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Intellettuali, istituzioni e città a Napoli (1945-2007)
di Giuseppe Galasso
Non è facile indicare altre città italiane in cui si parli degli “intellettuali”, si cerchino e si ascoltino le loro opinioni, li si consideri un elemento primario e una componente autorevole della vita sociale e politico-amministrativa come accade a Napoli. Più facile è, invece, notare come questo appaia un dato di fatto emergente nel ritorno a una vita politica libera dopo la seconda guerra
mondiale e gradualmente consolidatosi e cresciuta nei decennii successivi.
Per quali ragioni? La domanda – non sempre ragionevole, ma sempre giustificata e comprensibile nel suo porsi – è inevitabile anche in questo caso.
Si può osservare, intanto, a tale riguardo, che nel periodo prefascista un ruolo degli intellettuali nella vita cittadina può essere notato, nell’ampio senso assunto dal termine nel periodo post-1945, solo discontinuamente, in particolari momenti e su particolari problemi. Perfino, le discussioni sull’unificazione italiana nella legislazione e negli ordinamenti, le rivendicazioni legittimistiche in senso borbonico e indipendentistico, i discorsi sul brigantaggio come “questione meridionale” (quale proprio a Napoli lo qualificò il giornale «Roma», che fu perciò l’inventore di questa espressione destinata, in altro senso, a tanta fortuna) e sulla sua repressione, le polemiche sul laicismo e sulle secolarizzazioni operate dal nuovo Stato, e altre simili occorrenze dei primi fervidi decennii dell’unità furono intesi e condotti come discorsi politici, come tali da praticare, mentre la partecipazione di intellettuali di altissimo profilo alla vita politica, si trattasse del De Sanctis o di Silvio Spaventa o di altri, non ebbe molto del profilo della “cultura militante”, nel senso di questa definizione nel secolo XX, e contemplò il livello nazionale, non quello cittadino, come dimensione del proprio impegno.
I due eventi certamente più importanti, pressoché da ogni punto di vista, nella vita cittadina di allora – l’«operazione Risanamento» e l’industrializzazione promossa nella scia della «legge speciale» per Napoli del 1904 – sollevarono dibattiti e interventi numerosi, e spesso di indubbio spessore qualitativo, ma in larghissima misura circoscritti agli ambienti tecnici, economici, politici, amministrativi. Una partecipazione degli intellettuali analoga a quella diventata canonica dopo il 1945 si poté notare in qualche circostanza (come, ad esempio, per la difesa di qualche memoria o documento della storia napoletana attaccato o minacciato dal Risanamento: e così accadde per la chiesa della Croce di Lucca, ad esempio, e in varie prese di posizione della benemerita rivista «Napoli Nobilissima», nonché su problemi come quelli relativi all’ordinamento del Museo archeologico; e sarebbe accaduto poi per la collocazione della Biblioteca Nazionale in un’ala del Palazzo Reale).
Ciò non vuol dire che i dibattiti sul Risanamento o sull’industrializzazione non sollevassero echi giornalistici e pubblicistici assai ampii, e di risonanza più che cittadina. Le Lettere Meridionali di Pasquale Villari e Il Ventre di Napoli della Serao, alcuni scritti di Giustino Fortunato e le tesi di Nitti sull’industrializzazione della città rimasero, anzi, negli annali della cultura nazionale di quel periodo. E, tuttavia, sarebbe difficile inquadrare queste presenze e i relativi echi nel contesto di qualcosa come ciò che poi è stato inteso per “cultura militante” o come presenza e azione degli “intellettuali”. Gli autori stessi che abbiamo citato e quelli che ad essi si possono associare rimarrebbero sorpresi all’udire di tali qualificazioni o, addirittura, e semplicemente, non le capirebbero. Si era, cioè, nel tempo e nel costume di una prassi sociale che includeva e sollecitava presenze ed echi come quelli accennati, ma era del tutto aliena dal definirli e intenderli sul piano sociologico, o anche solo su un piano socio-culturale, come quello di cui si è parlato quando poi si è parlato degli “intellettuali”.
