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Beccaria, la pena di morte e la tentazione dell'abolizionismo
di Dario Ippolito
1. Beccaria e l’abolizione della pena di morte

Nel capolavoro di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene1, si intersecano le principali correnti dell’illuminismo politico, il contrattualismo, l’utilitarismo, il giusnaturalismo, dando corpo a una concezione della giustizia penale di segno umanitario e garantista, apertamente in rottura con il sistema giuridico e giudiziario del suo tempo.
Nonostante lo straordinario successo ottenuto dal celebre “libriccino”2 negli ambienti philosophiques di tutta Europa, la radicalità della proposta riformatrice del marchese lombardo era tale da suscitare, sotto certi riguardi, indietreggiamenti conservatori persino tra i più avanzati e battaglieri esponenti dei lumi. Il caso più evidente è quello dell’abolizione della pena di morte, perorata appassionatamente da Beccaria con argomenti di varia matrice ideologica, che non sempre furono accolti dai suoi numerosi e fervidi estimatori, tra i quali vi fu anche chi si impegnò a confutarli per ribadire la legittimità dell’estremo castigo. Se di fronte alla tortura come strumento probatorio l’atteggiamento illuministico fu di unanime condanna, di fronte alla morte come pena la concordia non andò oltre le istanze della limitazione del suo campo di applicazione e del mitigamento delle sue modalità di esecuzione: mai più giustiziati per reati contro la proprietà e mai più supplizi atroci sui corpi destinati al patibolo, fu l’appello corale che i filosofi indirizzarono ai legislatori. Invece, la cancellazione delle norme comminanti la morte agli inosservanti fu un’aspirazione minoritaria, che Beccaria espresse con la massima intransigenza, imponendo, per la prima volta nella storia, il tema dell’abolizione della pena capitale al centro del dibattito politico e culturale3.

Appunti e note
1 La prima edizione dell’opera apparve a Livorno, anonima, nel 1764 (cfr. l’Edizione Nazionale
delle Opere di Cesare Beccaria, a cura di G. Francioni e L. Firpo, vol. I, Milano, Mediobanca,
1984). Nelle pagine che seguono si cita da C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F.
Venturi, Torino, Einaudi, 2003.
2 Così Alessandro Manzoni chiama il Dei delitti nella sua Storia della Colonna Infame (1842),
Milano, BUR, 1961, p. 56.
3 La letteratura sul pensiero penale di Beccaria è vastissima. Si vedano, innanzitutto, R. Mondolfo,
Cesare Beccaria, Milano, Nuova Accademia, 1960; G. Tarello, Storia della cultura giuridica
moderna. Assolutismo e codificazione (1976), Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 462-478; M.A. Cattaneo,
La filosofia della pena nei secoli XVII e XVIII, Ferrara, De Salvia, 1974, pp. 107-128; G.
Francioni, Beccaria filosofo utilitarista, in Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Bari, Laterza, pp.
69-87. Sul tema della pena di morte nella filosofia dei lumi, si veda, tra gli altri M.A. Cattaneo,
Morale e politica nel dibattito dell’illuminismo, in La pena di morte del mondo, Casale Monferrato,
Marietti, 1983, pp. 104-133. Di utile consultazione è O. Vocca, Evoluzione del pensiero criminologico
sulla pena di morte: da Cesare Beccaria al codice Zanardelli, Napoli, Jovene, 1984.
L’arsenale polemico allestito da Beccaria contro la pena di morte attinge a ciascuno
degli universi di discorso attraversati dal Dei delitti: l’utilitarismo, che informa la
concezione beccariana del fine delle pene, il contrattualismo, nei cui schemi si inscrive
la fondazione del diritto di punire, il giusnaturalismo, che pervade tutta l’opera di
un potente afflato umanitario, pur restando sullo sfondo, quasi nascosto dal fitto tessuto
argomentativo prodotto dalla duttile logica dell’utile e dal criterio normativo del
contratto. È in base a questo criterio, principalmente, che Beccaria afferma l’illegittimità
della pena di morte, mentre è in base a quella logica che ne contesta la necessità
e l’utilità. Sebbene l’argomento contrattualistico sia speso per primo (nel capoverso
d’esordio del famoso paragrafo XXVIII), Beccaria sembra puntare maggiormente sulla
forza persuasiva del ragionamento utilitaristico, che occupa una porzione di testo
assai più ingente, snodandosi lungo ben tredici capoversi, nei quali la previsione legale
dell’eliminazione fisica come conseguenza di una trasgressione giuridica è valutata
sul banco di prova decisivo della finalità delle pene, consistente nella prevenzione dei
delitti4. Beccaria mette così a frutto una delle idee-madri del suo pamphlet, «il fine
[delle pene] non è altro che d’impedire al reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di
rimuovere gli altri dal farne uguali»5, dopo averla defalcata, però, della componente
della prevenzione speciale (cioè dell’incapacitazione del reo): del tutto inadeguata,
evidentemente, ad essere impiegata nella battaglia contro la pena capitale. Il tema centrale
della prevenzione dei delitti si riduce così al tema dell’attitudine intimidatoria
delle pene, e la necessità e l’utilità di (minacciare di) uccidere per punire vengono considerate
alla luce dell’effetto deterrente della (minaccia di) uccisione.
La disamina beccariana si articola in sei considerazioni principali, quasi tutte (salvo
la quarta) volte a negare la forza dissuasiva della pena di morte. 1. Sul piano storico-
empirico, l’autore rileva che «l’ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini determinati
dall’offendere la società» e, congiuntamente, addita l’esperienza della civitas
romana e del regno di Elisabetta Petrovna di Russia come esempi di società ordinate
senza il ricorso alla pena capitale6 (che dunque si rivela, alla prova dei fatti, inutile
e non necessaria). Passa poi a concatenare due osservazioni di carattere psicologico:
2. L’impressione suscitata da un’esecuzione capitale è tanto forte quanto passeggera,
poiché l’uomo tende per natura a dimenticare, mentre l’impressione suscitata
da una pena che si protrae nel tempo, sebbene meno intensa, è costante e durevole:
dunque l’efficacia dissuasiva della prima è inferiore rispetto a quella della seconda7
(che perciò è preferibile alla prima); 3. Inoltre, più che terrorizzare, la pena di morte
provoca sdegno e compassione negli animi più sensibili ed è vissuta come uno spettacolo
dalla maggioranza delle persone, laddove una pena moderata e duratura genera
soltanto il sentimento di paura che il fine preventivo della legge penale richiede8
(questa, dunque, è più conforme allo scopo rispetto a quella). 4. L’argomento successivo
potrebbe apparire eterogeneo nel contesto di un discorso sulla necessità e l’uti-
702
4 Cfr. C. Beccaria, Dei delitti cit., § XXVIII “Della pena di morte”, pp. 62-70. L’argomento
contrattualistico è separato dal ragionamento utilitaristico da un capoverso, piuttosto ambiguo,
in cui l’autore discute dei casi in cui «la morte di un […] cittadino divien […] necessaria» (ivi,
p. 62). Per un’interpretazione convincente del brano, tra le numerose e discordanti avanzate
nel secolo scorso, si vedano, M.A. Cattaneo, Morale e politica cit., pp. 116-118; e G. Francioni,
Beccaria cit., pp. 79-80.
