prima del contributo
del priore Monmouth, la storia del
sacrificio del giovane di Norwich è già tristemente
nota. Da Würzburg a Endingen
a Colonia a Bacherach a Spira a Magonza
si accendono roghi per ebrei infantici. A
Fulda, invece – come rileva Toaff – nasce
un nuovo motivo, quello del «cannibalismo
rituale» che si affianca alla crocifissione
dei «putti» cristiani. Toaff indica negli
Annali di Marbach la fonte documentaria
da cui si apprenderebbe che gli ebrei
si sarebbero macchiati di omicidio rituale
plurimo «per servirsi del sangue come
propria cura»31. In entrambe le accuse di
«crocifissione rituale» e di «cannibalismo
rituale» si vuole enfatizzare la ritualità:
l’uccisione del bambino non va intesa come
un’efferatezza occasionale, in quanto
si tratterebbe di un rito collettivo del popolo
ebraico, ciclicamente celebrato (in
prossimità di Pesach) secondo la normativa
ebraica. Il lugubre tema viene aggravato
con un allarmante motivo che contiene
in embrione il mito dei Savi di Sion: la credenza
in una società ebraica segreta, conclave
di saggi che si danno convegno in un
sito misterioso per sorteggiare il luogo e
l’autore del sanguinoso sacrificio32.
L’aberrante storia delle «Pasque di
sangue» si spande a macchia d’olio anche
a Blois, in Francia, a Bruxelles, in Belgio,
a Trento, in Italia, di cui resta viva traccia
nella memoria cristiana con la santificazione
del martire Simonino33, cui ampio
spazio riserva il libro di Toaff. Ma sarebbe
fuorviante parlare di una comunità cristiana
schierata compatta contro gli ebrei.
Papi e sovrani intervengono per sostenere
l’ innocenza degli ebrei, ma la calunnia,
sostenuta dalle “confessioni spontanee”,
alligna troppo tenacemente nell’immaginario
popolare per poter svanire dalla
scena europea con le inefficaci “bolle”
promulgate a tutela degli accusati34.
Toaff srotola tutta la lunga sequenza
dei sanguinari episodi di infanticidio del
Medioevo, aggiungendo alla descrizione
e alle motivazioni dei riti ebraici lordi di
sangue cristiano, nuovi episodi di sacrifici
del giudaismo. Nella prima Crociata gli
ebrei, trasgredendo volutamente i passi
della Bibbia che vietano i sacrifici umani,
nella «Santificazione del Nome» immolano
i propri figli per sottrarli al battesimo
coatto a imitazione del sacrificio di Isacco
da parte di Abramo, riferito nel Midrash.
Lo storico illustra la rilevanza del
sangue nella celebrazione della Pesach, in
cui esso viene collegato al sacrificio dell’agnello
pasquale e della circoncisione di
Abramo, motivo per cui nel Seder il vino
e il pane azzimo diventano simbolo del
sangue versato dagli ebrei nell’Esodo e
del patto con Abramo. Nel Talmud palestinese
– nota lo scrittore – i quattro bicchieri
di vino che gli ebrei devono bere
durante il Seder si riferiscono alle quattro
fasi della redenzione, mentre il charoset,
la conserva di frutta miscelata con il vino,
ricorda la cattività degli schiavi ebrei in
Egitto, come «memoriale del sangue»35.
Toaff parla di una capillare diffusione
dell’accusa del sacrificio rituale nei territori
di lingua tedesca al di qua e al di là
delle Alpi e tale osservazione spinge all’immediata
constatazione, che non a caso
la civiltà letteraria tedesca dalla Riforma
protestante alla Shoah viene fortemente
impregnata dal motivo della calunnia
del sangue, e ne resta traccia nell’opera
letteraria di scrittori tedeschi ed ebrei.
In questa sede noi vogliamo soffermarci
sul versante propriamente letterario
della questione, dal momento che almeno
513
514
fino a metà Novecento la letteratura è stata
il medium privilegiato e prestigioso che
ha veicolato e accreditato immagini, miti,
parole d’ordine. In tal senso la dimora letteraria,
nei suoi molteplici livelli, può essere
considerata come documento e come
testimonianza a sua volta attivatrice.