Nel periodo giolittiano qualcosa cominciò, invero, a mutare. Soprattutto attraverso Arturo Labriola, la partecipazione napoletana alla discussione degli inizi del secolo XX sul socialismo e sul sindacalismo rivoluzionario fu notevole.
Gli sviluppi del nazionalismo e delle sue inferenze culturali riscosse, negli stessi anni, passando in parte anche per «Il Mattino», un’eco anch’essa notevole negli ambienti culturali della città. A loro volta, le elezioni amministrative del 1913, opponendo un blocco popolare a un fascio delle forze moderate, liberali e anche di altre tendenze qualificabili di destra, furono più vivamente sentite di altre analoghe prove precedenti, e videro partecipare alla lotta elettorale firme di primo piano della cultura cittadina, e addirittura Benedetto Croce, mentre del blocco popolare l’animatore fu soprattutto il Labriola.
Quella stessa occasione elettorale fu un momento di forte presenza anche dei circoli massonici della città, e questo può offrire il destro a osservare che nella militanza massonica si manifestò e si esaurì, assai spesso, la partecipazione degli ambienti culturali della città alla vita pubblica e ai correlativi impegni e dibattiti. Ciò rispondeva, inoltre, anche al fatto che questi impegni e dibattiti riguardarono assai spesso piani diversi da quello politico. Se si fa il confronto con le discussioni, ad esempio, sul darwinismo o sull’attualità letteraria e teatrale o sulle arti figurative o su idee come quelle di “progresso” e di “determinismo” nelle loro varie applicazioni, si capirà, forse, meglio il senso di questa osservazione.
Poi, la guerra sopravvenuta nel 1915 eccitò, ovviamente, le emozioni e le passioni, i sentimenti e le idee, e comportò, con quella che allora fu detta “mobilitazione civile”, nuovi momenti e tipi di presenze nella vita sociale. Occorre, peraltro, giungere al momento in cui l’instaurazione di un regime sovvertitore della libertà italiana sconvolse dal profondo gli equilibri e le dinamiche della vita nazionale perché un nuovo ruolo degli intellettuali si delineasse con una qualche evidenza, ma – bisogna subito aggiungere – all’interno di ambienti pur sempre alquanto circoscritti, dal punto di vista sociale, neppure tanto larghi quanto, forse, si potrebbe credere sullo stesso piano della vita intellettuale.
Certo, il “manifesto” degli intellettuali antifascisti, sollecitato e promosso da Benedetto Croce, rappresentò nel 1925 un momento eccezionalmente importante non solo per le adesioni raccolte a Napoli, che furono particolarmente numerose. Le copiose adesioni si potevano ben spiegare con la forte influenza locale sia di Croce che di Giovanni Amendola, l’altro sollecitatore di quella iniziativa. L’importanza deriva, invece, innanzitutto da un’altra ragione. Il manifesto crociano fissava, infatti, un criterio di definizione dell’intellettuale e del suo ruolo in politica, il cui interesse andava e va ben oltre la specifica occasione in cui fu formulata.
Gli intellettuali – vi si diceva – sono «i cultori della scienza e dell’arte» e sono, certamente, anche cittadini, ma,
se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l’ascriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l’opera dell’indagine e della critica e le creazioni dell’arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale affinché, con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie. Varcare questi limiti dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza è un errore.
E poiché nel caso del manifesto degli intellettuali fascisti il manifesto crociano imputava a questi ultimi di aver commesso l’errore di contaminare letteratura e scienza con la politica «per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa», si affermava pure che non si poteva nemmeno parlare di «errore generoso» dei redattori e firmatari di quel manifesto.