5 C. Beccaria, Dei delitti cit., § XII “Fine delle pene”, p. 31.
6 Cfr. ivi, § XXVIII “Della pena di morte”, p. 63.
7 Cfr. ivi, pp. 63-64.
8 Cfr. ivi, p. 64.
lità della pena di morte, poiché impugna direttamente l’ingiustizia di essa. In realtà,
nell’orizzonte utilitaristico della prevenzione generale, giustizia e necessità della pena
coincidono parzialmente nel principio di economia del diritto penale (o della pena
minima necessaria): «perché una pena sia giusta – si legge nella pagina in esame –
non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a rimuovere gli uomini
dai delitti»9. Ciò implica, come si legge fin dal secondo paragrafo (dove tale principio
è enunciato), che «tutte le pene che oltrepassano» il livello necessario a raggiungere
lo scopo «sono ingiuste di lor natura»10. Ingiusta, allora, dev’essere considerata
la pena di morte, poiché la «pena di schiavitù perpetua», sostiene Beccaria, «ha ciò
che basta per rimuovere qualunque animo determinato»11. 5) Individuata l’alternativa
alla pena di morte nella schiavitù a vita, l’autore ricorre nuovamente ad argomentazioni
psicologiche per rimarcarne la maggiore efficacia deterrente (per «chi la vede
») e la minore crudeltà (per «chi la soffre»)12. 6. L’ultimo argomento spinge ancora
più a fondo l’assalto polemico. Non soltanto la pena di morte è inutile e ingiusta
(perché non necessaria), ma è addirittura dannosa. L’«esempio di atrocità che dà agli
uomini», infatti, è in contraddizione con lo scopo fondamentale del diritto, che è
quello di ordinare la società, eliminando la violenza: «parmi un assurdo – scrive efficacemente
Beccaria – che le leggi […] che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono
uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un
pubblico assassinio»13. La pena di morte, in ultima analisi, produce un danno sociale,
perché, svilendo il valore della vita, anziché distogliere dal delinquere, porta con
sé effetti criminogeni.
Anche così schematizzati e riassunti gli argomenti utilitaristici proposti da Beccaria
a favore dell’abolizione della pena di morte prendono uno spazio maggiore rispetto
all’argomento di matrice contrattualistica con cui si apre il paragrafo:
Qual può essere – domanda l’autore – il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare
i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che
una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà
generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare
ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno
vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda
un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se
ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera14?.
A conclusione di questa serie di domande retoriche, l’ultima delle quali introduce
un argomento d’impronta giusnaturalistica, Beccaria sentenzia che lo Stato non è legittimato
a punire con la morte15.
La concezione del contratto sociale retrostante a questa tesi non è certo quella di
Rousseau, sebbene il brano faccia riferimento alla nozione di volontà generale. La stessa
definizione di volontà generale che in esso si affaccia, a ben vedere, rivela la distanza
di Beccaria da Rousseau, che lungi dal concepirla come «l’aggregato delle particolari
» volontà, ne fornisce una caratterizzazione olistica, fondata su una concezione on-
703
9 Ivi, p. 64.
10 Ivi, § II “Diritto di punire”, p. 13.
11 Ivi, § XXVIII “Della pena di morte”, pp. 64-65.
12 Ivi, pp. 65-66.
13 Ivi, p. 67.
14 Ivi, p. 62.
15 “Non è dunque la pena di morte un diritto” (ibidem).
tologica dell’etica. La medesima distanza risalta, con maggiore evidenza, dalla prospettiva
del patto sociale, che se nella visione beccariana raggiunge lo scopo di assicurare
la libertà civile dei contraenti mediante la rinuncia di ciascuno a «minime porzioni
» della libertà naturale, in Rousseau esige «l’alienazione totale di ciascun associato
con tutti i suoi diritti alla comunità», che accoglie («come corpo») «ciascun membro
come parte indivisibile del tutto»16. Ovviamente, da una simile configurazione (essenzialmente
organicistica) della società politica non può discendere la delegittimazione
della pena di morte, poiché la vita dell’individuo, incorporato nella totalità comunitaria,
«non è più un beneficio della natura, ma un dono condizionato dello Stato»17. Il
contrattualismo di Beccaria tiene fermo, invece, il primato assiologico della persona
umana di fronte allo Stato, che, lockianamente, è pensato come strumento per la salvaguardia
dei diritti umani anziché come entità morale superiore dotata di fini autonomi.
Ciò non significa che la teoria del contratto sociale delineata da Locke conduca
inevitabilmente alla negazione del ius vitae et necis in capo all’autorità. Restando
sulle orme di Locke, infatti, importanti figure dell’illuminismo europeo rigettarono la
tesi contrattualistica di Beccaria.
Prima di passare a considerare queste voci critiche, insieme ai consensi che accolsero
i propositi abolizionistici del Dei delitti, è opportuno soffermarsi ancora un momento
sul brano sopra citato, per sviluppare l’osservazione, incidentalmente anticipata,
in merito alla presenza di un argomento giusnaturalistico nell’articolazione della
tesi contrattualistica. La domanda conclusiva, infatti, pone l’indice sulla contraddizione
tra la liceità della pena di morte e il divieto del suicidio, suffragando la delegittimazione
della prima col richiamo ad un principio giusnaturalistico-teologico trapassato
(insieme a tanta parte della precettistica religiosa) nell’ordinamento penale positivo.
Sarebbe un errore, però, collocare questo argomento, al pari degli altri, nella cornice
della filosofia etico-politica beccariana. Ad esso l’illuminista lombardo ricorre soltanto
per esigenze polemiche: egli strumentalizza ai suoi fini un principio del diritto naturale
cristiano al quale, in realtà, non sembra aderire. Ciò emerge abbastanza chiaramente,
oltre che dall’assunzione del principio di offensività tra gli elementi costitutivi
del reato, dai rilievi critici riguardanti proprio la proibizione giuridica e la penalizzazione
del suicidio18. Una simile interpretazione, peraltro, si limita a distinguere le affermazioni
tattiche dalle finalità strategiche e non è incompatibile con la tesi secondo
cui il contrattualismo di Beccaria parte dalla premessa dell’esistenza di diritti inerenti
all’uomo in quanto tale, alla base dei quali è posta la vita, concepita come res extra
commercium naturalis iuris, sebbene (per così dire) in patrimonio, cioè come bene appartenente
all’individuo, ma sottratto alla sua disponibilità negoziale.
2. Consensi e critiche degli illuministi
Circa vent’anni dopo la prima edizione del Dei delitti, Pietro Leopoldo, granduca
di Toscana, varò una riforma generale della legislazione criminale ispirata ai valori
dell’illuminismo giuridico, nella quale si dichiarava «abolita per massima costante
la pena di morte, come non necessaria per il fine propostosi dalla società nella puni-
704
16 J.-J. Rousseau, Contratto sociale (1762), in Idem, Scritti politici, Roma-Bari, Laterza, 1994,
vol. 2, lib. I, cap. VI, p. 93-94.