Ebbene, nel suo feroce libello antisemita
Degli ebrei e delle loro menzogne36
(1536) Martin Lutero, traduttore della
Bibbia in lingua tedesca, dà la stura ai suoi
aspri pensieri sugli ebrei che, contrariamente
a quanto egli stesso aveva provocatoriamente
auspicato nel suo precedente
scritto Gesù ebreo di nascita (1523), continuavano
a manifestare una tenace renitenza
verso Cristo rifiutando il battesimo. Avvalendosi
dei già costituiti e potenti stereotipi
antiebraici inaugurati dal Medioevo,
Lutero scrive per la massa una predicazione
virulenta, in cui disegna un’immagine
demoniaca dell’ebreo, che dopo quattrocento
anni agli occhi dei nazisti non si sarebbe
modificata di un solo tratto37:
Io ho letto e sentito molte storie sugli
ebrei, che concordano con questo giudizio
di Cristo. E cioè: come abbiano avvelenato
i pozzi, ucciso di nascosto, rapito
bambini – come sopra abbiamo ricordato.
E così pure come un ebreo abbia
mandato da un campo a un altro, a un altro
ebreo, per mezzo di un cristiano, una
pentola piena di sangue e anche una botte
di vino, e quando il vino è stato bevuto
tutto, è stato trovato nella botte un
ebreo morto, e molte altre storie del genere.
E spesso il rapimento di bambini è
costato loro il rogo e l’espulsione38.
L’orrore del riformatore tedesco sfocia
nella volontà di una chiara, ancorché
rudimentale, “soluzione della questione
ebraica”: «allora vengano espulsi dal paese
e si dica loro di tornare alla loro terra
e ai loro beni, a Gerusalemme»39.
Il libello di Lutero può essere assunto,
come soglia determinante e fondazione
moderna della storia che qui si vuole,
sia pure a tratti e per tracce rivelatrici, delineare.
È assai significativo, ad esempio, che
l’accusa di vampirismo rituale ricompaia
ancora dopo secoli nel romanzo frammento
del poeta ebreo-tedesco Heinrich
Heine Il Rabbi di Bacherach40 (1824), un
lavoro dalla gestazione lunga e misteriosa,
che il poeta, il quale – giova ricordarlo
– sarà battezzato nel 1825, trova il coraggio
di pubblicare solo nel 1840 a Parigi,
in occasione della deflagrazione del
caso Damasco. La germinazione dell’opera
avviene dopo un soggiorno berlinese
in cui il poeta, ebreo assimilato alla cultura
tedesca, si è avvicinato per la prima
volta alla cultura ebraica. Ma sono anche
gli anni in cui in Germania si manifesta
un montante antisemitismo di matrice sociale
e culturale, oltre che confessionale.
Una copiosa libellistica antisemita
diffonde e consolida vecchi pregiudizi
antiebraici, tra cui quelli dell’ebreo omicida
rituale, profanatore delle ostie consacrate,
avvelenatore delle fonti e vorace
usuraio, che scatenano violenti pogrom,
passati alla storia come Hep-Hep-Bewegung41.
Per Heine, che rovescia l’accusa
di omicidio rituale trasferendola nel
mondo cristiano, la diffamazione di vampirismo
rituale serve ai non ebrei per tratteggiare
il volto dell’ebreo. Gli ebrei sono
succhiatori di sangue secondo una tradizione
antisemita che fa collimare il
vampirismo rituale con il vampirismo
economico. Nella situazione capovolta
del romanzo di Heine gli ebrei miserabili
dei ghetti sono le vittime dei vampiri
cristiani (ma anche degli ebrei ricchi)42.