Il manifesto fascista era uscito, in effetti, da un convegno degli intellettuali fascisti tenutosi a Bologna, per iniziativa di Giovanni Gentile, nella data simbolica del 21 aprile, al quale avevano aderito alcuni napoletani di indubbio nome, quali Alfredo De Marsico, Salvatore Di Giacomo, Lorenzo Giusso, Vittorio
Pica, Ferdinando Russo, Nicola Sansanelli. Più numerose le adesioni al manifesto antifascista da Giustino Fortunato a Matilde Serao, Enrico Altavilla,
Vincenzo Arangio Ruiz, Augusto Graziani, Ezechiele Guardascione, Carlo Maranelli, Gherardo Marone, Giovanni Miranda, Raffaello Piccoli, Giuseppe Salvioli, Emilio Scaglione, Paolo Scarfoglio, Michelangelo Schipa, Floriano Del Secolo e varii altri.
Tenuto conto della distinzione crociana tra l’intellettuale come cultore della scienza e dell’arte e l’intellettuale come cittadino, queste adesioni erano ancor più significative poiché postulavano una specifica adesione nella qualità
degli intellettuali come cittadini, e quindi politicamente molto più pronunciata. Di lì a poco, tuttavia, anche la scena napoletana sarebbe del tutto mutata. Addirittura qualche firma del 1925 al manifesto crociano fu ritrattata (doloroso fu, ad esempio, per Croce il caso di Michelangelo Schipa), e abbiamo già accennato ai limiti dell’antifascismo anche a Napoli. Tuttavia, gli anni ’30 furono, a loro volta, per la vita intellettuale come per molti altri fattori della vita napoletana, un periodo di straordinaria importanza, tuttora non studiati e penetrati in conformità al loro rilievo. Ed è, anzi, proprio questo rilievo delle trasformazioni che in quel decennio si ebbero nella realtà napoletana a spiegare, nel fondo, la evidente diversità del periodo seguito alla seconda guerra mondiale rispetto ai precedenti che qui si è cercato di delineare.
Il dato più caratterizzante di tale diversità può essere facilmente indicato nella parte rilevante, rivendicata e riconosciuta degli intellettuali nella vita pubblica della città, per cui gli annunci e le prime manifestazioni che di ciò si erano avuti negli anni ’20 furono di gran lunga superati. Chi faccia la storia dei circoli culturali napoletani del dopoguerra tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50 – ne ricorderò uno solo: “L’Atollo”, che ebbe un lungo momento di felice fioritura – se ne potrà rendere facilmente conto.
I settori nei quali la presenza politica e civile degli intellettuali venne allora più avvertita furono indubbiamente quello liberal-democratico e quello della sinistra (e della sinistra comunista di gran lunga di più di qualsiasi altro settore della stessa sinistra). In progresso di tempo la parte della sinistra – e, quindi, appunto, del Partito Comunista – divenne dominante, e perfino tale da dare spesso l’impressione di essere esclusiva, nel ricercare e nell’ottenere ed esibire la presenza degli intellettuali alla vita di partito e, soprattutto, nelle liste elettorali e nelle rappresentanze ai varii livelli istituzionali. Peraltro, il successo comunista in questa azione di reclutamento indusse subito anche le altre forze politiche a fare altrettanto, più o meno negli stessi modi. Con una differenza, tuttavia, rilevante e, certamente, non casuale: e, cioè, che nel caso dei comunisti la ricerca e l’inserimento degli intellettuali nel proprio quadro elettorale e nelle loro rappresentanze politico-amministrative si traduceva in acquisizioni permanenti anche nelle loro organizzazioni di partito o in altrettanto durature e organiche forme di prossimità e di identificazione politica. Fu così che già nel corso degli anni ’50 la figura dell’«indipendente di sinistra» divenne un tópos socio-politico-culturale, se così si può dire, intorno al quale non mancò di fiorire una serie assai ampia di qualificazioni che andavano dal «compagno di strada» all’«utile idiota».
