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Lo sguardo sul nulla:l'io leopardiano tra disincanto dell'immanenza ed echi sapienziali
di Eugenio Mazzarella
Lo sguardo sul nulla: l’io leopardiano tra disincanto dell’immanenza
ed echi sapienziali
1. La carriera poetica di Leopardi: la scoperta del Vero negativo
Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano
in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni di
immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla
immaginazione. […] Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia
non avea che un barlume. […] In somma il mio stato era allora in tutto e per
tutto come quello degli antichi. […] La mutazione totale in me, e il passaggio dallo
stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819, dove
privato dell’uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a
sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar
la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose, […] a divenir filosofo di professione
(di poeta che io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla,
e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava
dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. […] Così si può ben dire che
in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli,
o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che filosofi.
Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni
insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo
(Zibaldone di pensieri, edizione critica annotata a cura di G. Pacella, Milano,
Bompiani, 1991, pp. 143-144, 1-2 luglio 1820; la paginatura è dell’autografo leopardiano).
È un passo dell’inizio del luglio del 1820 dello Zibaldone di pensieri, uno
dei più famosi, dove un ventiduenne Leopardi segna ad un anno privatamente
drammatico, il precedente 1819, la sua «conversione filosofica», che da poeta
«immaginativo» sulla scia degli antichi, lo «muta» in filosofo, l’unico modo
di essere poeta presso i moderni, dove «immaginare» come gli antichi – fingere,
inventare un mondo che non è, abitare ingenuamente le «illusioni» di cui
si sostanzia la vita – è possibile solo ai «fanciulli», o ai «giovanetti» (o in una
rimitologizzazione più o meno consapevole delle nuove scoperte etnografiche
ai «californiani», ai «primitivi»). Il poeta moderno, in quanto filosofo, se sarà
imitatore, il «dettato del cuore» non potrà più riceverlo dalle «cose naturali»,
dalla natura, cui si è diventati insensibili, ma da se stesso, dal “vuoto” che ne
ha invaso il cuore: «il poeta non è imitatore se non di se stesso», come annoterà
il 10 settembre del 1828.
«Mutazione totale», o piuttosto maturazione, movenza più evolutiva che
disgiuntiva di una vocazione poetica, che sia, il passo offre un diagramma cospicuo
della poetica leopardiana, storia di un’anima sospesa tra disincanto dell’immanenza
alla scuola del sapere moderno, echi sapienziali, che quel sapere
dissolutivo avevano bevuto all’amaro del cuore senza risposte, prima che fosse
veduto nel cannocchiale di Galilei annunciato da Copernico, e disperata nostalgia
dei «dolci inganni» di un’appartenenza a qualcosa o qualcuno.
La cesura in questa carriera poetica è segnata dalla crisi della specifica
mondanità leopardiana in quanto crisi del suo intero mondo giovanile, e degli
Iuvenilia che ne nascono; dalla crisi della sua «immaginativa» come venir
meno dell’appagarsi presso il mondo della sua concupiscentia oculorum; come
già nella dialettica agostiniana, l’Io è stretto a virare, da questo impoverirsi dell’esperienza,
sull’interiorità. È il nascere nel racconto autobiografico, sotto i
nostri occhi, del vero e proprio io lirico leopardiano. Dall’esteriorità del conoscere
«l’infelicità certa del mondo», si passa all’interiorità del sentirla. Non
fa più argine all’infelicità «conosciuta» la sensualità che ne gode su «le sudate
carte»; è questa perdita di sensualità, che fa avanzare la spiritualizzazione –
«sentire» dentro – di questa esperienza dell’universa infelicità delle cose: «privato
dell’uso della vista, e della continua distrazione della lettura, […] insensibile
alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero». In questo stato di «languore
corporale» che allontanava dagli antichi ed avvicinava ai moderni, con
la sensualità del corpo si allontana anche la sensualità delle «favole antiche»,
l’ufficio di consolazione della filologia. Se il paganesimo giovanile del Leopardi
è questa appagatività dell’Io presso la Natura sostenuta dall’imitazione
dei poeti, è qui che questo paganesimo comincia a dissolversi. La spiritualizzazione
moderna dell’immanenza presso l’Io fa morire le vecchie favole («il
grande Pan è morto», profeterà molto a posteriori Nietzsche), e avvia a dichiarare
già decrepite le «nuove», quelle più antiche e recentissime: le favole
del cristianesimo e del progresso, vale a dire morale conciliativa e secolo decimonono,
in un’idea di poesia come filosofia, «dedizione alla ragione e al vero
»: un “vero” negativo.
Questa dedizione alla ragione e al vero sarà l’ispessimento fino alla desolazione,
in un confronto con la grande filosofia moderna – l’empirismo, il sensismo,
il sistema di Leibniz1 – visitato con gli occhi già esercitati sul «materialismo
» degli antichi, di un pensiero concepito tra il 9 e il 15 dicembre 1820:
In sostanza è chiaro 1. Che la decadenza dell’uomo consisté nella decadenza dallo
stato naturale o primitivo, giacché subito dopo il peccato l’uomo provò una contraddizione
con la sua natura, vergognandosi della sua nudità, ossia del modo nel
quale era stato fatto: vergogna, e per conseguenza dovere, che non esisteva innanzi
alla corruzione. 2. Che questa decadenza o corruzione in luogo di consistere in
1 Su questi temi, cfr. il documentato lavoro di B. Martinelli, Leopardi tra Leibniz e
Locke, Roma, Carocci, 2003.