Teatro dell’infanticidio rituale è Bacherach,
una cupa antichissima cittadella sul
Reno. Durante la celebrazione del Seder
(il pasto rituale di Pesach) Rabbi
Abraham interrompe improvvisamente
la lettura dell’Haggadah e fugge verso la
più tollerante Francoforte con l’ignara
moglie Sara, perché presagisce con salvifico
anticipo che la comunità ebraica tra
breve sarà nuovamente sotto la mannaia
della “rituale” Lüge des Blutes, la menzogna
del sangue. La raggelante scena heiniana
testimonia della radicata consapevolezza
del rischio da parte degli ebrei –
e nel caso specifico da parte di un ebreo
tedesco prossimo all’apostasia – di poter
essere accusati in ogni momento di omicidio
rituale ed anche la dettagliata conoscenza
della sintassi della calunnia del
sangue:
Il Rabbi, come muto, mosse più volte le
labbra senza articolare suono e alla fine gridò
[alla moglie]: “Vedi l’angelo della morte? Egli
si libbra laggiù su Bacherach! Ma noi siamo
scampati alla sua spada. Sia lodato il Signore!”.
E con voce tremante raccontò come,
mentre stava leggendo lietamente l’Haggadah,
appoggiato allo schienale, aveva accidentalmente
gettato uno sguardo sotto la tavola vedendo
qualcosa ai suoi piedi, e aveva allora riconosciuto
il cadavere insanguinato di un
bimbo. Capii allora – continuò il Rabbi – che
quei due nostri ospiti non appartenevano alla
comunità d’Israele ma a quella dei senza Dio,
e avevano tramato d’introdurre di nascosto
quel cadaverino in casa nostra per accusarci di
infanticidio e aizzare così il popolo contro di
noi per depredarci e ucciderci. Non dovevo
mostrare di aver capito l’opera delle tenebre
perché avrei solo affrettato la mia rovina; solo
l’astuzia ci ha salvati. Sia lodato il Signore!
Non angosciarti bella Sara; anche i nostri amici
e parenti saranno salvi. Quei malvagi erano
assetati solo del mio sangue; sono sfuggito loro
e si accontenteranno del mio argento e del
mio oro43.
Non c’è salvezza, invece, per gli inquietanti
ebrei sospettati di shachat nella
novella gotica Il faggio degli ebrei (1842)
di Annette von Droste-Hülshoff, autrice,
tra l’altro, di storie criminali. In questo
racconto sinistro calato nell’ambiente
surreale di un’anacronistica Westfalia in
cui ognuno deve farsi giustizia da solo,
due ebrei muoiono, uno ucciso l’altro
suicida, a causa di radicati pregiudizi antiebraici
che fomentano l’ostilità dei cristiani.
I due ebrei sono per i cristiani di
Barnow macellai che “scannano” i cristiani
mediante l’usura. L’ebreo strozzino
Johannes alla fine della storia viene trovato
ucciso ai piedi di un faggio, simbolo
del corpo delle vittime del vampirismo
ebraico, che reca un versetto inciso in caratteri
ebraici nella corteccia dell’albero
«Il giorno che tu qui verrai vicino, quel
che m’hai dato ti darà il Destino»44.
L’accusa di crocifissione rituale ritorna
in diversa variante, nella novella del
ghetto I due giusti45 (1889) dello scrittore
ebreo galiziano Karl Emil Franzos, il più
fervido paesaggista della «Semi-Asia»,
l’estremo lembo dell’Europa orientale,
rappresentato essenzialmente dalla Galizia
e dalla Bucovina. Animato dagli ideali
“germanici” illuministici e classici di
umanità e tolleranza, nel suo racconto
breve Franzos, anche con grande senso di
autocritica, dà corpo all’ombra di un passato
caratterizzato da violente tensioni
sociali e confessionali, da cui i popoli devono
e possono riscattarsi grazie ai valori
della ragione, della fede e della speranza.
Il totale spirito di abnegazione verso la
comunità di appartenenza salva gli ebrei
di Barnow dalla condanna a morte per
omicidio rituale. Lea, l’ebrea giusta di
Barnow, si accusa dell’infanticidio di un
bimbo cristiano, dichiarando che la vittima
è suo figlio, dunque, un ebreo. La sua
menzogna salvifica scaturisce dal panico
che nella comunità ebraica di Barnow
possa scatenarsi l’ennesimo pogrom:
Noi ebrei, allora ce ne stavamo paurosamente
in disparte e persino i più disonesti
tra noi si guardavano bene dal commettere
il più piccolo sgarro. “Voi avete crocifisso
il mio Dio” aveva detto il conte, un
giorno a Samuel, e aveva aggiunto con ira:
“Guai a voi se scopro un sacrilegio tra la
vostra gente! Farò bruciare le vostre quattro
case, come un tempo il vostro Dio ha
fatto con Sodoma e Gomorra!”46.