Questa non fu, invero, una particolarità napoletana. Fu una vicenda italiana, che non mancò di grandi assonanze al di là delle Alpi e fu, almeno in buona parte, l’eco e la manifestazione di una vicenda generalmente europea. Il «compagno di strada», l’«indipendente di sinistra» o – nella vulgata ostile – l’«utile idiota» furono qualificazioni diffuse, come in Europa, così in tutta Italia. È sintomatico che – per quanto riguarda gli intellettuali – queste qualificazioni fossero relative a un fenomeno che, non tanto dal punto di vista numerico quanto dal punto di vista del significato etico-politico e culturale della scelta degli interessati, toccò soprattutto, appunto, gli intellettuali. E, benché numerosissime, anzi senz’altro più numerose, fossero le adesioni di questi ultimi direttamente ai partiti, e innanzitutto e soprattutto al PCI, sull’opinione pubblica facevano molta più impressione coloro che sceglievano di affiancare i partiti, mantenendo una propria indipendenza dalla militanza di partito e dalla correlativa disciplina.
Poteva anche esserci in queste scelte di affiancamento un più o meno consapevole, più o meno accorto gioco personalistico dei singoli. Per quanto potesse esservi, un tale gioco non costituiva e non ledeva, però, il significato politico-sociale del fenomeno sia dentro che fuori dei partiti. E diciamo politico-sociale a ragion veduta, perché dal punto di vista culturale – nel senso delle acquisizioni di categorie di pensiero e di conoscenze, di prassi intellettuali e di socializzazione della cultura – il guadagno derivante dalla cresciuta presenza e partecipazione degli intellettuali alla vita politica, sia come militanti di partito che come «compagni di strada», non fu pari a quello politico-sociale e a quello dei suoi effetti, modesti o ampii che si vogliano giudicare questi effetti, sul piano politico, elettorale e rappresentativo (anche se, come diremo, un guadagno ne senso culturale qui considerato pure vi fu).
Naturalmente, non si può fare a meno, a questo punto, di chiedersi perché l’adesione e la partecipazione degli intellettuali fosse tanto auspicata e promossa anche da partiti che, come quello comunista, avevano basi sociali e organizzative fortissime e non mancavano di un loro solido spessore culturale.
Il problema può ricevere la dovuta risposta solo se si pensa che nei paesi occidentali la grande posta nella partita politico-sociale-elettorale propria dei regimi di libertà era la conquista del favore, se non della adesione, dei ceti medi. A entrambi gli estremi della scala sociale – quello di massa, popolare, contadino e quello dei ceti ricchi, proprietari, imprenditori o redditieri o in condizione di eminenza e di potenza sociale – l’impatto dalle prese di posizione degli intellettuali non mancava, ma era comprensibilmente meno forte e, soprattutto, meno efficace che per il vasto universo dei ceti medi: enorme aggregato esteso dai ceti piccolo-borghesi a quelli della media borghesia in tutti, nessuno escluso, i settori delle attività economiche, tecniche e professionali e delle condizioni patrimoniali e di reddito di una moderna affluent society. Agli occhi di questo vasto universo l’adesione e la partecipazione degli intellettuali non davano solo prestigio, come accadeva anche sia a livello popolare che al livello più alto della scala sociale. Davano, ancora di più, la credibilità e la sicurezza derivanti dalla competenza, dall’autorevolezza e dell’autonomia di valore, di comportamento e di mentalità, che generalmente si attribuivano agli intellettuali per il fatto di essere o di apparire tali.
Qui si imporrebbe, probabilmente, qualche riflessione sulle ragioni storiche e sostanziali di un tale diffuso e sentito accreditamento. Si è, infatti, portati a pensare, a questo proposito, alla profonda penetrazione sia della «gloria delle lettere», di ascendenza umanistica e romantica, sia del «mito della scienza», di ascendenza illuministica e positivistica, nell’opinione sociale, in genere, e in quella dell’universo dei ceti medi, in particolare, che della società moderna e opulenta costituiscono la sezione in più rapida, intensa ed estesa, oltre che più significativa e rappresentativa, espansione. Basti, tuttavia, questo accenno a indicare la rilevanza del problema per la storia socio-culturale della stessa società moderna e opulenta.