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quella della ragione, fu anzi cagionata dal sapere, giacché l’uomo allora seppe quello
che prima non sapeva, e non avrebbe saputo né dovuto sapere, cioè di esser nudo.
Quando aprirono gli occhi, come dice la Genesi, allora conobbero di esser nudi,
e si vergognarono della loro natura (contro quello che prima era avvenuto); e
decaddero dallo stato naturale, o si corruppero. Dunque l’aprir gli occhi, dunque
il conoscere fu lo stesso che decadere o corrompersi; dunque questa decadenza fu
decadenza di natura, non di ragione o di cognizione. 3. Che l’uomo naturale sarebbe
vissuto come gli altri animali senza vestimenti. Questo è un gran colpo, tanto
alla pretesa legge di natura, ingenita ed essenziale: quanto alla pretesa necessità,
o naturale o primordiale e sostanziale disposizione dell’uomo alla società. Una
gran parte del bisogno che l’uomo ha dell’aiuto scambievole, che il bambino ha
per lungo tempo de’ genitori, consiste ne’ vestimenti. Di più, una gran parte del
bisogno che l’uomo ha di una certa arte, di un certo uso della ragione, consiste nel
bisogno de’ vestimenti (Zibaldone, pp. 399-400).
L’arte dell’uomo di vestirsi, di vestire la sua nudità naturale nella conoscenza,
sempre rinnovantesi, la moda, non è nient’altro che la continua ed inane
fatica di vestire la morte, «madama Morte», la vergogna della scoperta della
sua mortalità. L’universale corruptio che poeteranno i Canti e di cui discorreranno
le Operette, l’«istato di [generale] souffrance» dell’essere2, non è
nient’altro che l’intrascendibilità esistenziale della propria corruptio mortale
come vita, a cui la “retta” ragione, la ragione indirizzata all’oggettivazione (il
sudore della fronte, il “lavoro”) semplicemente si illude, aiutata dai «dolci inganni
» di porre riparo con are, matrimoni e sepolture al parto con dolore, al
parto di dolore che è la vita. Senza neanche la consolazione poetata del canto,
le Operette morali si incaricheranno di argomentare quanta fatica e inganno
costi l’opera del costume per continuare ad abitare il mondo – mos è demorari
– ad un esserci la cui natura è l’estraneazione alla sua vita, senza che possa
porvi riparo l’opera della cultura, l’oggettivazione che vorrebbe dare più salde
basi alla friabile, inspiegata ed inspiegabile, evidenza del suo essere al mondo;
anticipata genealogia della morale dove la melancholia sormonta ogni altro
sentire, ed il risentimento si volge ad agognare riposo dall’invano.
2 «Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità.
Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma
tutti gli altri esseri al loro modo. Non gli individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi,
i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete
ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna
parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in
istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa offesa dal sole, che gli
ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da
un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. […] Lo spettacolo di tanta copia di vita
all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un
soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto
ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono, o
vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere
» – questo è il giardino umano, l’antimito dell’Eden del pensiero steso a Bologna tra
il 19 e il 22 aprile del 1826 dello Zibaldone, pp. 4174-4175 («Tutto è male…»).
Nient’altro avrebbe potuto dare alla riflessione e al sentire l’assunzione della
negazione in radice della bonitas creaturale dell’uomo fatto a “immagine”
di Dio da parte del poeta fattosi filosofo. Aver voluto essere quell’immagine,
l’essersi fatto e non essere fatto ad immagine di Dio, il non aver saputo resistere
alla tentazione di umanarsi, da animale che era in paradiso voluptatis, essersi
voluto «insapienziare» per dirla con l’antico maestro della sapienza in lutto
in Palestina, il Qohelet, è per il poeta fattosi filosofo ciò che fa irredimibile
la natura umana: «l’uomo già sapeva abbastanza per natura, cioè per opera
propria, immediata e primitiva di Dio, tutto ciò che gli conveniva sapere; la
colpa dell’uomo fu volerlo sapere per opera sua», come commenta negli stessi
pensieri del dicembre 1820 Genesi II,17 «De ligno autem scientiae boni et
mali ne comedas, in quocumque enim die comederis ex eo, morte morieris (Zibaldone,
pp. 396-397)». Il legno dell’albero della conoscenza per Giacomo
uscito dal suo annus horribilis del 1819 non è nient’altro che il legno della croce
senza resurrezione. Questa china non sarà mai più risalita.
Emblema di questa veduta esistenziale che dilaga in filosofia della storia
potrebbe ben essere l’iscrizione sepolcrale che l’alter ego, Filippo Ottonieri,
detta a se stesso: «Ossa / Di Filippo Ottonieri / Nato alle opere virtuose / E
alla gloria / Vissuto ozioso e disutile / E morto senza fama / Non ignaro della
natura / Né della fortuna / Sua», diversissimo, come è stato notato (Galimberti)
dall’epitaffio che suggella la Notizia foscoliana di Didimo chierico:
«DIDYMI. CLERICI/ VITIA. VIRTUS. OSSA/ HIC. POST. ANNOS.+++/
CONQUIEVERUNT», dove Didimo – è stato scritto benissimo – «pensa alla
sua vita conclusa come alla rapida corsa nel tempo di una sintesi spirituale e
fisica […], vista romanticamente nella ricchezza delle sue contraddizioni […]
[dove] il travaglio della vita trova infine pace in un riposo eterno, fissato dall’ampiezza
anche fonica di quel CONQUIEVERUNT. Le ossa di Filippo Ottonieri
biancheggiano invece deserte in capo alla “iscrizione”: unico resto di
lui, da quella che fu la sua persona autentica, invano tesa alla gloria e alla
virtù»3.