La fobia dell’omicidio rituale offrirà
l’incipit decisivo a Massa e potere (1960),
l’intenso trattato antropologico-filosofico
sulla «malattia del potere», e sul concetto
molteplice di massa, che Elias Canetti
comincia a scrivere negli anni Trenta.
Lo scrittore racconta di «un braccio»
che «uscì dalla porta e trascinò dentro il
figliuolo […]»47 per dar voce al diffuso ti-
515
516
more di tutti gli uomini di «esser toccati
dall’ignoto»48. La storia terrificante del
bambino, che sfiora la porta di casa dell’ebreo,
del diverso per eccellenza, e viene
trascinato dentro dalla sua mano unghiuta,
da un artiglio che afferra e non lascia
la vittima, è un monito ossessionante
a non avvicinarsi allo straniero. La paura
irrazionale di un individuo o di un gruppo
verso ciò che gli è estraneo – in sostanza
niente affatto distante e dissimile –
rende necessaria la costruzione di una
barricata invalicabile mediante veri e
propri “rituali” di demarcazione e di
controllo dell’alterità49. Come afferma
Canetti «tutte le distanze che gli uomini
hanno creato intorno a sé sono dettate
dal timore di essere toccati»50.
In questa disamina, attraverso una
piccola campionatura di scene letterarie
puntate sul tema, ora esplicito ora segreto,
dell’omicidio rituale non si può fare a
meno di richiamare, alle spalle di Canetti,
lo straordinario finale del Processo51
(1925) di Franz Kafka, in cui il lettore assiste
all’esecuzione dell’inspiegabile ed
inespiabile condanna di Joseph K., che
per particolari rivelatori ricorda l’orribile
scena di un omicidio rituale:
Un uomo aprì la sua finanziera e sfilò da
un fodero, appeso a una cintura tesa sul
panciotto, un lungo sottile coltello da macellaio,
a doppio taglio, lo tenne sollevato
e ne esaminò il filo alla luce. Ricominciarono
le disgustose cortesie, uno passò il
coltello all’altro al di sopra di K. […]52.
Il “coltello insanguinato”, la prova
autentica dell’atavica colpa ebraica, è
sempre introvabile. Ed è assenza irrilevante
ai fini di un’inesorabile condanna
(e del resto cosa c’è di più sinistro e terribile
di codesta irreperibilità fattuale?). A
questo si riferisce l’urlo di von Istoczky,
l’impietoso delegato del tribunale ungherese
il quale condanna per omicidio rituale
settantadue ebrei in seguito alla testimonianza
estorta sotto tortura del tredicenne
ebreo Moritz, nella singolare tragedia
del più disincantato apologeta dell’Ostjudentum
(l’ebraismo orientale) Arnold
Zweig dal titolo Omicidio rituale in
Ungheria53 (1914):
L’autorità che deve proteggerci contro di
loro [gli ebrei] risponde che non sussistono
prove, ricordate la parola “prova”. L’agnello
di un contadino fu divorato dai ratti;
egli accorse e trovò nella tana settantadue
ratti; cosa fece, gli chiese: chi di voi ha
divorato l’agnello? No, andò a prendere
l’acqua bollente e li fece morire bollendoli!
L’Ungheria è più sciocca del contadino?
Una graziosa fanciulla vale meno di
un agnello? Tu sei un ratto questa è già
una prova, disse il contadino. Sono ebrei,
di quale prova abbiamo bisogno? Avrebbe
dovuto dire l’autorità54.
Il dramma “documentario” riporta
sulla scena europea il processo di Tisza
Eszlar55 in cui la comunità ebraica ungherese
era stata accusata ingiustamente
di omicidio rituale. In realtà la condanna,
fortemente sostenuta dalle autorità ecclesiastiche,
dipese dall’odio invidioso verso
i ricchi ebrei ungheresi, e si tradusse nell’abrogazione
della legge sull’emancipazione,
nella confisca dei loro ingenti capitali
e nell’espulsione immediata dall’Ungheria.