Qui bisogna, piuttosto, osservare che, se lo sforzo di reclutare gli intellettuali ai fini della propria azione politica e affermazione elettorale fu, da parte dei partiti, uno sforzo notevole e costante, non si deve, peraltro, credere che vi fosse soltanto il reclutamento dei partiti nel sollecitare l’adesione degli intellettuali. Vi fu anche, indubbiamente, un moto spontaneo di questi ultimi verso la politica e i partiti. Anche qui ci dobbiamo limitare a qualche accenno, soprattutto per notare come vi sia stato nei primi due o tre decennii dalla fine della guerra, attraverso quel moto spontaneo, un effetto culturale non trascurabile, poiché, di certo – dal punto di vista e sulla scala della vicenda individuale e personale dei singoli intellettuali protagonisti delle scelte di cui parliamo – non mancarono mutamenti di punti di vista, conquiste di prospettive, scoperte di campi di lavoro, conseguimenti di visioni e giudizi, che, specialmente in alcuni settori della discipline umanistiche, furono talora notevoli. E lo notiamo pur ribadendo che, come si è detto, sulla scala non individuale e personale, ma generale e sostanziale, lo spessore politico-sociale della presenza degli intellettuali nella vita pubblica nel periodo del quale parliamo fu senz’altro superiore, a nostro avviso, al suo rilievo innovatore sul piano specificamente culturale e scientifico, e ciò – come era naturale – in particolare nelle discipline tecniche e sperimentali o fisico-matematiche.
Fenomeno, dunque, tutt’altro che limitato a Napoli; e, tuttavia, fenomeno che si è venuto a Napoli rapidamente connotando in modo particolare quella, a così dire, sovraesposizione, che qui si registra, dell’intellettuale in quanto partecipante di particolare qualificazione alla vita pubblica, con una sua pregiudizialmente annessa autorevolezza, con un suo speciale diritto di pronuncia consenziente o dissenziente su tutte le questioni agitate nella vita pubblica, con un’assoluta informalità dei modi e delle sedi in cui esprimere tale
pronuncia, con un indifferenziato riconoscimento della qualifica di intellettuale a chiunque – di sua iniziativa e di propria autorità – si dichiari tali (e si dichiari, quindi, studioso, artista, letterato, scrittore, attore, addetto a servizi più o meno culturali, giornalista, docente o altra assimilata o assimilabile qualificazione). Insomma, quasi un corpo rappresentativo a sé nel quadro delle riconosciute e ufficiali rappresentanze istituzionali della società nazionale.
Non è precisamente – a ben vedere – il caso di quelle più che lecite e non di rado benemerite “associazioni dei consumatori”, via via implicitamente trasformatesi da meritorie iniziative per sostenere e difendere un interesse fin
troppo generale, qual è quello dei consumatori, in riconosciute, o almeno convenute, rappresentanze para-istituzionali degli stessi consumatori. A merito degli intellettuali va detto che non è questo a rispondere allo spirito delle loro iniziative di presenza e di discussione e di dichiarazione o enunciazione dei loro punti di vista. Indubbio è, però, che nella loro ambizione la mira è, in una generica analogia, assai più alta. È la mira di un ufficio civico aureolato dalle certezze e dalle rivendicazioni di uno spirito di casta, intellettualmente, se non anche moralmente, superiore.