Tutto ciò che resta di un’esistenza il cui peso al gancio del tempo è l’insostenibilità
a se stessa della «noia», il suo plumbeo sentire di fondo.
Unico resto «materiale» – queste ossa – di uno spirito umano, che non trascende,
né ha ragione di farlo, l’appartenenza come nulla alla vicenda di nulla
nel nulla di tutto ciò che è ed esiste. Di un’esistenza come «gemito», fatica
e pena di vivere di un vivente “innaturale”, che si assume come progetto, come
cura di sé; ed in questo progetto fondato sul suo sapersi oscilla tra il credere
di essere il solo a “faticare” la sua vita (lui, lui solo magari: «a me la vita
è male») e il disincantato vedere che «dentro covile o cuna / è funesto a chi
nasce il dì natale» (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia). Non c’è materia
di salvazione nell’acquisizione cognitiva, nel sentire, di questo “vero” negativo,
di questo intrascendibile al sapere manifestarsi dell’essere come nulla.
3 Da Cesare Galimberti nel suo commento all’operetta in G. Leopardi, Operette
morali, a cura di C. Galimberti, Napoli, Guida editore, 1998, p. 352, nota.
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È pur vero che già nel 1818 – un anno prima, dunque della propria «mutazione
totale», come è stato notato4 – Leopardi aveva affermato che «non il
Bello ma il Vero […] è l’oggetto delle Belle arti» (Zibaldone, p. 2), e all’insegna
del «vero» egli aveva aperto nel 1815 il Saggio sopra gli errori popolari degli
antichi, notando che «il mondo è pieno di errori, e prima cura dell’uomo
deve essere quella di conoscere il vero» (Saggio sopra gli errori popolari degli
antichi, in Idem, Poesie e prose, a cura di R. Damiani, M.A. Rigoni Milano,
Mondatori, 1987,1988, p. 639), tuttavia questo apprendistato sul vero del giovane
poeta filologo è un mero apprendistato cognitivo, dove il piacere della
conoscenza e della sua raffigurazione fa ancora aggio sul conosciuto. Quando
l’errore sarà “sentito dentro” dal poeta fattosi filosofo, quando il congedo dalla
giovinezza poetica troverà anche negli occhi «privati della vista» il sensorio
del corpo, l’errore non sarà più una somma di errori materiali, false credenze
e simili, ma un errore di senso: credere che la vicenda della materia cui si riduce
per Leopardi ogni cosa di cui si possa fare esperienza riservi ad esse cose,
e a quella specialissima cosa “uomo”, un destino diverso dal nulla.
Due pensieri del febbraio e del settembre 1821 assodano questa gnoseologia
negativa del negativo:
La mente nostra non può non solamente conoscere, ma neppur concepire alcuna
cosa oltre i limiti della materia. Al di là, non possiamo con qualunque possibile
sforzo, immaginarci una maniera di essere, una cosa diversa dal nulla (Zibaldone,
pp. 601-602, 4 febbraio 1821).
Or dico io. Arrivate fino alla menoma parte o sostanza materiale, e ditemi se potete,
le parti o sostanze di cui questa si compone, non sono più materia, ma spirito.
Arrivate anche se potete, agli atomi o particelle invisibili e senza parti. Saranno
sempre materia. Al di là non troverete mica lo spirito ma il nulla. Affinate quanto
volete l’idea della materia, non oltrepasserete mai la materia…Come si può
compor la materia di ciò che non è materia? Il corpo non si può comporre di non
corpi, come ciò che è di ciò che non è: né da questo si può progredire a quello, o
viceversa. – Ma finché la materia è materia, ell’è divisibile e composta. – Trovatemi
dunque quel punto in cui ella si compone di cose che sono composte, cioè non
sono materia. Non v’è scala, gradazione, né progressione che dal materiale porti
all’immateriale (come non v’è dall’esistenza al nulla) (Zibaldone, pp. 1635-1637, 5
settembre 1821).
La fede che viene dagli occhi lo spirito nella materia non lo trova. Eppure,
ex auditu, è dall’ascolto di sé, è dal cuore che si duole, che si annuncia alla materia,
nel mondo, il suo antagonista nello spirito, l’io che sente e patisce:
Come potrà essere che la materia senta e si dolga e si disperi della sua propria nullità?
E questo certo e profondo sentimento (massime nelle anime grandi) della vanità
e insufficienza di tutte le cose che si misurano coi sensi, sentimento non solo
di raziocinio, ma vero e per modo di dire sensibilissimo desiderio e dolorosissimo,
4 Arturo Mazzarella, I dolci inganni. Leopardi, gli errori e le illusioni, Napoli, Liguori,
1996, p. 7.
come non dovrà essere una prova materiale, che quella sostanza che lo concepisce
e lo sperimenta, è di un’altra natura? Perché il sentire la nullità di tutte le cose sensibili
e materiali suppone essenzialmente una facoltà di sentire e comprendere oggetti
di natura diversa e contraria, ora questa facoltà come potrà essere nella materia?