17 Ivi, lib. II, cap. V, p. 109.
18 C. Beccaria, Dei delitti cit., § XXXII “Suicidio”, p. 79.
zione dei rei»19. Desta meraviglia la scelta di un monarca assoluto pronto ad accogliere
e a tradurre in norma di legge la proposta di un filosofo radicale respinta persino
(come si è accennato) dalla maggior parte degli intellettuali dei lumi. Con diversità di
motivazioni e con varietà di toni, infatti, la pena di morte trovò legittimazione negli
scritti di Denis Diderot, di William Blackstone, di Gabriel Bonnot de Mably, di Henri
Linguet, di Gaetano Filangieri, di Karl F. Hommel, di Mario Pagano, di Immanuel
Kant, etc.
L’esigua schiera degli abolizionisti, da parte sua, poté contare sulla militanza di
Voltaire, che, entusiasmato dal Dei delitti, intervenne in più occasioni, negli ultimi anni
della sua vita, sui temi della giustizia penale. La sua battaglia contro la pena di morte
è tutta nel segno dell’utilitarismo, ma non segue, se non in minima parte, la traccia
del discorso beccariano. Nel Commentario intorno al libro dei delitti e delle pene, il patriarca
dell’illuminismo francese, oltre a provare, sulla base dei dati empirici, la non
necessità della pena capitale (in ragione del fatto che la sua abolizione non ha mai moltiplicato
i delitti), postula il principio dell’utilità sociale della pena:
un uomo impiccato non serve a nulla, e […] i supplizi inventati per il bene della società devono
essere utili alla società. È evidente che venti ladri robusti, condannati a lavorare alle
opere pubbliche tutta la vita, servono lo Stato con il loro supplizio, mentre la morte serve
soltanto al boia che è pagato per uccidere in pubblico gli uomini20.
L’argomento, che balena anche nel Dei delitti (sebbene sia incompatibile con la
massima beccariana per cui le leggi non devono permettere che le “persone” siano ridotte
a “cose”), torna in un’operetta composta da Voltaire un anno prima della sua
morte: «condamnez le criminel à vivre pour être utile; qu’il travaille continuellement
pour son pays, parce qu’il a nui à son pays. Il faut réparer le dommage; la mort ne répare
rien»21. Sulla concezione penal-utilitaristica della prevenzione generale prevale
così la concezione penal-utilitaristica della riparazione sociale e la pena di morte è contestata
non tanto in base alla sua inefficacia deterrente, come in Beccaria, quanto piuttosto
in base alla sua inutilità materiale22.
Alla lezione dell’illuminista lombardo aderisce, invece, pressoché pienamente, Jacques-
Pierre Brissot de Warville, il futuro leader rivoluzionario del gruppo girondino,
che nel Discour sur le moyens de prevenir les crimes en France, del 1781, prende posizione
contro la pena capitale, rimarcando che «la crainte de la mort n’est point un
frein capable d’arrêter les scélérats» (tesi generale di Beccaria), che «les peines effraient
plus par leur durée que par leur cruauté» (argomento b di Beccaria), che la
«peine de mort […] est même nuisible à la société, en ce qu’elle familiarise les yeux
du peuple avec l’effusion du sang» (argomento f di Beccaria), che «des travaux perpétuels
[…] seroient et plus utiles à la société, et plus propres à prévenir le crime et à le
punir» (tesi di Voltaire + argomento e di Beccaria): e concludendo, conseguentemente,
con la proposta di sostituire la pena capitale con «l’esclavage des travaux perpé-
705
19 Il testo della legge del 30 novembre 1786 si trova in C. Beccaria, Dei delitti cit., p. 248.
20 Voltaire, Commentario intorno al libro dei delitti e delle pene (1766), in Idem, Scritti politici,
a cura di R. Fubini, Torino, UTET, 1964, X, p. 624.
21 Idem, Prix de la justice et de l’humanité (1777), in OEuvres complètes de Voltaire, Paris,
1817, III, p. 150.
22 Sul problema della giustizia penale in Voltaire si veda, tra gli altri, R. Derathé, Le droit de
punir chez Montesquieu, Beccaria et Voltaire, in Atti del Convegno Internazionale su Cesare Beccaria,
Torino, Accademia delle Scienze, 1966, pp. 85-100.
tuels»23. Come si vede Brissot mutua da Beccaria tutti gli argomenti abolizionistici di
ordine utilitaristico, ma non riprende la tesi contrattualistica dell’illegittimità dell’omicidio
di Stato.
Un atteggiamento analogo si riscontra in uno dei maggiori esponenti dell’illuminismo
italiano, Antonio Genovesi, che nella Diceosina, occupandosi dei delitti e delle
pene, instaura un dialogo ideale col marchese lombardo, di cui elogia l’opera, accostandola
a Lo Spirito delle leggi di Montesqueiu:
Convengo anch’io – egli scrive – che vi sono di certe pene non capitali, più spaventevoli
[…] e che possono giovare al pubblico più che le capitali. Certe pene delle leggi Romane,
a cavar metalli, al molino, al lavorare alle strade, a’ porti, alle fabbriche pubbliche, servire
nelle galee e ad altre fatiche servili, sono in alcuni casi e più gravi della forca, e più utili al
pubblico, e non infieriscono gli animi de’ cittadini. È vero che operano meno sulla pubblica
fantasia; ma lavorano più sulla ragione, e col tempo fanno un popolo savio24.
Pur conservando una concezione retributivistica della pena, Genovesi recepisce le
suggestioni utilitaristiche di Beccaria e critica la pena capitale come meno dissuasiva,
meno utile alla società e più dannosa dei lavori forzati. Nemmeno in questo caso, si
badi, compare l’ipotesi beccariana del contratto: l’autore della Diceosina non mette in
questione la legittimità della pena di morte25.
Allo stesso modo, il massimo rappresentante dell’illuminismo austriaco, Joseph
von Sonnenfels, non nega il diritto del sovrano a comminare per legge la soppressione
di chi la legge infrange, ma contesta l’utilità della pena di morte:
qual pena è più atta a frenare il malfattore? La morte, ovvero un lungo, aspro e pubblico
lavoro? […] Il lavoro […] è agli occhi del colpevole un mal maggiore della morte istessa:
sarà dunque un più forte preveniente motivo, onde trattenerlo dalla trasgressione della legge,
ed avrà perciò un’efficacia maggiore: l’esempio d’un faticoso e aspro lavoro, che duri
quanto la vita, la prolungazione d’un’esistenza misera e tormentosa, possente sarà più d’ogni
altra pena, e questa maniera di castigo sarà al bene universale della società più vantaggiosa26.