È difficile pensare che questo profilo dell’intellettuale – non solo a Napoli, come si è detto, ma a Napoli particolarmente evidente e rilevante – non sia in relazione, qui, con la generale fisionomia sociale della città stessa. Una fisionomia, come si sa, caratterizzata da una insufficienza e debolezza tradizionali della sua struttura produttiva; da una presenza di ceti professionistici e impiegatizi di debole consistenza economica sia per la loro funzione che per i loro patrimoni e i loro redditi; dalla prassi sedimentata di una dialettica causidica e di una retorica sempre in eccesso o in difetto rispetto alla realtà delle cose; da una mutevolezza di sensazioni e impressioni, di atteggiamenti e di comportamenti, di idee e di giudizi molto schiacciata sulla immediatezza del momento e della breve durata; da una componente alquanto minoritaria di professioni e preparazioni o attività tecniche qualificate, che si congiunge a uno spirito di improvvisazione e di leggerezza diffuso in tutta la vita sociale, non solo sul piano tecnologico.
Beninteso, i tratti di fisionomia sociale ai quali abbiamo accennato non vogliono in alcun modo proporre un modello o una interpretazione della «napoletanità», comunque intesa, o un’antropologia culturale o non culturale dell’homo neapolitanus. Si tratta di osservazioni intese unicamente a una lettura specifica del fenomeno “intellettuali” così come lo abbiamo indicato, e nel periodo indicato. Il rinvio a condizioni ambientali di fondo richiama ragioni e connessioni, che sono anch’esse storicamente determinate, a cominciare da quelle economiche. E la vicenda del periodo seguito alla seconda guerra mondiale sembra esigere in modo particolare che questa precisazione venga tenuta ben presente.
Dal punto di vista politico la città ha visto susseguirsi in tale periodo prevalenze ed equilibri diversi: fino all’inizio degli anni ’60 col netto prevalere – in difformità dagli indirizzi nazionali – della Destra, di cui Achille Lauro rimase
sempre il massimo esponente; poi, fino alla metà degli anni ’70, col prevalere del centro-sinistra, in parallelo, al contrario che nel periodo precedente, alla maggioranza prevalente allora a livello nazionale; quindi, dalla metà degli anni ’70 fino al 1983 con la prima grande affermazione della sinistra, e in particolare dei comunisti, che portò Maurizio Valenzi al governo della città, e, anche in questo caso, in difformità dalle maggioranze nazionali, ma parallelamente alla vicenda degli anni della “solidarietà nazionale”; nel decennio 1983-1993, con l’affermazione del cosiddetto “pentapartito”, ancora una volta in parallelo con le maggioranze nazionali; infine, dal 1994 in poi, con una rinnovata e maggiore prevalenza della sinistra, quando in conformità e quando in difformità rispetto alle maggioranze nazionali, e con i sindaci Bassolino e Iervolino.
Al ruolo molto più evidente assunto, come si è detto, dagli intellettuali in questo sessantennio – secondo una tendenza nazionale (e neppure soltanto nazionale), ma nella particolarità, alla quale abbiamo accennato, delle condizioni di Napoli – quale effettivo loro rapporto ha corrisposto con le istituzioni e con la realtà sociale della città?
Sarebbe presuntuoso credere o affermare di avere una risposta sicura ed esauriente a questo riguardo. È possibile, tuttavia, ritenere che alla maggiore vistosità abbia corrisposto una effettiva, maggiore presenza degli intellettuali nella vicende politico-amministrative di Napoli rispetto ad altre fasi della vita cittadina. Bisogna, però, anche riconoscere che una tale maggiore partecipazione si è prodotta e si è manifestata attraverso il richiamo, l’iniziativa e le attività dei partiti, o, comunque, di personalità e gruppi politici, molto di più che per diretta iniziativa e azione di singoli o di gruppi intellettuali. Anche questa non è una vicenda soltanto napoletana, e anche questa è, però, una vicenda che ha assunto a Napoli contorni e caratteri particolari, in funzione, come è facile supporre, della più generale particolarità che anche su questo piano abbiamo richiamato, ma anche – occorre aggiungere – in funzione dei particolari contorni e caratteri che, in una società come quella napoletana, ha avuto nel tempo il rapporto dei partiti, delle forze e delle personalità politiche con la società e con le istituzioni locali.