(Zibaldone, pp. 1106-107, 15 aprile 1820).
Non è più la ghiandola pineale a connettere res extensa e res cogitans, ma il
groviglio del cuore. Questo groviglio però la teoria, la gnoseologia non lo prevede,
ma lo subisce. Se si pone mente al seducente schema ontologico di Hans
Jonas sulla differenza tra il panvitalismo degli antichi, dove l’enigma è la morte,
e il panmeccanicismo dei moderni, a far data dal Rinascimento, dove la pietra
dello scandalo, in una sovvertita ontologia che da ontologia della vita si fa
ontologia della morte, è la vita, l’organismo, con Leopardi ci troviamo in questa
situazione spirituale, tutta moderna, della vita che si avverte come ludibrium
materiae. Se nell’ontologia panvitalistica degli antichi «era il cadavere,
questo caso primario di materia “morta”, che costituiva il limite di ogni comprensione
e per questo la prima cosa a non essere all’apparenza accettata»,
presso i moderni è «l’organismo che vive, sente e aspira che ha assunto questo
ruolo e viene smascheraro come ludibrium materiae, come un raffinato inganno
della materia»5.
Sul punto è la posizione né più né meno di Leopardi: il suo Copernico, tra l’altro,
è ben a giorno delle conseguenze teoretiche e morali dell’universo panmeccanicistico
dei moderni6 – dove la vita si è spenta tra le stelle e l’etere è un “vuoto”
dominato da leggi dell’inerte. Nel Coro di morti nello studio di Federico Ruysch,
questo stupore della vita – che si sente morta, che nasce già morta – per la vita,
per la sua propria incongruità ontologica, è presentato, con uno spettacolare
capovolgimento dell’angolo visuale, dal lato stesso di questa eternità vuota cui si
volge «ogni cosa creata». In questo universo della morte – in cui ai morti sono pareggiati
i vivi, i mortali: l’ «esser beato/ nega ai mortali e nega ai morti il fato» –,
5 H. Jonas, Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, ed. it. a cura di P. Becchi,
Torino, Einaudi, 1999, p. 20.
6 Il Copernico, dialogo: «SOLE. Che cosa vuol conchiudere in somma con codesto
discorso [“…che la terra si parta da quel suo luogo di mezzo…che ella divenga del
numero dei pianeti, questo porterà seco che sua maestà terrestre, e le loro maestà umane,
dovranno sgombrare il trono, e lasciar l’impero; restandosene però tuttavia co’ loro
cenci, e colle loro miserie, che non sono poche…”] il mio don Niccola? Forse ha
scrupolo di coscienza, che il fatto non sia un crimenlese? COP. No, illustrissimo; perché
né i codici, né il digesto…fanno menzione di questo crimenlese, che io mi ricordi.
Ma voglio dire in sostanza, che il fatto nostro non sarà così semplicemente materiale,
come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi non apparterranno
alla fisica solamente: perché esso sconvolgerà i gradi delle dignità delle cose, e
l’ordine degli enti; scambierà i fini delle creature; e per tanto farà un grandissimo rivolgimento
anche nella metafisica, anzi in tutto quello che tocca alla parte speculativa
del sapere. E ne risulterà che gli uomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente,
si troveranno essere tutt’altra roba da quello che sono stati fin qui, o che si
hanno immaginato di essere» (Operette, cit., pp. 449-450).
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in questa ontologia meccanica della dispersione di «età vote e lente», che «l’arido
spirto», la vita inaridita, già ormai al di là di se stessa, «senza tedio consuma»
al sicuro dall’antico dolore nella rassegnazione al proprio destino «Sola nel mondo
eterna, a cui si volve/ Ogni creata cosa,/ In te, morte, si posa/ Nostra ignuda
natura; Lieta no, ma sicura/ Dall’antico dolor», è la vita a stupire; arcano capovolto
sul tavolo della comprensione, neanche un mondo rovesciato rimesso sui
suoi piedi, solo una simmetria: «Che fummo?/ Che fu quel punto acerbo /Che
di vita ebbe nome?/ Cosa arcana e stupenda/ Oggi è la vita al pensier nostro, e
tale/ Qual de’ vivi al pensiero/ L’ignota morte appar».
Il poeta filosofo non si sottrae al tentativo di rendere ragione – e in una direzione
agli antipodi dell’ottimismo metafisico lebniziano – del vivente come
ludibrium naturae. Per farlo però, pienamente intimo all’ontologia dei moderni,
ricorre agli antichi. Ad una apocalittica gnostica che speculativamente
non spiega nulla, ma è un buon esempio dell’auspicio di un appunto del 1822,
«quando mai, se si potesse, dovressimo, quanto allo stile, parere antichi che
pensassero alla moderna» (Zibaldone, 1822).
Sono più che noti i testi di questa peculiare gnosi poetica che assegna al
nulla il ruolo di «protoprincipio», di «principio di tutte le cose, e di Dio stesso
». «In somma il principio di tutte le cose, e di Dio stesso, è il nulla» (Zibaldone,
p. 1342, 7 agosto 1821), e che spiega la morte. Nelle parole del Cantico
del gallo silvestre:
Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obietto il morire. Non
potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono.
Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicità; perroché niuna cosa è felice. Vero
è che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma
da niuna l’ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando
sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere
a questo solo intento della natura, che è la morte (Cantico del gallo silvestre,
Operette, cit., pp. 395-397).