Un’inquietante variazione dei motivi
infamanti delle «Pasque di sangue» affiora
anche, nello stesso scorcio di anni, tra
le pagine del romanzo fantastico Il Golem56
(1915) dello scrittore e banchiere di
Praga Gustav Meyrink. Il romanziere
ebreo, considerato da Julius Evola un
maestro di sapienza occulta, fa rivivere
nelle pagine del suo capolavoro il mito
più diffuso nell’area dell’ebraismo orientale,
il Golem, un mito pericoloso, il mito
dell’uomo che crea l’uomo, un simbolo
mistico che allude all’uccisione di Dio.
Meyrink ci racconta di un vecchio, con
una lunga barba ondeggiante e un berrettino
di seta nera come quello dei vecchi
patriarchi ebrei, che nelle viuzze oscure e
maleodoranti del ghetto praghese canta
un’inquietante canzone del pane azzimo.
La grottesca litania recita che il cibo rituale
viene “lievitato” con l’odio di due
sinistri panettieri, che a Pesach provocherà
una strage nel quartiere ebraico:
«Rititi, stelle ro-os-se e blu, rititi, i cornetti
amo di più, rititi, Barba rossa, Barba
verde ogni sorta di stelle…rititi, rititi»
[…]. «Cento anni fa o forse anche più,
due panettieri, Barba rossa e Barba verde,
la sera del ‘Sabato Hagodel’ avvelenarono
il pane – nel formato ‘stelle’ appunto e
‘cornetti’ – decisi a provocare una grande
moria nel quartiere ebraico»57.
E i cristiani non dimenticano l’accusa
del sangue. È appena uscito il ponderoso
ma avvincente romanzo La fortuna dei
Meijer58 (2006), un’intensa saga familiare
che ricorda i Buddenbrooks, realizzata dal
giornalista e scrittore svizzero Charles
Lewinsky. Qui l’ebreo Melnitz, un fantasma
che di tanto in tanto si presenta ai
propri nipoti, dissuade i suoi familiari da
inutili speranze assimilazioniste, ricordando
che il pregiudizio atavico contro il
popolo deicida è inestirpabile nella coscienza
cristiana:
Dimenticare? Non dimenticano nulla. La
verità, forse, ma non le menzogne. Conoscono
tutte le storie che i babilonesi e i romani
hanno inventato su di noi, continuano
a raccontarle e a crederci. La menzogna
ha molti uncini, già. [Così i cristiani] sono
in grado di descrivervi il coltello con cui
l’abbiamo fatto, con la stessa precisione
che se l’avessero tenuto in mano. Sanno
dove abbiamo praticato il taglio, alla gola,
oppure sopra al cuore, sanno com’era fatta
la coppa con cui abbiamo raccolto il sangue,
ogni anno, ovunque, perché le matses
non sono kasher senza il sangue cristiano59.
Pure, le più perturbanti immagini
della macellazione rituale – si tratta di
una macabra rappresentazione alive – risultano
ancora, per noi, quelle del documentario
(in realtà un falso della propaganda
antisemita) L’eterno ebreo (1940),
una pellicola quasi insostenibile, che il
Ministro della Propaganda Joseph Goebbels
commissiona nel 1939 al regista del
Reich Fritz Hippler, per giustificare, con
un vero e proprio film dell’horror, gli imminenti
rastrellamenti e deportazioni e,
di lì a poco, il genocidio di milioni di
ebrei. Il film venne prodotto in due versioni,
una “edulcorata” per le donne e i
bambini, e un’ altra hardcore, per le SS e
gli uomini60. Dietro i ciak infamanti della
cinematografia nazista appaiono, nelle
insopportabili Schächtenszenen, le scene
della macellazione rituale, animali agonizzanti,
che sono stati sgozzati senza
anestesia, secondo il barbaro rituale kasher,
con cui la propaganda antisemita
nazista vuole “documentare” che l’ ebreo
è «eterno», ovvero immutabile nella sua
ferocia, nonostante il mascheramento occidentale.
Dopo aver assistito alla prima
del film all’Ufa-Palast am Zoo di Berlino
il 28 novembre 1939 il Ministro cinefilo
commenta: «E poi le riprese del film del
ghetto (¸odz). Mai stato lì. Immagini così
crudeli e brutali raggelano il sangue. Ci si
ritrae di fronte a tanta ferocia. Questi
ebrei devono essere annientati»61.