Ancora una volta il castigo sostitutivo della pena capitale è individuato nei lavori
forzati, che appaiono più utili sotto due punti di vista: per il beneficio materiale che
recano alla società e per il maggiore vigore intimidatorio.
Sebbene tutti questi autori partecipino, con diverso impegno, diversa convinzione
e diversa autorevolezza, al movimento d’opinione contrario alla pena di morte, alimentato
dalla circolazione internazionale del Dei delitti, nessuno di loro, come si è notato,
giunge ad affermare (con l’autore dell’opera) che lo Stato non ha il diritto di mettere
a morte i suoi cittadini. Lasciata cadere dagli avversari (più o meno pugnaci) della
pena capitale, la tesi contrattualistica di Beccaria è presa di mira dai suoi difensori,
con argomentazioni che accomunano alcuni esponenti di primo piano della cultura illuministica
a un reazionario come Ferdinando Facchinei, il monaco vallombrosiano
706
23 Una parte del discorso di Brissot è riprodotta in C. Beccaria, Dei delitti cit., pp. 500-522.
I brani citati si trovano a p. 513 e p. 514.
24 A. Genovesi, Della Diceosina o sia della filosofia del giusto e dell’onesto (17661, 17772), Napoli,
1839, lib. I, cap. XIX, §. XX, p. 169.
25 Sulla filosofia della pena in Genovesi si rimanda a D. Ippolito, Antonio Genovesi lettore
di Beccaria, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 37 (2007), 1, pp. 3-20.
26 Manca la citazione sono riportate solo le pagine 587-588.
che per primo si avventò con furia distruttiva sul Dei delitti a pochi mesi dalla sua apparizione27.
Non di quest’ultimo, comunque, importa trattare qui, dal momento che
ci si occupa dell’atteggiamento dei philophes rispetto alla pena di morte. Tra i cui apologeti,
su questo fronte della cultura settecentesca, si distingue (ancor prima di Kant,
con il suo rigorismo retributivistico28) l’abate Mably, pensatore sempre in bilico tra
aspirazioni utopistiche, istanze di riforma e remore conservatrici29. I tre piani della sua
riflessione si sovrappongono e si alternano anche nelle pagine dedicate al diritto penale
della sua opera Sulla legislazione, dove accanto a idilliache visioni di società comunistiche
eticamente disciplinate e perciò prive di ordinamenti repressivi, accanto a
puntuali proposte di rinnovamento del sistema delle pene e del processo di ispirazione
garantista, si svolge, in forma dialogica, una robusta polemica antibeccariana a sostegno
della pena di morte.
Mably mira alla confutazione di tutti gli argomenti di Beccaria, partendo da una
concezione retributivistica della giustizia penale:
Sostengo che poiché esistono uomini capaci di commettere un assassinio […] il legislatore
deve condannarli a perdere la vita. Tutto mi dice che non ci sono più ordine, regole, sicurezza,
né diritto sacro fra gli uomini, se la sorte di un cittadino virtuoso è peggiore di quella
di un assassino: perché questo accadrebbe se perdessi il primo, il più grande e insostituibile
bene, mentre il mio assassino conserverebbe la vita30.
Il postulato retributivistico secondo cui «chi uccide deve morire» si appoggia al
contrafforte della giustizia distributiva, in base alla quale non è ammissibile che la società
riservi all’omicida un destino più vantaggioso di quello patito dalla sua innocente
vittima. È chiaro che su questo piano argomentativo Mably si contrappone frontalmente
alla posizione di Beccaria, ma non arriva a infirmarne le fondamenta né a scalfirne
la corazza. Perciò si spinge nel campo ideologico dell’avversario, impugnando le
armi dell’utilitarismo e del contrattualismo.
Così, se Beccaria aveva inteso provare l’inefficacia deterrente della pena di morte,
Mably si impegna nella difesa della tesi contraria: «Un assassino crede di fare il più
gran male al suo nemico togliendogli la vita, considera pertanto la morte come il più
grande dei mali; è dunque per il timore di perdere la vita che bisogna frenare gli impulsi
del cuore e della vendetta»31. A conferma di ciò, egli ribatte colpo su colpo alla
plaidoirie di Beccaria. Prende in considerazione l’argomento b del ragionamento utilitaristico
svolto nel Dei delitti, interpretandolo (erroneamente) come fondato (non
sul carattere passeggero delle impressioni, bensì) sul carattere momentaneo della pena
capitale, e replica: «la morte è solo un momento, lo confesso, ma è un momento
che decide tutto: mette fine al tempo ed apre le porte dell’eternità. Questo istante fa
fremere la natura»32. Prende in considerazione l’argomento c, relativo ai sentimenti di
compassione e di sdegno provocati dalle esecuzioni capitali, e obietta che ciò accade
707
27 Cfr. F. Facchinei, Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene, Venezia,
manca casa editrice 1765.
28 Per il quale si rimanda a A.M. Cattaneo, Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano,
manca casa editrice1981.
29 Su Mably si veda A. Maffey, L’utopia della ragione, Napoli, manca casa editrice 1987.
30 Mably, Della legislazione o Principi delle leggi (1776) manca casa editrice, in Idem, Scritti
politici, a cura di A. Maffey, vol. II, p. 341.
31 Ivi, p. 342.
32 Ivi, p. 343.
solo se le «leggi criminali sono ingiuste, assurde, disumane e barbare», cioè quando
condannano «a morte un colpevole che potrebbe correggersi e il cui delitto presuppone
soltanto un inizio di corruzione»33. Prende in considerazione l’argomento e, riguardante
la maggiore forza deterrente dei lavori forzati perpetui, e ribatte con una
lunga serie di ragioni eterogenee: 1° «non c’è nessuno degli scellerati condotti al patibolo
che non consideri una grazia la prigione più dura e i lavori più penosi»; 2° essendo
questi ultimi «in tutta la terra il retaggio dell’indigente» non è giusto che «il criminale
e l’indigente abbiano la stessa sorte»; 3° per sorvegliare i forzati al lavoro sarebbe
necessario reclutare un’innumerevole torma di guardiani; 4° questi, per svolgere
efficacemente il loro compito, dovrebbero essere talmente crudeli e inumani da meritare
essi stessi la sorte degli assassini; 5° i condannati ai lavori forzati potrebbero
scappare e la loro impunità fomenterebbe i potenziali delinquenti; 6° poiché gli uomini
si abituano a tutto, «quei criminali la cui vita sciagurata si pretende che serva da
grande esempio ai cittadini» potrebbero «apparire gai e felici in mezzo alla loro sventura
»34. Insomma, il castigo alternativo alla pena capitale, suggerito da Beccaria e dagli
altri abolizionisti, si rivela difettoso e privo di quella forza intimidatoria, di cui invece
è provvista la pena capitale, che perciò è utile e necessaria.