Questo criterio consente di sfuggire a due luoghi comuni assolutamente fuorvianti in questa materia.
Il primo è riassunto dalla diffusissima definizione dell’«intellettuale prestato alla politica», che sottintende un profilo specifico dell’intellettuale nel momento in cui, in una società politica come quella napoletana, che esaspera o deforma i tratti di ambiti più vasti, l’intellettuale stesso prende parte alla vita e alle attività politiche e amministrative. Occorrerebbe dire con chiarezza che di questi prestiti la politica – ossia i partiti, i gruppi, i protagonisti della vita politica – non sente alcun bisogno. Ciò che essa chiede o è l’orpello del nome (meglio se del “grande nome”), e in tal caso il nome serve ad adornare le stanze e i circoli della politica, e l’intellettuale (così usato, non prestato) rimane regolarmente al di qua dei livelli della effettiva elaborazione, maturazione e decisione politica; oppure è il contributo di una partecipazione attiva e fattiva, e in questo secondo caso si vede bene come si operi una saldatura e un adeguamento dell’intellettuale nei quadri della forza politica di cui partecipa, e il prestito segna allora una metamorfosi, che di fatto è piena, dell’intellettuale in quadro politico sostanzialmente, anche se non formalmente tale.
Questo spiega la doppia facies dell’intellettuale di cui si presume il prestito alla politica: da una parte, nel secondo caso, una febbre di azione, un’attività precisa e finalizzata, una persuasione di stare «dentro le cose»; dall’altra parte, nel primo caso, uno spaesamento, un disorientamento, una insoddisfazione, che solo le (pochissime) personalità più forti e più consapevoli superano in un giusto dimensionamento del proprio modo e della propria possibilità di «stare in politica», come suol dirsi, e nella convinzione di dare, anche così, un proprio specifico contributo alla parte per la quale ci si schiera.
Il secondo luogo comune al quale si può sfuggire è che i politici e la politica occupino tutto lo spazio della politica e delle sue decisioni; e che in questo spazio gli intellettuali non entrino se non per la porta di servizio che li trasforma da prestiti di orpello in prestiti attivi e funzionali. La realtà non è questa. Almeno nel caso di Napoli la realtà è che dietro ogni politico o gruppo o partito politico stanno sempre uno o più intellettuali, uno o più studi professionali, una o più competenze tecniche e operative, che lanciano soluzioni, preparano progetti, scrivono deliberazioni o abbozzi di deliberazioni, indicano strade percorribili o preferibili per conseguire legalmente e tecnicamente gli obiettivi che il mondo politico fissa alla sua azione e di cui si riserva, ovviamente, la guida.
Questo retroscena della politica assume poi un particolare rilievo là dove la politica si muove entro orizzonti condizionati e limitati da contesti sociali che non siano ricchi di risorse e di dinamismo economico e sociale, come è appunto il caso di Napoli. In questi contesti di più magra consistenza strutturale il retroscena della politica al quale ci riferiamo impone competizioni, concorrenze, confronti, misure molto più severi che altrove. Si pensi a ciò che Salvemini diceva della piccola borghesia meridionale abbarbicata ai municipi in
una lotta di basso profilo per contendersi quel che le locali istituzioni possono offrire in assenza di altri e più sostanziosi e redditizi campi di affermazione. Napoli è, naturalmente, ben altra cosa da un qualsiasi municipio di campagna o di montagna e i ceti napoletani a cui ci riferiamo sono ben altra cosa dalla piccola borghesia a cui si riferiva Salvemini. E, tuttavia con tutte le profonde diversità del caso, questo richiamo a Salvemini e a una delle sue giustamente più celebri pagine politiche e meridionalistiche ha suo senso che non dovrebbe sfuggire.