Ecco, offrendo al lettore una rapida
carrellata tra immagini letterarie dell’Ottocento
e del Novecento entre les deux
guerres, messe in rete, per così dire, sia
con un testo fondativo, quello di Martin
Lutero, sia con le new entry di un mercato
editoriale che astutamente tematizza i
problemi contemporanei, si è voluto mostrare
lo spessore allarmante del mito, il
suo farsi perennemente nuovo. E allora,
con il necessario rispetto che oggi si usa
dichiarare per la libertà di ricerca, non si
può d’altra parte trascurare un disagio
epistemologico, di fronte ad una ipotesi
storiografica attratta dalla fascinazione
accertabile di uno stereotipo, esso sì pienamente
storico, piuttosto che attenta al
faticoso e circoscritto lavoro del «come
veramente sono andate le cose».
Paola Paumgardhen
517
518
1 A. Toaff, Pasque di sangue. Ebrei d’Europa
e omicidi rituali, Bologna, il Mulino, 2007.
2 Cfr. F. Cardini, Il caso “Ariel Toaff”. Una
riconsiderazione, Milano, Medusa, 2007, p. 83.
3 Cfr. A. Foa, Ebrei in Europa dalla peste
nera all’emancipazione, Roma-Bari, Laterza,
1992, p. 19.
4 P. Schafer, Giudeofobia. L’antisemitismo
nel mondo antico, trad. it. di E. Tagliaferro e
M. Lupi, Roma, Carocci,1999, pp. 195 e ss.
5 A. Toaff, op. cit., p. 125.
6 Cfr. K. Schubert, Jüdische Geschichte,
München, C.H. Beck 1995, pp. 25-38; A.
Herzig, Jüdische Geschichte in Deutschland
von den Anfängen bis zur Gegenwart, München,
Beck sche Reihe, 1997, pp. 31-51; R. Calimani,
Storia dell’ebreo errante, Milano, Rusconi,
1995, p. 581.
7 A. Toaff, op. cit., p. 126.
8 Ivi, p. 9.
9 Ashkenaz in ebraico indica la Germania.
Questo termine si riferisce comunemente a
tutti quegli ebrei, detti ashkenaziti, che provengono
non solo dalla Germania, bensì da
tutta l’Europa continentale, dalla Francia all’Ucraina,
alla Russia, all’Austria. La loro lingua
è lo jiddish.
10 Se farad in ebraico indica la Spagna.
Questa parola designa tutti quegli ebrei espulsi
dalla penisola iberica nel 1492 e dispersi da
allora in tutto il bacino del Mediterraneo. La
loro lingua è il ladino.
11 A. Toaff, op. cit., pp. 9-10.
12 Ibidem.
13 Ivi, p. 126.
14 Ivi, p. 127.
15 Ibidem.
16 Ivi, p. 126.
17 Cfr. D. Dohn-Sherbok, Storia dell’antisemitismo,
trad. it. R. Lanzi, Roma, Newton &
Compton, 2005, pp. 57-58.
18 A. Luzzatto, Il posto degli ebrei, Torino,
Einaudi, 2003, p. 34.
19 Cfr. P. Stefani, L’antigiudaismo. Storia di
un’idea, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 153.
20 A. Toaff, op. cit., p. 93.
21 Ibidem.
22 Ivi, p. 94.
23 Ivi, p. 97.
24 Ivi, p. 107.
25 Cfr. M. Freschi, Storia della letteratura
tedesca, Roma, Newton & Compton, 1995, p.
12 (Il testo sta per essere editato in una versione
ampliata dalla casa editrice il Mulino).
26 Cfr. M. Kluge, R. Radler (a cura di),
Hauptwerke der deutschen Literatur, München,
Edition Kindlers Literatur Lexikon,
1974, pp. 14-15.
27 L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo.
Da Cristo agli ebrei di corte, trad. it. R. Salvatori,
Milano, Sansoni, 2004, p. 179.
28 W. Shakespeare, Il mercante di Venezia,
trad. it. A. Serpieri, Torino, Einaudi, 1987.
