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In vista del 14 ottobre
di G. G.
Fino alla metà di settembre il confronto fra i candidati alla segreteria del neonato Partito Democratico non ha fatto registrare emozioni o colpi di scena sconvolgenti da parte di nessuno dei candidati. Se, come sembra, la prevalenza di Veltroni sarà confermata dalla votazione del 14 ottobre, avremo una segreteria del nuovo partito nel segno di una sostanziale continuità con la fase politica apertasi agli inizi degli anni ’90 del ’900 nei suoi svolgimenti di ormai un quindicennio. Ma, stando ai discorsi che si sono sentiti in questi ultimi mesi, le cose non staranno molto diversamente se Veltroni – eventualità altamente improbabile – non dovesse prevalere.
È un bene? È un male? Noi non siamo né “continuisti”, né “rotturisti” (si può dire così?) per principio. Pensiamo, molto banalmente, che vi sono occasioni e tempi, cose e problemi per cui è meglio continuare, e altri per cui è meglio rompere. Navigare tra questi due percorsi è difficile per mille e una ragioni che qui non mette conto neppure di accennare, ma è inevitabile, sia che lo si faccia per deliberato programma, sia che non si abbia alcun programma al riguardo, sia che si abbia per programma di continuare o di rompere. Ricordiamo sempre l’illuminante lezione di Cattaneo sul percorso storico come un progressivo assestamento per mediazioni, compromessi, osmosi e rigetti, amputazioni, divisioni e aggregazioni, che alla fine fanno trovare di fronte a realtà molto diverse da quelle immaginate o perseguite e sono tali da farci sorprendere che per mutamenti e sviluppi a volte marginali e spessissimo impreveduti si siano dovute durare tante fatiche e pagare tanti costi storici e umani.
Si dirà – lo diremo anche noi – che questa lezione è troppo saggia e che, nonostante ciò, la storia non solo ha bisogno di rotture e di lacerazioni, ma se le procura, in un modo o nell’altro, e (ciò che è più importante) ha bisogno di credere che vada continuando o vada rompendo. Tuttavia, nell’Italia di oggi il linguaggio generale muove sempre in direzione della novità, o, quanto meno, della riforma (i conservatori valgono a peso d’oro, e non si trovano, o non se ne trovano che siano riconoscibili e confessi). La realtà è, peraltro, che i mutamenti vi sono, e anche di rilievo, ma appaiono rimessi alle spinte spontanee di una società che, se togliamo le questioni finanziarie e monetarie e qualche altra cosa, è assai poco governata. Il che oggi, per quanto se ne sa, non accontenta nessuno, tanto è vero che la crociata liberista non è mai stata così forte, riconosciuta, ascoltata e condivisa (anche se poi non la si segue nei fatti).
Non sapremmo dire, perciò, se sia,
a priori, un bene o un male il segno della continuità sotto il quale ci sembra essere passata anche la scelta del primo segretario del P. D. Lo diranno i fatti successivi. Del resto, questo segno rispetto agli equilibri e agli interessi affermatisi negli ultimi quindici anni è chiaramente dominante in tutto l’odierno gioco politico in Italia: nella “destra” come nella “sinistra”, e al di là perfino di queste ormai fatiscenti definizioni (tanto è vero che si fa un gran parlare di quell’oggetto misterioso che continua ad essere, e che dovrebbe essere, il “centro” come nuovo soggetto dello schieramento politico in Italia). Ed è addirittura sorprendente l’insistenza, un po’ di tutti, sulla necessità di una riforma elettorale, che sembra ormai a tutti, o quasi, indiscutibile, e per molti versi indubbiamente lo è, ma che, concepita come il toccasana dei mali più di fondo della realtà italiana, è meritevole solo di aperte risate.
Sorprendente, poi, non tanto, però, se si pone mente al fatto che alle leggi elettorali sono largamente e strettamente connesse le posizioni acquisite, i privilegi e vantaggi che ne conseguono, e quant’altro si lega a ciò. Con la legge elettorale vigente, ad esempio, il monopolio del potere nelle mani delle ristrettissime oligarchie che se ne sono impadronite negli ultimi anni, per l’una o per l’altra ragione, nell’uno o nell’altro modo, è assicurato vita natural durante, mentre nel gioco delle coalizioni i piccoli monopolisti hanno trovato la possibilità di vivere in maniera assai prospera.
Molti auspicano il sistema francese del doppio turno di ballottaggio fra i candidati che non superano il primo turno con la maggioranza richiesta. Noi lo temiamo, poiché, a nostro avviso, i patteggiamenti inevitabili fra primo e secondo turno esalterebbero al massimo le tendenze italiane ai mercanteggiamenti, alle poco serie transazioni, alle soluzioni pasticciate e confuse, e impedirebbero l’affermarsi di quella semplificazione, di una semplificazione effettiva, non nominale, del gioco politico, che, almeno a parole, è anch’essa una necessità riconosciuta da tutti. Molto maggiore affidamento ci sembra dare il sistema tedesco misto di proporzionale e di uninominale, con livelli di sbarramento (non ridicoli!) per il proporzionale, con obbligo di dichiarazione di schieramento per l’uninominale, con serie disposizioni circa la corrispondenza (che non risponde all’ortodossia del criterio rappresentativo, ma che l’esperienza italiana dimostra tanto opportuna da apparire anch’essa necessaria) fra risultati elettorali, formule di governo e articolazioni della rappresentanza nazionale in gruppi parlamentari. Oltre tutto, il sistema tedesco consentirebbe di rispondere in maniera credibile, decente e soddisfacente alla continua rivendicazione italiana di sostenere e proteggere le molte “culture” del paese (anche se, come si sa, sono chiamate “culture” quelle qualsiasi, anche le più casuali, pretestuose e meno profondamente radicate, aggregazioni di interessi e di particolarismi, per cui nel Parlamento nazionale, ma anche a tutti gli altri livelli rappresentativi, vi sono una trentina di gruppi e gruppuscoli, pardon! di “culture”).