Tanto meno dovrebbe poi sfuggire se si riflette alla mutevolezza di atteggiamenti e di tendenze dei ceti di cui parliamo. Studi ed esponenti delle professioni e della tecnica, della vita culturale e di quella sociale seguono, in generale, senza grandi traversie, il mutare dei venti e delle onde nel piccolo pelago napoletano; e li si ritrova, perciò, dietro e intorno nuovi potenti, come
dietro e intorno ai vecchi in manifestazioni e occasioni pubbliche di ogni genere, presenza e corteo adulatorio e autopromozionale, né più né meno di come i ricevimenti e le feste si susseguono da periodo a periodo negli stessi salotti o ville o saloni, di stagione in stagione politica, ugualmente sempre con e intorno ai nuovi potenti così come in precedenza intorno ai vecchi potenti,
senza sostanziali mutamenti di fondo nel costume cittadino e nella prassi della vita pubblica e della vita sociale.
Quando si dice che il popolo di Napoli è volubile, è instabile, non dà affidamento di costanza pubblica e civica, si dice, perciò, solo una metà del vero, se non si dice anche che di quel popolo è parte integrante, in quanto protagonista sociale, l’intero universo cittadino. La teoria dei «due popoli» – geniale intuizione di Cuoco per definire e penetrare il senso di una determinata e specifica congiuntura storica – non si può prestare, avulsa dalla specifica circostanza a cui era riferita, a servire da base a una metafisica antropologica bipartita della napoletanità, al di là di quel che ovunque, sotto tutti i cieli e in tutti i tempi, è la naturale articolazione delle società complesse in livelli socio-culturali diversi e, eventualmente, contrapposti.
Queste premesse possono, forse, aiutare a spiegare l’impressione che molti esprimono – a ragion veduta e comprensibilmente – secondo la quale né con le istituzioni, né con la realtà sociale l’intelligencija napoletana è riuscita, nel più che sessantennio trascorso dalla fine della seconda guerra mondiale, a stringere un rapporto più sostanziale e fecondo di quel che sempre è stato nelle sue tradizioni. Sarebbe, tuttavia, questa, una troppo facile – e anche vagamente moralistica – conclusione. In sessant’anni è profondamente mutata la città, ed è del pari profondamente mutata l’intellettualità cittadina; né questo mutamento è stato puramente e semplicemente e soltanto una discesa agli inferi. La Napoli di oggi è forse meno strutturata e robusta di quella sulla quale la seconda guerra mondiale rovesciò lo tsunami di terribili rovine non solo materiali, ma è forse una città più moderna negli spiriti e nelle prospettive. La stessa intellettualità può vantare un inserimento nazionale e internazionale che si è esteso fino a livelli che erano una volta del tutto confinati in un localismo e in un tradizionalismo di ristretto respiro. Perfino gli aspetti deteriori e più problematici e negativamente condizionanti della realtà napoletana non sono più quelli folcloristici di tempo fa.
Proprio, tuttavia, a ben vedere, questa storicità permanente e vitale della realtà napoletana; questo suo rifuggire – oggi come, in effetti, sempre – da quella imbalsamazione immobilistica, che è patologicamente cara a tanta parte della retorica napoletanistica, assicura che anche la partita napoletana è tuttora, come sempre, una partita aperta, per la quale occorre sempre, certo non meno di ieri, trovare le carte giuste. E se mi fosse permessa un’osservazione del tutto personale, e probabilmente indiscreta, direi che una buona carta potrebbe essere anche trovata negli intellettuali di una città così ricca di tradizioni e di energie culturali, se nella vita pubblica essi considerassero l’opportunità di smobilitarsi un po’ come intellettuali e di mobilitarsi molto di più come cittadini: non cittadini di una couche sociale peregrina e distinta, ma come cittadini della strada e di ogni giorno, uomini comuni della città, che sappiano non essere uomini qualunque.
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