È del tutto conseguente – a perimetrare l’orizzonte morale delle Operette,
vi ha richiamato l’attenzione Cesare Galimberti7 – «la ‘gnostica’ maledizione
del creato che è il famoso pensiero zibaldoniano del 19-22 aprile 1826 (con
l’illuminante appunto-progetto che lo commenta: “Si potrebbe esporre e sviluppare
questo sistema in qualche frammento che si supponesse di un filosofo
antico, indiano, ecc.”)»:
Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male;
ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine
dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo
non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene
che il non essere: non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose non sono cose:
tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esi-
7 Nell’introduzione (Un libro metafisico) a Operette morali, cit., p. 15.
8 Cfr. G. Ravasi, Qohelet, Cinisello Balsamo (Milano), 20012, p. 435.
stono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua
natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità.
Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti
i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi essi sieno, non essendo però
certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza infinitamente
piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e
il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così,
del non esistente, del nulla (Zibaldone, pp. 4174-4175).
Così come il tardo abbozzo dell’Inno ad Arimane, una risentita bestemmia al
proprio stato che introna il Male al posto lasciato vuoto dal Dio delle creature:
Re delle cose, autor del mondo, arcana / Malvagità, sommo potere e somma / Intelligenza,
eterno / Dator de’ mali e reggitor del moto, / …………………………/
te con diversi nomi il volgo appella Fato, natura e Dio.
Nella cognizione sentita del dolore non soccorre «il più solido piacere di
questa vita…il piacer vano delle illusioni…senza cui la nostra vita sarebbe la
più misera e barbara cosa» (Zibaldone, p. 51) come in un appunto del 1819,
ma il nulla si avvia a divenire già nel gennaio del 1820 «ombra reale e salda»,
e «il mondo inabitata piaggia», dove «tutto è simile, e discoprendo, / solo il
nulla s’accresce»; l’unica cosa che in questo universo non si muove: «a noi
presso la culla / immoto siede, e su la tomba, il nulla» (Ad Angelo Mai).
2. L’ufficio della poesia: il lato dell’Ombra e la sua voce
Basterebbero già solo queste notazioni a consegnare Leopardi alla storia
umana del nulla, a legittimare una notazione di Ceronetti, ripresa da un altro
commentatore del Qohelet, Gianfranco Ravasi, che «Giacomo Leopardi visse
imbevuto di Ecclesiaste, e lunghi Ecclesiaste sono i Canti e le Operette morali
»8. In verità basterebbe anche solo la chiusa di A se stesso (1833) a stabilire
questo accostamento, dove una malevola indifferenza è l’unico legame della
natura alla sua creatura, e l’«infinita vanità del tutto» del verso finale fa arco
con «l’infinita vanità del vero» proclamata nello Zibaldone (p. 69,2): «Ormai
disprezza / te, la natura, il brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera,
/ e l’infinita vanità del tutto».
Né toni meno qoheletici ha il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia,
dove ai versi 15-20 («Dimmi, o luna: a che vale / Al pastor la sua vita, / la
vostra vita a voi? Dimmi: ove tende / questo vagar mio breve, / il tuo corso immortale?
») ad una condivisa luna di ogni anima in pena di questa religione selenitica
degli umani deserti di senso alza gli occhi il volgersi umano al lato dell’ombra;
e l’ipotiposi, l’incongruente similitudine della vita – «vecchierel bianco
» che percorre da atleta tutta la fatica dell’umano – ai versi 21-38.
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Vecchierel bianco, infermo, / mezzo vestito e scalzo, / con gravissimo fascio in su
le spalle, / per montagna e per valle, / per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, / al vento,
alla tempesta, e quando avvampa / l’ora, e quando poi gela, / corre via, corre,
anela, / varca torrenti e stagni, / cade, risorge, e più e più s’affretta, / senza posa o
ristoro, / lacero, sanguinoso; infin ch’arriva / colà dove la via / e dove il tanto affaticar
fu volto: / abisso orrido, immenso, / ov’ei precipitando, il tutto oblia. / Vergine
luna, tale / è la vita mortale.
Si spiega solo perché la costruzione letteraria deve raffigurare la vita come
nata già morta, anzi no – perché questo sarebbe già un bene: nata presso la
morte, già prossima ad essa nella sua vecchiezza; restando inspiegato «se la vita
è sventura, / perché da noi si dura» (vv. 55-56).
Nel silenzio di questo paesaggio selenitico si sente solo il «tacito, infinito andar
del tempo»; traiettorie di silenzio nel “vuoto” le cose – «ogni celeste, ogni terrena
cosa» – a girar «senza posa / per tornar sempre là donde son mosse» (vv. 95-
96). Si visualizzi questo vuoto giro di vento da un neutro – “donde” –, e non solo
in questo universo lunare si vedrà l’erma del Qohelet, ma – anche – da questo
universo lunare si vedrà scomparso «l’Amor che move il Sole e le altre stelle».