Sospettiamo, però, fortemente che la vera terapia del sistema politico italiano per quanto riguarda la sua fondazione elettorale, la sua funzionalità, la sua moralizzazione, possa essere soltanto il ricorso alla drastica semplificazione maggioritaria del sistema inglese: si vota nei collegi, ed è eletto chi prende un voto più degli altri (in Italia ci sarebbe bisogno di una sola, ma decisiva integrazione normativa, non necessaria – e già questo dice tutto – in Inghilterra: quella sopra indicata relativa alla corrispondenza fra risultati elettorali e comportamenti della rappresentanza eletta). Per carità, neppure questo è un sistema perfetto. Reca, infatti, molti torti alle vere “culture”, e non impedisce neppur esso transazioni e patteggiamenti. È, però, tale da promettere, rispetto all’esperienza del regime rappresentativo in Italia nel corso ormai di 150 anni, una pedagogica assuefazione alla chiarezza e alla coerenza politica. È tale da poter fare sperare concretamente di rompere il gioco delle grandi corporazioni nazionali (partiti e sindacati
in primis). È tale da poter fare sperare che, per questa strada, si riesca finalmente a rendere intelligibile e praticabile da tutti il linguaggio del dibattito e del confronto politico e ad avvicinare, in ultima istanza, e per quanto è possibile e desiderabile, la gente (come suol dirsi) alla politica.
Ci siamo trattenuti sull’argomento della riforma elettorale unicamente per dimostrare come ne risulti – in un caso di particolare rilievo – la scarsa pregnanza innovativa della competizione per l’elezione del primo segretario del P. D. Ciò non pertanto, questa competizione resta un elemento centrale e decisivo per gli sviluppi politici italiani del prossimo futuro. Continuiamo a credere che una chiarissima vittoria elettorale di uno dei protagonisti (e il più probabile, come si è detto, resta senz’altro Veltroni) sarebbe un buon contributo a un decisivo passo in avanti della vita italiana, se il Partito Democratico, come crediamo possibile e auspicabile, dovrà significare qualcosa, e qualcosa di importante e di risolutivo, nella vita politica italiana. Sarebbe, una tale vittoria, un buon contributo perfino per coloro che a Veltroni non credono o che lo avversano, ma che non possono rifiutarsi di considerare indispensabile una conduzione del nuovo partito molto forte già nella designazione elettorale – sarebbe superfluo, ma è sempre opportuno ripeterlo, perché è il punto decisivo – occorrerà che le cose siano affrontate di petto, e che non solo sia detto pane al pane e vino al vino, ma sia anche fatto quello che si dice, e che tra il dire e il fare non vi sia il mare. Si pensa al significato e al rilievo dell’episodio Grillo. La sinistra se ne è spaventata, o quasi, e specialmente quella che ha maggiori e più confermate e chiare volontà di governo. Non si farebbe meglio a riflettere di più sul continuo ricorrere di fenomeni di questo genere nell’ambito della sinistra, e ogni volta con reazioni largamente oscillanti fra sorpresa e spavento? Poco tempo fa vi furono i “girotondi”, dei quali sembrano ora essersi perduti la semenza e il ricordo e che fecero, a quel tempo, la fortuna di qualche personaggio fiorentino. Ora siamo al
D-day, in cui noi non abbiamo nessuna fiducia politica più di quanta ne avessimo nei “girotondi” e nei loro leaders. Di Grillo, poi non sapremo dire altro se non che è un bravissimo uomo di spettacolo (come i Benigni, i Fò, etc.), ma neppure alla lontana lo vediamo come fonte di una qualsiasi idea politica. Ciò può, tuttavia, farlo trascurare in quanto sintomo di qualcosa? È questo che la sinistra (almeno quella davvero di governo) deve considerare, chiedendosi se la radice di quel qualcosa non stia – per il D-day come per i girotondi – in una sua grave e mortifera carenza di chiarezza e di coerente energia del suo dire e del suo fare.
Naturalmente, altrettanto importante sarebbe che, come altre volte abbiamo detto, qualcosa del genere accadesse anche nella cosiddetta destra italiana, le cui condizioni di salute non sono per nulla migliori di quelle della cosiddetta sinistra. Davvero ne verrebbe fuori una modernizzazione politica sulle cui tracce il paese da tempo arranca.
Non vogliamo, però, neppure sperare troppo, né mettere troppa carne a cuocere nella pentola delle considerazioni di attualità politica in una sede come questa. E tanto più in quanto crediamo molto probabile che di questo discuteremo ancora a lungo, per la destra e, ahimé, per la sinistra. Insomma, le occasioni, che vorremmo mancassero, di delusione, di estrema difficoltà è molto probabile che non manchino affatto; e, contrariamente alle apparenze e a ciò che molti credono, non sarà mai un discorso davvero ripetitivo, perché l’immobilità non è neppure del mondo politico, e perché il dramma dell’Italia non è che essa non si muova, ma che si muove a casaccio, e più spesso verso il peggio che verso il meglio. Lo abbiamo, pure questo, spesso ripetuto. Ma soprattutto in queste materie ripetere giova, anche se l’esperienza italiana si mostra sorda alle ripetizioni non meno che a tant’altro di buono (come poi, con tanti nèi, il paese vada, più o meno, avanti, e resti un paese vivo e grande, e non scoppii né soffochi, è un altro problema, del quale in altra occasione converrà discutere).
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