Utile, necessaria, nonché, ritiene Mably, pienamente legittima. Non soltanto, come
è ovvio, dal punto di vista retributivistico, ma anche in una prospettiva contrattualistica:
Non crediate – risponde idealmente a Beccaria – che per deporre la spada nelle mani del
legislatore sia stato necessario avere il diritto di disporre della nostra vita. Al contrario, è
per difenderla contro gli attacchi scoperti o nascosti di un assassino che abbiamo chiesto
quelle leggi sanguinarie che vi indignano. Nello stato di natura, ho diritto di morte su colui
che attenta alla mia vita e, entrando a far parte della società, ho affidato questo diritto al
magistrato35.
Lo stesso argomento confutatorio era già apparso negli scritti del monaco Facchinei36
e del pubblicista Linguet37 e aveva già conosciuto la replica puntuale di un fedele
discepolo di Beccaria, Giuseppe Gorani: «Come può sostenersi aver la pena di morte
per origine» il diritto naturale alla «propria difesa», se
non vien data che doppo un’infinità di mal calcolate procedure, e sovente di una confessione
strappata a forza dalla bocca di molti infelici, che non ebbero il coraggio di resistere ai
tormenti delle più crudeli torture? L’omicidio suggerito dalla difesa suppone necessariamente
un prossimo pericolo di perder la propria vita. Voglio già commesso il delitto: non si proverà
mai in sana filosofia, che per la difesa di un individuo già estinto un governo debba toglier
la vita ad un altro cittadino38.
Perfettamente consapevole della fragilità della critica antibeccariana fondata sul
diritto naturale a uccidere per non essere uccisi si mostra Gaetano Filangieri, che, nel
terzo libro della sua Scienza della legislazione, oppugna il “paralogismo” del marche-
708
33 Ivi, p. 344.
34 Ivi, p. 342-343.
35 Ivi, p. 340.
36 Cfr. F. Facchinei, Note ed osservazioni cit., in C. Beccaria, Dei delitti cit., pp. 168-170.
37 Cfr. S.N.H. Linguet, Fragment d’une lettre de MrLinguet à l’Auteur du Traité des délits et
des peines, in C. Beccaria, Dei delitti cit., pp. 457-458.
38 G. Gorani, Il vero dispotismo (1770), in C. Beccaria, Dei delitti cit., pp. 460-461.
se lombardo, richiamandosi all’autorità di Locke («il più gran pensatore dell’Europa
») dopo aver scartato, come deboli, le giustificazioni della pena di morte di Pufendorf
e Rousseau:
Tutti gli uomini – si legge alla fine del capo XXIX – hanno [nello stato di natura] il dritto di
punire la violazione delle naturali leggi; e, se la violazione di queste ha reso il trasgressore degno
della morte, ciaschedun uomo ha il diritto di togliergli la vita. Or questo dritto, che nello
stato della naturale indipendenza ciascheduno aveva sopra tutti, e tutti avevano sopra ciascheduno,
è quello che nel sociale contratto si è trasferito alla società, si è depositato tra le
mani del sovrano. Il diritto dunque, che ha il sovrano, d’infliggere, così la pena di morte come
qualunque altra pena, non dipende dalla cessione dei dritti di ciascheduno aveva sopra
sé medesimo, ma dalla cessione dei dritti che ciascheduno aveva sopra gli altri39.
Il diritto sulla vita altrui, dunque, non sorge in capo a chi ha subito attentato alla
propria vita nei confronti dell’attentatore (come sostenuto da Mably): se così fosse, in
caso di omicidio consumato, quel diritto si estinguerebbe con la vittima. Filangieri sottolinea
invece che nello stato pre-giuridico ciascuno è «vindice e custode»40 della legge
di natura e che dunque tutti hanno diritto ad uccidere chi, trasgredendola, si rende
«degno della morte»41. Manifestamente, l’utilitarismo e l’umanitarismo del Dei delitti
che ispirano le espressioni più alte della riflessione filangeriana sul diritto penale
lasciano il campo, qui, alle categorie giusnaturalistiche dell’equità retributiva e della
giustizia del taglione42.
È opportuno, a questo punto, sottolineare che, la critica di Filangieri alla tesi beccariana
sull’illegittimità della pena capitale, muove (così come quelle analoghe che l’avevano
preceduta) da un’interpretazione che incorpora l’elemento giusnaturalistico
(accessorio) all’argomento contrattualistico (principale): «niuno può dare quel che
non ha – riassume Filangieri – ma l’uomo non ha il diritto di uccidersi; dunque il sovrano,
che non è altro che il depositario dei dritti trasferiti dagl’individui al corpo intero
della società, non può neppure avere il dritto di punire alcuno colla morte. Ecco
il sofisma»43. In realtà, lasciato al suo posto il riferimento strumentale alla proibizione
del suicidio, la tesi di Beccaria non è riducibile affatto a questo sillogismo, incardinato
sul perno gius-teologico della premessa minore. L’asse del ragionamento beccariano
è invece l’ipotesi razionale del contratto sociale in base alla quale lo Stato altro
709
39 G. Filangieri, La Scienza della legislazione (1780-1791), libro III “Delle leggi criminali”
(1783), capo XXIX, Napoli, Grimaldi, 2003 [ristampa anastatica dell’edizione parigina di Carlo
Derriey, 1853], pp. 193-194.
40 Ivi, p. 192.
41 Ivi, p. 193.
42 Soltanto pochi capitoli prima Filangieri afferma: «Né la vendetta dell’offesa recata alla società,
né l’espiazione del reato, sono gli oggetti delle pene. La vendetta è una passione e le leggi
ne sono esenti; e la giustizia non è una di quelle divinità alle quali i crudeli adoratori immolano le
umane vittime per placare il loro preteso furore. Le leggi, allorché puniscono, hanno innanzi agli
occhi la società e non il delinquente: esse son mosse dall’interesse pubblico, e non dall’odio privato;
esse cercano un esempio per l’avvenire e non una vendetta pel passato. La vendetta, qualunque
essa fosse, sarebbe assurda e inutile; assurda perché le leggi moderatrici delle particolari passioni
giustificherebbero in questo caso, col loro esempio, quello che condannano coi precetti; inutile,
perché non potrebbe impedire, che il torto, recato alla società dal delitto del reo, non esistesse
realmente. Le grida di un infelice richiamano forse dal tempo, che non ritorna, le azioni già consumate?
» (Ivi, capo XXVII, p. 190). La domanda conclusiva è una citazione implicita di C. Beccaria,
Dei delitti cit., § XII, p. 31.
43 F. Filangieri, La Scienza cit., capo XXIX p. 191.
non è che una creazione artificiale degli uomini, i cui connotati sono scelti e volontariamente
pattuiti in conformità alle loro aspirazioni per la garanzia dei diritti di tutti.
Ecco allora che il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, che in Filangieri sembra
assumere i contorni di un accadimento empirico da accertare e accettare nei suoi
contenuti nomotetici, può concepirsi liberamente nel segno di un accrescimento delle
garanzie giuridiche nell’universale vantaggio, e che il massimo bene individuale, la
vita, può ragionevolmente volersi mettere al riparo da ogni minaccia ed essere qualificato,
convenzionalmente, come diritto intangibile, in netta e definitiva discontinuità
con lo stato di natura.