L’Amor Soter di Leopardi – di cui discorre la sinossi introduttiva alle Operette, la
Storia del genere umano – resta solo artificio del genere o della natura, o la mechanè
del «genio» della vita per dirla con Schopenhauer – ciò che fa il genio, la
sua astuzia, lo fa già ogni piccola vita come vita – per tollerare la Verità scoperta
dalla Sapienza, la storia eternamente rappresentata del genere umano. Ma in questo
paesaggio lunare del Canto notturno, è solo il lato dell’“ombra” ad avere voce:
la tesi generale del Dialogo di un fisico e di un metafisico, che «la vita infelice,
in quanto all’essere infelice, è male» (Operette morali, p. 196), è detta dall’interno,
è autoevidenza interiore che si fa sentimento generale chiuso, murato nel particolare:
«a me la vita è male»; se ne esce è solo per escludere «che degli eterni giri,
/ che dell’esser mio frale, / qualche bene o contento / avrà fors’altri», che «forse
erra dal vero, /mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: / forse in qual forma,
in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale».
La forza di quel “a me” – che ha un paragone nella letteratura italiana solo con
«e misi me per l’alto mare aperto» dell’Ulisse dantesco – è tutta ad escludere che
dal navigato mare dei pensieri di un affratellamento nel gemito, nella creazione
possa emergere anche l’astratta idea di una salvezza. In questo paesaggio spirituale
è favola che ci possa essere una nascita umano-divina, una culla in un covile,
che riscatti l’universale gemito della creazione. Nel cielo, accanto alla «silente
luna», non c’è nessuna stella della salvezza che possa smentire «chi Giobbe e Salomon
difende» (I nuovi credenti, v. 74), l’«amaro e noia» della «vita, altro mai
nulla»; la conferma in A se stesso di un deserto d’amore che fa «fango… il mondo
», anche il proprio sentire nell’«infinita vanità del tutto».
Una resa dei conti esistenziale già in incunabolo nelle prime pagine dello
Zibaldone (p. 72).
Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche
savio ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un’ora più quieta conoscerò la
vanità e l’irragionevolezza e l’immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche
questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà, lasciandomi in un
voto universale.
Dove l’«infinita vanità del vero» (Zibaldone, p. 69), l’oggetto della cognizione,
fa arco esistenziale con «l’infinità vanita del tutto», l’essere esperito, che sembra
non lasciar spazio più neanche al «piacer vano delle illusioni», «il più solido
piacere di questa vita» (Zibaldone, p. 51), equipaggiamento di sopravvivenza
per il singolo e per la specie, unica possibilità per l’uomo di resistere al nulla
e alla sua conoscenza, tutelata nell’«ingenuità» del bambino e del selvaggio, nella
«fantasia» dei primi poeti, in generale in ogni età «giovanile» della vita e della
cultura come ontogenesi che ogni volta ripete la filogenesi della specie.
Ma quando non si è più né bambini, né selvaggi, e neppure più «primi poeti
», poi che ci si è fatti «filosofi», quando né la cultura, né la propria biografia
spirituale consentono più «i dolci inganni», come si resiste al nulla, alla sua conoscenza?
Cosa fa argine al naufragio dell’Io, o almeno ne guida la pacificata
consegna ai «sovrumani silenzi» (L’Infinito), all’«antica natura onnipossente»
(La sera del dì di festa)?
È la poesia come Io lirico a svolgere questo ufficio di salvezza; un ufficio
che Leopardi le aveva affidato già per tempo, il 5 ottobre 1820, in un appunto
dello Zibaldone:
il sentimento del nulla è il sentimento di una cosa morta e mortifera; ma se questo
sentimento è vivo, come nel caso ch’io dico [l’effetto della poesia], la sua vivacità
prevale nell’animo del lettore alla nullità della cosa che fa sentire, e l’anima riceve
vita (se non altro passeggiera) dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua
delle cose, e sua propria (Zibaldone, p. 261).
È la poesia, il genere lirico
il solo che veramente resti ai moderni, […] genere, siccome primo di tempo, così
eterno ed universale, cioè proprio dell’uomo perpetuamente in ogni tempo ed in
ogni luogo, come la poesia; la quale consisté da principio in questo genere solo, e
la cui essenza sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde con
lei, ed è il più veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non
in quanto son liriche (Zibaldone, p. 4476, 29 marzo 1829).
che offre l’unica via d’uscita ai «disperati affetti» del “sensismo esistenziale”
cui si era consegnato il giovane Giacomo uscito «filosofo» dal suo annus
horribilis del 1819 al seguito di Locke e degli ideologues; sensismo per il quale
la prima delle passioni è il desiderio, ma consegnato ad una dinamica di inappagamento,
che farà della vita, nella sua concezione ormai già matura nel ’24,
un letto di dolore, taedium, aegritudo, «naturale e giusta scontentezza di ogni
stato»9; perché questo desiderio senza oggetto determinato e determinabile è
9 «Il tale diceva che noi venendo in questa vita, siamo come chi si corica in un letto
di duro e incomodo, che sentendovisi star male, non vi può star quieto, e però si ri-
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mutuato dallo spirito nella sua aspirazione all’infinito, ma cade e si deve muovere,
in questo sensismo, nell’intrascendibilità della materia, luogo sublunare
della limitazione e dell’inappagatività di principio di ogni aspirazione infinita10.
Il costrutto logico-gnoseologico ed ontologico – esistenziale – che ne vien fuori
è un’antropologia dell’incontentabilità umana, dell’inquietudine senza pace di
una «materia», eppure spirituale, l’uomo, che non si appaga di sé, e che questo
appagamento può trovare solo cedendo a sé fino in fondo, cedendo sé fino in fondo,
nella partecipazione sentita all’infinità materiale del cosmo, idillio cosmico
dove l’Io lirico è epifania del Tutto, unico mare possibile, questa «immensità», al
naufragio del nunc stans sensistico materialistico di quest’Io che si è vietato quanto
a sé ogni trascendenza futura; dove l’eterno, l’infinità temporale è partecipata
solo da ciò che è fuori di sé all’indice del passato e del presente, e può essere ascoltata
solo in questo esser seduti sul proprio naufragio, in questo naufragio con
spettatore interno ad esso, inteso a mirare «interminati spazi» in cui si scende: «e
mi sovvien l’eterno / e le morte stagioni, e al presente / e viva, e il suon di lei»11.