29 Cfr. H. Mayer, I diversi, trad. it. L. Bianchi,
Milano, Garzanti, 1977, p. 298.
30 Cfr. S. Gilman, The Jew’s Body, New
York & London, Routledge, 1991, p. 113.
31 A. Toaff, op. cit., p. 119.
32 Cfr. N. Cohn, Licenza per un genocidio,
trad. it. di L. Felici, Torino, Einaudi, 1969.
33 È appena uscito sul mercato editoriale
un nuovo interessante e denso testo sul caso di
Simonino da Trento, G. Gentilini, Pasqua
1475, Milano, Medusa, 2007.
34 Cfr. R. Calimani, Ebrei e pregiudizio, Milano,
Mondatori, 2000, p. 67.
35 A. Toaff, op. cit., pp. 140-141.
36 M. Lutero, Degli ebrei e delle loro menzogne,
trad. it. A. Malena, Torino, Einaudi,
2000.
37 Cfr. R. Hilberg, La distruzione degli
ebrei d’Europa, trad. it. di F. Sessi e G. Guastalla,
Torino, Einaudi, 1999, pp. 13-14.
38 Ivi, pp. 202-203.
39 M. Lutero, op. cit., p. 201.
40 H. Heine, Il Rabbi di Bacherach, trad. it.
di L. Accomazzo, Milano, SE, 1989.
41 Movimento dello Hep-Hep. L’acronimo
«Hep» sta per Hierosolima est perdita.
42 Cfr. F. Jesi, L’accusa del sangue, Brescia,
Morcelliana, 1993, pp. 82-85.
Si segnala la nuova edizione del testo di
Jesi appena pubblicata da Bollati Boringhieri
con un’interessante introduzione di D. Bidussa
che propone l’intenso lavoro del germanista
come la possibilità di rileggere l’intero dossier
dell’ «accusa del sangue» questa volta
orientando la ricerca verso il mito e le epifanie
che esso produce.
43 H. Heine, op. cit., pp. 23-24.
44 A. von Droste-Hülshoff, Il faggio degli
ebrei, trad. it. di F. Politi, Roma, Salerno Editrice,
1987, p. 110.
45 K.E. Franzos, Racconti della Galizia e
della Bucovina, trad. it., Roma, Salerno Editrice,
2002.
46 Ivi, pp. 74-75.
47 E. Canetti, Massa e potere, trad. it. di F.
Jesi, Milano, Adelphi, 2006, p. 17.
48 Ibidem.
49 Sull’argomento cfr. Modernità, razzismo,
sterminio in Z. Baumann, Modernità e olocausto,
trad. it. di M. Baldini, Bologna, il Mulino,
1992, pp. 55-123; cfr. P. Burrin, L’antisemitismo
nazista, trad. it. di G. Secco Suardo, Torino,
Bollati Boringhieri, 2004, pp. 17-37.
50 E. Canetti, op. cit., p. 17.
51 F. Kafka, Il Processo, trad. it. di G. Zampa,
Milano, Adelphi, 1981.
52 Ivi, p. 43.
53 A. Zweig, La missione di Samuel, München,
Kurt Wolff Verlag, 1920.
La tragedia ebraica in 5 atti Omicidio rituale
in Ungheria venne pubblicata a partire
dal 1920 con il titolo La missione di Samuel.
54 Ivi, p. 65.
55 Il fiume Tibisco, principale affluente di
sinistra del Danubio che attraversa l’Ungheria
orientale.
56 G. Meyrink, Il golem, trad. it. di C. Mainoldi,
Milano, Bompiani, 1977.
57 Ivi, p. 54.
58 C. Lewinsky, La fortuna dei Meijer, trad.
it. di V. Tortelli, Torino, Einaudi, 2007 (titolo
originale Melnitz).
59 Ivi, p. 94.
60 Cfr. H.J. Brandt, Ns-Filmtheorie und
dokumentarische Praxis: Hippler, Noldan,
Junghans, in Medien in Forschung und Unterricht,
Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1987,
p. 69; cfr. S. Mannes, Antisemitismus im nationalsozialistischen
Propagandafilm. Der ewige
Jude und Jud Süss, Köln, Teire-Sias Werlag,
1999, p. 38.
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