Di maggiore pertinenza critica è invece dotata l’osservazione con cui Filangieri
spinge al paradosso, mettendone in moto l’interna dinamica, l’argomento di Beccaria:
«siccome niuno ha il dritto di disporre della propria vita, così niuno ha il dritto di disporre
[…] della sua libertà»: dunque, il «sofisma» con cui si nega legittimità alla pena
di morte «potrebbe estendersi a tutte le altre specie di pene, delle quali la facoltà
coattiva fa uso per reprimere i delitti»44. Il rilievo sembra cogliere nel segno, scoprendo
un’aporia della logica contrattualistica beccariana. Lo si può riformulare anche
prescindendo dall’ancoraggio giusnaturalistico: se gli uomini si associano per proteggere
meglio se stessi e la propria libertà, come può ammettersi la legittimità della servitù
a vita o di qualsiasi pena detentiva? «Come mai nel minimo sacrificio della libertà
di ciascuno vi può essere» la libertà personale tutta intera? Chi mai può acconsentire,
stipulando il patto sociale, all’eventualità di essere privato di quel che, attraverso il
patto sociale, intende salvaguardare?
Insomma, perché non estendere alla libertà, traendo le conseguenze logiche dell’argomentazione
contrattualistica, quanto affermato rispetto alla vita? La risposta è
implicitamente fornita da Beccaria, su un piano (non logico, bensì) assiologico: la vita
è il massimo dei beni, perciò non c’è bene superiore che possa giustificarne l’ipotetico
sacrificio. Ciononostante, l’obiezione ha incontestabilmente una sua forza e non
stupisce che compaia in più momenti del dibattito suscitato dal Dei delitti45.
3. Dall’abolizione della pena di morte all’abolizionismo
Franco Venturi, che di quel dibattito ha ordinato i più significativi documenti in
una splendida antologia46, con la sua raffinata e penetrante sensibilità intellettuale ha
saputo accedere agli strati profondi della riflessione beccariana, cogliendone lo spirito
vivificatore nella ripulsa della violenza dell’uomo sull’uomo, anche nelle forme legali
della pena.
L’esitazione di Beccaria di fronte al diritto di punire è profonda. Non solo egli prova orrore
di fronte alla violenza, alla crudeltà, ma rifiuta dal più profondo dell’animo suo ogni teorizzazione,
ogni giustificazione di esse, ripugnandogli sempre ogni utilizzazione loro da parte
degli stati, delle società, del diritto. Le sue pagine sulla pena di morte e sulla tortura nascono
da questa doppia ritrosia, sociale e personale, ad accettare il diritto stesso di punire.
710
44 Ivi, p. 192.
45 Sia prima sia dopo Filangieri negli scritti, tra gli altri, di Facchinei, Linguet, Diderot, Romagnosi
e Feuerbach.
46 F. Venturi (a cura di), Storia e dibattiti in Italia e in Europa, in C. Beccaria, Dei delitti cit.,
pp. 113-660.
È probabile che, nello scrivere queste parole, il grande storico dei lumi avesse in
mente anche la delegittimazione contrattualistica della pena capitale con le sue estreme
implicazioni: «Beccaria è […] così sulla soglia dell’utopia settecentesca, ne sente
tutto il fascino, si sente trascinato dalla sua logica». Implicazioni che dalla contestazione
della pena capitale conducevano alla contestazione del diritto penale in quanto
tale: «su quella soglia», però, Beccaria «si fermò»47.
In un libro recente48, scritto con sapienza narrativa, Raffaele Sbardella sostiene che
quella soglia fu varcata; per un attimo: dopodiché Beccaria tornò indietro. La tesi si
fonda sulla scoperta di una copia del Dei delitti affatto singolare:
Alcuni anni or sono – scrive l’autore – a Roma, sul mercato antiquario del libro, apparve,
probabilmente proveniente da Napoli, un esemplare della rarissima “quinta” edizione del
Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, la terza ed ultima da lui curata e pubblicata, stampata
a Livorno dall’editore Aubert nel 1766 col falso luogo di “Lausanna”: prima di questo
ritrovamento gli esemplari conosciuti erano, come scrive Luigi Firpo, soltanto cinque. È
dunque il sesto esemplare di un’edizione molto particolare in quanto il suo frontespizio, che
rivela per la prima volta il nome dell’autore, fu, a stampa conclusa, strappato e sostituito
con uno diverso recante il falso luogo di Harlem e nuovamente privo del nome dell’autore.
Le copie che si salvarono da questa manipolazione, imposta all’esitante Aubert dallo stesso
Beccaria, intimorito forse dalla sopraggiunta condanna di Roma, furono pochissime49.
A distinguere e a rendere unico il sesto esemplare dell’edizione Lausanna rispetto
ai cinque finora conosciuti è la «presenza in “due luoghi” del paragrafo XXVIII» di
tre note manoscritte, «due sostitutive e una aggiuntiva»50, vergate sui margini larghi
delle pagine 128 e 129, e accompagnate dai segni grafici dell’inserimento nel corpo
del testo stampato, a guisa di correzioni di bozze. Le prime due note espandono la
portata dell’argomento contrattualistico precedentemente analizzato con l’aggiunta
delle parole «e neppure di togliersi la libertà, né di ridursi alla condizione di bestia di
servigio», annesse alla frase «l’uomo non è padrone di uccidersi», e con la rettifica del
giudizio conclusivo «non è dunque la pena di morte un Diritto» attraverso la sostituzione
del soggetto e del complemento oggetto: «Non è dunque qualunque pena un
Diritto». La terza, ben più lunga, tocca un passo marginale dal punto di vista teorico:
l’indulgenza, se non addirittura la riconoscenza, con cui nel testo a stampa è valutata
la figura del boia («un innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino
che contribuisce al bene pubblico, lo strumento necessario alla pubblica sicurezza al
di dentro, come i valorosi soldati al di fuori») si rovescia, nella nota sostitutiva manoscritta,
in una severa sentenza di condanna: «è uno scellerato, che spinto dall’avidità
e dal danaro uccide freddam[ente] e spontaem[ente] un suo simile senza che alcun
dovere, o necessità l’obblighi a tanto eccesso di ferocia e d’inumanità. Tutto il contrario
è nel soldato, che il dovere della difesa della patria lo spinge ad esporre la propria
vita senza veduta di guadagno»51.
Chi intervenne sul testo con simili correzioni? Il libro di Sbardella fornisce una risposta:
Cesare Beccaria. A sostegno di questa tesi, l’autore adduce una pluralità di in-
711
47 F. Venturi, Utopia e riforma nell’illuminismo (1970), Torino, Einaudi, 1978, p. 126.
48 R. Sbardella, Beccaria/Dei/Delitti e Delle/Pene/Con/Note, con una Introduzione di L. Ferrajoli
e un’Analisi peritale di R. Caselli, Napoli, La città del sole (Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici), 2005.