In questo «naufragar dolce», in questo universo di silenzi dove è finalmente
senza anelito, senza volere di sé, dove solo chi perde la propria anima la salverà,
l’Io leopardiano partecipa della parola che più di tutte non gli appartiene,
l’eterno; «e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente / e viva,
e il suo di lei». E viva, una pulsazione cosmica, in modo mirabile riespressa
nello squarcio forse più lirico de La Ginestra, «per lo voto seren brillare il
mondo», dove è l’anima a smentire l’ontologia negativa della teoria, di ciò che
si siede a vedere, «il flutto indurato», «la mesta landa».
In Leopardi è l’immaginazione, la forza immaginativa della concezione, del
concepire, della facoltà intellettiva come «sensazione dell’intelligenza» la vera facoltà
del bene e del male esistenziale. È in essa che come «dedizione al vero» scoperto
come «vero negativo» questa sensazione dell’intelligenza è l’irredimibile
autopercezione materialistica, capire che fa male, della propria mortalità individuale,
dell’inanità di sé come macchina desiderante, pura illusione irretita nella
malvagità di una natura cieca ed incomprensibile. Ma è sempre essa il tramite cui
l’Io lirico può sentire infinitamente, concepire l’infinito, averne nozione sentita12.
La punta della lancia che ha ferito, è anche l’unica che può medicare la ferita che
volge cento volte da ogni parte, e procura di vari modi di appianare, ammollire ec. il
letto, cercando pur sempre e sperando di avervi a riposare e prender sonno, finché
senz’aver dormito né riposato vien l’ora di alzarsi. Tale e da simil cagione è la nostra
inquietudine nella vita, naturale e giusta scontentezza di ogni stato; cure, studi, ed. di
mille generi per accomodarci e mitigare un poco questo letto; speranza di felicità o almen
di riposo, e morte che previen l’effetto della speranza» (Zibaldone, p. 4104, 25
giugno 1824; il Leopardi riprende un famoso detto del cardinal di Polignac).
10 Si rammentino i già ricordati pensieri del febbraio del 1821.
11 Sulla dimensione “spaziale” dell’Infinito leopardiano – testata proprio sulla scelta
della variante “interminati spazi” da parte del poeta – come «formazione dell’idea
dell’infinito nell’ordine dell’estensione (immensità)», cfr. le acute notazioni di B. Martinelli,
Leopardi tra Leibniz e Locke, cit., p. 277.
12 «Il desiderio di conoscere non è vero ch’egli sia infinito per sé, ma solo materialmente,
e come desiderio del piacere, ch’è tutt’uno coll’amor proprio. E non è vero
essa stessa ha recato. È questa sensazione dell’intelligenza virata al nulla, virata
sul nulla, dove tutto – cioè propriamente io, il «frale» cadere del tutto in me, l’esistenza
– è male, che nell’ontologia esistenziale leopardiana configura un’autocomprensione
materialistica della vita come materia pensante che non sa elaborare
il suo lutto fondativo, la mortalità in radice del suo esserci, dove non è il peccato
– un elemento spirituale – entrato nel mondo a spiegare la morte, dove tolto
il peccato per un progresso dello spirito sarebbe tolta la morte, ma è il mondo
come esistenza ad entrare vivendo nel peccato, cioè nella morte.
Una visione desolata, a cui è data solo la chance cognitiva della sapienza silenica,
che il meglio è il non essere nati, e dopo di ciò il morire presto (cfr. Zibaldone,
p. 4174), ripresa in vero della magra consolazione qoheletica sugli
stolti: «Il cuore dei sapienti / è in una casa di lamento / il cuore degli idioti /
in una casa di piacere» (Qohelet, 7,4).
E pure è questa stessa «sensazione dell’intelligenza» come idillio cosmico
attinto nell’immaginazione l’unico modo per la vita di naufragare in piedi,
spettatori del proprio naufragio alla macchina dell’anima, nel ricordo che
prende il cuore di un’appartenenza anteriore ad ogni separazione. È in questo
virare dell’immaginazione sull’idillio, nell’Io lirico, come epifania del cosmo,
che il grande risentimento – proprio all’anima romantica, detto benissimo
dal Werther goethiano: «questa forza di struggitrice che giace occulta in
tutta quanta la natura, che non formò cosa alcuna la quale non distrugga se
stessa e ciò che tocca, questo, questo mi rode il core lentamente», dove l’immane
potenza del negativo (omnis determinatio est negatio, dirà Hegel, che
vorrà conciliare) è visto solo distruzione, e non anche lavoro del negativo a
produzione del nuovo, a rendere ragione della realtà – si fa se non il grande sì
alla Vita, che griderà Nietzsche, almeno un sommesso dir di sì, a lei che pure
non mi conserva e non mi appaga.
che l’uomo naturale sia tormentato da un desiderio infinito precisamente di conoscere.