49 Ivi, p. 29.
50 Ivi, p. 31.
51 Ivi, pp. 31-34.
dizi, in base ai quali propone anche una datazione dei testi manoscritti, in relazione
alla loro destinazione editoriale e alle loro caratteristiche grafiche (forma delle lettere,
ductus, e andamento generale della scrittura, textura). Ovviamente, all’origine della
congettura c’è la forma stessa delle note, che
non possono essere confus[e] con semplici postille, appunti casuali, commenti di qualche
anonimo lettore: l’intenzione che sorregge e che anima questi scritti è precisa, facilmente
intuibile, ed è l’intenzione di chi sostituendo ed aggiungendo vuole modificare il testo stampato
e trasmettere ad esso il significato di una nuova lezione. I segni grafici dell’inserimento
e i segni di chiusura dell’intervento scrittorio […], la coerenza testuale delle nuove lezioni
e il perfetto incastonamento delle nuove porzioni di testo all’interno della pagina a piombo,
sono tutti aspetti tipici di un lavoro redazionale eseguito con precisa finalità di preparare
una nuova edizione dell’opera così corretta. Ma chi poteva agire con un’intenzione così
particolare non poteva essere altri che lo stesso autore del testo stampato, una volta presa
la decisione di preparare una nuova edizione della sua opera52.
Le tracce della preparazione di una nuova edizione del Dei delitti, dopo la quinta
Lausanna-Harlem, non mancano, e una di esse, in particolare, rafforza l’ipotesi di
Sbardella. Dalle lettere di Aubert a Beccaria si apprende che già nella tarda estate del
1766, l’illuminista lombardo aveva promesso all’editore livornese una versione «di
nuovo accresciuta» dell’opera, impedendogli la ristampa dell’ultima edizione ormai
esaurita53. Alla fine del gennaio dell’anno successivo, l’impaziente Aubert chiedeva a
Pietro Verri di intercedere presso l’amico (che già però non era più tale) affinché gli
inviasse il materiale «per la nuova edizione del Delitti e pene»54. L’intenzione di Beccaria
è testimoniata nuovamente da Pietro Verri in una lettera del 23 aprile 1768 al fratello
Alessandro: «Beccaria dice che sta per ristampare il suo libro con alcune aggiunte
»55. Che l’editore potesse essere Aubert, Verri tendeva ormai ad escluderlo (non senza
qualche cognizione di causa, dati i suoi ottimi rapporti con lui)56. In effetti, per i tipi
dell’editore livornese non apparve mai una sesta edizione «accresciuta» del Dei delitti.
Invece, come attesta una lettera di Francesco Venini a Beccaria, «una nuova edizione
del bel libro» era in stampa, o forse già pronta, alla fine di novembre del 1769,
presso la tipografia dell’editore parmense Carmignani57. I dubbi sull’esistenza di questa
edizione, oggi materialmente sconosciuta, sono fugati da quanto si legge in una lettera
di pochi mesi successiva di Agostino Carli-Rubbi a Giampaolo Polesini, in cui il
mittente comunica all’amico di possedere la «bella edizione di Parma» del «Delitti e
pene […] corretta in due luoghi dalla mano propria dell’autore»58. In due luoghi: proprio
come l’esemplare Lausanna con le note a margine.
712
52 Ivi, p. 35.
53 Si vedano le lettere di Giuseppe Aubert a Beccaria del 2 e del 20 settembre 1766 in C.
Beccaria, Carteggio, a cura di C. Capra, R. Pasta, F. Pino Pangolini, vol. IV [dell’Edizione Nazionale
delle Opere], 1994, p. 386 e p. 404 (cfr. Sbardella, op. cit., p. 120).
54 Cit. in A. Lay, Un editore illuminista: Giuseppe Aubert nel carteggio con Beccaria e Verri,
Torino, Accademia delle Scienze, 1972, p. 106 (cfr. Sbardella, op. cit. p. 141).
55 Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri, a cura di E. Greppi e di A. Giulini, Milano, Cogliati,
1923, vol. I, parte II, p. 253 (cfr. Sbardella, op. cit., p. 119).
56 Cfr. ivi, p. 349 e le considerazioni di Sbardella, op. cit., p. 140.
57 Lettera di Francesco Venini a Beccaria del 28 novembre 1769, in C. Beccaria, Carteggio,
cit., vol. V, 1996, p. 76 (cfr. R. Sbardella, op. cit., p. 154).
58 Lettera di Agostino Carli-Rubbi a Polesini del 18 luglio 1770, in ivi, pp. 175-176 (cfr. R.
Sbardella, op. cit., p. 155).
Sono dunque di Beccaria quelle note? Apparteneva a Beccaria quell’esemplare del
Dei delitti? Un dato, a quest’ultimo riguardo, è significativo: nella Raccolta Beccaria,
comprendente tutte le edizioni dell’opera beccariana collezionate in vita dall’autore medesimo,
catalogate dal figlio Giulio alla fine del Settecento, ereditate nel XIX secolo da
Angelo Villa Pernice e oggi depositate presso la Biblioteca Ambrosiana, è assente l’edizione
Lausanna. L’ipotesi che Beccaria non ne abbia conservata per sé neppure una copia,
prima di ordinare la sostituzione dei frontespizi è poco verosimile: non soltanto perché,
come si è detto, egli collezionava tutte le edizioni della sua opera, ma altresì perché,
proprio in quell’edizione, compariva per la prima volta il suo nome sul frontespizio59.
Ma come accertare che la copia che probabilmente possedette e che a un certo punto
scomparve dalla sua raccolta (in un momento precedente alla catalogazione operata dal
Giulio Beccaria) sia proprio quella corretta «in due luoghi»? Una pista di indagine discende
dalla presenza, nell’esemplare del Dei delitti esaminato da Sbardella, di altri segni
manoscritti:
sul piatto posteriore, in alto a sinistra, compaiono due serie di numeri, l’una posta sopra l’altra,
evidenti segnature di due diverse collocazioni succedutesi nel tempo: la prima “24-3-4”
è racchiusa entro una cornice tratteggiata lungo il lato inferiore ma continua e volutamente
ondulata lungo i restanti lati; la seconda, “4-19-4”, vergata con tratto più sottile e in corpo
più piccolo, ma dalla stessa mano, è priva di cornice e indica verosimilmente la successiva
collocazione rispetto a quella indicata dai numeri entro la cornice. Sul dorso verso la
parte superiore compare invece una dicitura che imita maldestramente i caratteri di stampa:
Beccaria/Dei/Delitti e Delle/Pene/Con/Note60.
Con questi elementi, Sbardella si è messo alla caccia, tra i libri della Raccolta Beccaria,
di «esemplari delle altre edizioni legati in cartone grezzo sul quale fossero vergate
le segnature della collocazione e il titolo calligrafico al dorso»61. Fallito il tentativo, poiché
i volumi della Raccolta editi fino al 1794 sono ormai tutti rilegati e privi delle copertine
editoriali, ha puntato sugli altri libri della biblioteca di Beccaria, scovandone le
tracce nel Catalogo della biblioteca Villa Pernice, attualmente collocati in un fondo dell’Ambrosiana.
Neppure tra questi, tuttavia, ha rintracciato «un esemplare cartonato
provvisto di segni grafici simili a quelli vergati sull’edizione Lausanna», che sono apparsi,
invece, su una copia della Risposta ad un amico sopra le monete del marchese Carpani62
«non facente parte del fondo Villa Pernice, bensì della generale segnatura della
Biblioteca Ambrosiana»63. «Che sia appartenut[a]» a Beccaria, scrive Sbardella, «è facilmente
dimostrabile, poiché assieme all’opuscolo del Carpani è stato legato l’almanacco
redatto da Pietro Verri, Il Gran Zoroastro, sul frontespizio del quale (con grafia
che noi riteniamo essere quella di Beccaria), compare il nome dell’autore». Il cartiglio
con la collocazione dell’Ambrosiana «copre in parte l’antica segnatura vergata direttamente
sul cartone della rilegatura». Quel che si riesce a leggere è ‘.4.11’: «la grafia dei
numeri è simile a quella di Beccaria» e, sottolinea Sbardella, «sembra proprio vergato
da lui il titolo calligrafico al dorso»64.
A questo punto, però, risulta difficile seguire l’autore quando afferma di avere
«quasi raggiunto la certezza che l’esemplare dell’edizione “Lausanna” con Note era
713
59 Cfr. R. Sbardella, op. cit., pp. 43-44.
60 Ivi, p. 31.
61 Ivi, p. 45.
62 Milano, Galeazzi, 1762.
63 R. Sbardella, op. cit., p. 50.
64 Ivi, p. 51.
originariamente conservato nello studio di Beccaria»65. Se così fosse, la circostanza
avrebbe evidentemente un fortissimo valore indiziario a conferma della sua tesi. Ma il
potenziale indizio non appare accertato in modo convincente. Per esserlo, infatti, l’autore
avrebbe dovuto trovare (come in effetti ha tentato di fare) su un libro sicuramente
appartenuto a Beccaria segni analoghi a quelli presenti sul volume la cui incerta provenienza
proprietaria è l’oggetto dell’inchiesta. Invece trova quei riscontri su un volume
la cui paternità originaria è altrettanto incerta e la cui attribuzione a Beccaria è
fortemente opinabile, non soltanto perché è fondata unicamente su una manciata di
elementi scritturali, ma soprattutto perché obbliga a formulare l’ipotesi, tutta da provare,
di una «ulteriore dispersione dei libri di Beccaria all’interno della generale biblioteca
»66, cioè di un’improbabile (anche se non impossibile) osmosi tra il fondo Villa
Pernice e il fondo generale dell’Ambrosiana. Inoltre, anche ad ammettere che l’opuscolo
di Carpani sia appartenuto a Beccaria, la sua segnatura originaria, che separa
i numeri con un punto, è diversa da quella del “Losanna” con note, che separa i numeri
con un trattino.
Ad ogni modo, non è il risultato di questa indagine a costituire il piedistallo della
tesi di Sbardella, bensì l’esame stilistico/linguistico, contenutistico e grafologico delle
note manoscritte. Rispetto al primo, l’autore non ha dubbi: «la scelta dei termini, il
combinarsi metaforico tra loro, i modi di scrivere, i troncamenti, la sincope, tutto ci riconduce
al mondo linguistico e grammaticale di Beccaria»67. Rispetto al secondo, le
convinzioni di Sbardella trovano conforto in una considerazione di Luigi Ferrajoli, autore
dell’Introduzione al libro, che osserva come la terza correzione manoscritta intervenga
ad eliminare una contraddizione interna al testo stampato, ossia quella «tra la
dura condanna della pena di morte» come non necessaria, inutile e dannosa e il riconoscimento
del carnefice come «strumento necessario all’ordine pubblico»: «chi mai,
se non l’autore, può preoccuparsi di rimuovere da una testo a stampa un passo contraddittorio,
oltre tutto con la sua sostituzione con un altro passo che si inserisce perfettamente,
dal punto di vista sintattico, nel testo corretto?»68. Quanto all’esame grafologico,
la dettagliata e complessa analisi di Sbardella giunge alla conclusione, confermata
dalla perizia di Raffaele Caselli69, che a stendere le note fu la mano di Beccaria.
Se l’attribuzione è corretta, si apre, per gli studiosi dell’illuminismo giuspolitico, un
nuovo capitolo, tutto da scrivere (a partire da più approfondite ricerche documentarie
intorno alla misteriosa edizione “Parma”), della biografia intellettuale di Beccaria. Un
capitolo (alla cui scrittura reca un contributo il lavoro di Sbardella70) che potrebbe intitolarsi:
la tentazione dell’abolizionismo. “Abolizionismo”: perché è questo l’orizzonte
teorico delle prime due note, in cui l’argomentazione contrattualistica contro la pena
di morte è svolta in maniera consequenziaria fino all’esito della negazione del diritto
di punire, cioè a quell’estremo logico rinfacciato dai critici come la prova della sua
assurdità. “Tentazione”: perché, seppur Beccaria fu ammaliato dal miraggio abolizio-
714
65 Ivi, p. 53.
66 Ivi, p. 50.
67 Ivi, p. 55.
68 L. Ferrajoli, Introduzione a R. Sbardella, op. cit., p. 15.
69 R. Caselli, Analisi peritale, in R. Sbardella, op. cit., pp. 347-415.
70 Un contributo minore, invero, di quel che avrebbe potuto essere, a causa di una certa
«disinvoltura euristica». I risultati ottenuti con la tenacia del detective appaiono superiori, in
effetti, ai prodotti dell’audacia interpretativa e dell’immaginazione ricostruttiva, che «tematizzando
[…] ciò che viene a mancare nella catena reale delle conoscenze empiricamente fondate
» (Sbardella, op. cit., p. 27) conducono spesso l’autore oltre le frontiere della storiografia.
nista, non percorse mai fino in fondo la strada della teorizzazione di una società senza
leggi penali. Non lo fece e, certo, non poteva farlo correggendo il Dei delitti: occorreva
«scrivere un altro libro, del tutto diverso dal suo capolavoro»71. Quel libro, però,
non vide mai la luce e Beccaria scelse di legare il suo nome, definitivamente, all’opzione
illuministica del garantismo penale: al Dei delitti e delle pene senza note.



71 L. Ferrajoli, Introduzione a R. Sbardella, op. cit., p. 19.




Errata corrige
Per una svista redazionale, nell'articolo di Dario Ippolito, "Beccaria, la pena di morte e la tentazione dell'abolizionismo", inserito nella rubrica "Appunti e Note", sono rimaste alcune indicaizoni interne redazionali alle note 26 - 30; inoltre, alle pp. 702 - 703 un elenco alfabetico è stato trasformato, sempre per un errore redazionale, in elenco numerico, rendendo il testo poco comprensibile. Della cosa siamo profondamente dispiaciuti e ce ne scusiamo con l'autore e con i lettori.
Fausto Cozzetto
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