Neanche l’uomo corrotto e moderno si trova in questo caso. Egli è tormentato da
un desiderio infinito del piacere. Il piacere non consiste se non che nelle sensazioni,
perché quando non si sente, non si prova né piacere, né dispiacere. Le sensazioni non
le prova il corpo, ma l’anima, qualunque cosa s’intenda per anima. La sensazione dell’intelligenza,
è il concepire. Dunque l’oggetto della facoltà intellettiva, è il concepire
(non il vero[…]). L’uomo desidera un piacere infinito in tutte le cose, ma non può provare
una certa infinità, se non nella concezione, perché tutto il materiale è limitato.
L’uomo dunque prova piacere nella maggiore estensione possibile della concezione,
ossia dell’atto della facoltà intellettiva. […] Questo è indipendente dal vero. L’uomo
non desidera di conoscere, ma di sentire infinitamente. Sentire infinitamente non può,
se non colle facoltà mentali in qualche modo, ma principalmente con l’immaginazione,
non colla scienza o cognizione, la quale anzi circoscrive gli oggetti, e quindi esclude
l’infinito. E da queste cose si potrà dedurre che anche la curiosità, o desiderio di
conoscere, o piuttosto di concepire, derivi (non) da una determinazione arbitraria della
natura, a fare che il conoscere o concepire sia piacere, ma da questo stesso, che l’uomo
desidera illimitamente il piacere, contro quello che ho inclinato a credere nella teoria
del piacere. Del resto questo desiderio infinito di concepire, dev’essere essenzialmente
comune anche ai bruti» (Zibaldone, pp. 384-5, 7 dicembre 1820).
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È questo idillio cosmico, dove l’anima è sempre alla sera, e mai sia pure attonita
intenta alla «gloria del disteso mezzogiorno» (Montale), l’unico modo
per essa di appagarsi. In questa epifania lirica sensazione, ricordo, desiderio –
presente, passato, futuro della vita a se stessa – ritessono all’Io leopardiano le
strade di un’appartenenza, riemerge il mondo come rete di relazioni che se
non accudisce almeno avvolge e custodisce, e in fondo consente di stare. Nella
voce un contenuto di disperazione si muta in pura consolazione della parola,
miracolo dell’essere seduti sul proprio naufragio, sul naviglio di nulla dell’Io
che si abbandona, svuotato di sé, per la sua anima. Consegna di sé – «insueto
gaudio» – alla «vittrice ira dell’onda», farsi anima di tutto, anima con
tutto, che «l’atra notte e la silente riva» elevano a «altissima» «profondissima
quiete», «etra liquido», «silente luna», «placida notte», «mare», «fiume»,
«ond’io quasi me stesso e il mondo obblio / sedendo immoto; e già mi par che
sciolte / giaccian le membra mie, né spirto o senso / più le commova, e lor
quiete antica / co’ silenzi del loco si confonda» (La vita solitaria). Consegna di
sé alla musica delle sfere. Qui non è il nulla a sedere immoto sull’Io, pesato alla
sua culla e peso alla sua tomba, ma è l’Io che finalmente si spoglia di sé, non
più offeso dal tacito infinito andar del tempo, ma intento ad esso, pareggiato
alla sorella luna, mentre questo infinito andar del tempo lo dice:
Pur tu, solinga, eterna peregrina, / che sì pensosa sei, tu forse intendi, / questo viver
terreno, / il patir nostro, il sospirar, che sia; / che sia questo morir, questo supremo
/ scolorar del sembiante, / e perir dalla terra, e venir meno / ad ogni usata,
amante compagnia. / E tu certo comprendi / il perché delle cose, e vedi il frutto /
del mattin, della sera, / del tacito, infinito andar del tempo (Canto notturno di un
pastore errante dell’Asia).
Qui la poesia assolve al suo antico ufficio performativo di fare la vita che
dice. Unico modo in cui può reggere la vita un Io che nella “vita” o nel “vivente”
si è negato ogni fiducia, un Io che non ha saputo avere in essa fiducia;
che può reggere la vita una vita che non ha saputo camminare sulle sue acque13,
perché possa accettare il naufragio che vede ed intanto tenere nella parola
guardando avanti le acque del proprio naufragio.
13 Matteo, 14, 22-33: Subito dopo ordinò ai suoi discepoli di salire sulla barca e di precederlo
sull’altra sponda, mentre egli avrebbe congedato la folla. Congedata la folla, salì
sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù. La barca intanto
distava già qualche miglio da terra ed era agitata dalle onde, a causa del vento contrario.
Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare. I discepoli,
nel vederlo camminare sul mare, furono turbati e dissero: «È un fantasma» e si misero
a gridare dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro: «Coraggio, sono io, non abbiate paura
». Pietro gli disse: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque». Ed egli
disse: «Vieni!». Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò
verso Gesù. Ma per la violenza del vento, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò:
«Signore, salvami!». E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca
fede, perché hai dubitato?». Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla
barca gli si prostrarono davanti, esclamando: «Tu sei veramente il Figlio di Dio».
Di poter dire con serenità: «Vo dove ogni altra cosa, / dove naturalmente
/ va la foglia di rosa, / e la foglia d’alloro», «Lungi dal proprio ramo»; i versi
di La foglia, un’imitazione da Arnault, forse del 1818 ad aprire gli Idilli, che
Ranieri secondando un desiderio del Leopardi pose non errando a chiusa dell’edizione
del ’45 dei Canti.
Eugenio Mazzarella
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