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Elezioni e dopo elezioni di giugno 2009
di G. G.
I risultati delle elezioni di giugno sono stati anche più sconvolgenti di quanto si prevedesse, e ciò non solo e non tanto per la loro consistenza numerica quanto per il loro significato politico. un significato – sia detto subito – che deriva essenzialmente dalla vittoria del centro-destra, considerata sia nella sua portata quantitativa che nelle sue indicazioni prospettiche.
Tra queste indicazioni sembra, intanto, configurarsi quella di un nuovo e più ampio e profondo radicamento territoriale e strutturale del partito di Berlusconi nella società e nella realtà italiana. Ciò potrebbe essere, per l’appunto, comportato dal gran numero di amministrazioni comunali e provinciali conquistate da quel partito, che delineano una diffusione geografica del suo potere amministrativo superiore a ogni altro momento precedente. Porterà questo a una trasformazione strutturale di quel partito?
Come si ricorderà, il partito era nato sulla base di un’ipotesi molto accentuata di “partito leggero”, ossia di un’ipotesi di formazione politica fondata essenzialmente sull’adesione di circoli e di associazioni, con poche strutture territoriali e verticali, molto collegato ovunque più direttamente col centro che con tali strutture e molto più portato a emergere come organizzazione elettorale viva e vitalizzata soprattutto al momento delle elezioni che nella quotidianità della lotta e del confronto politico, ma non per questo meno vitale o con minori fondamenta nella realtà politica e sociale del paese: un tipo, insomma, di formazione politica sul modello americano, e nettamente differenziato rispetto al tipo tradizionale del partito europeo.
La tradizione di Alleanza Nazionale e degli altri gruppi (soprattutto democristiani e socialisti) confluiti nel Popolo delle Libertà era diversa, era di tipo, appunto, propriamente europeo. Solo il tempo potrà dire se tra queste vecchie tradizioni il cresciuto potere territoriale del partito determinerà un equilibrio nuovo, nel senso di rafforzare la tipologia europea di partito rispetto a quella americaneggiante finora prevalsa intorno a Berlusconi, anche se la nostra impressione è che, fino a quando Berlusconi sarà in attività, le cose, se non rimarranno come stanno, non potranno neppure cambiare molto radicalmente.
Sull’ipotesi di un modello di “partito leggero”, con espliciti e dichiarati intenti di modernizzazione in senso occidentale, era nata, a sua volta, la forza di gran lunga maggiore dello schieramento di opposizione, ossia il Partito Democratico, che aveva messo in particolare evidenza questi intenti anche con l’introduzione del costume allogeno e non prima sperimentato in Italia delle “primarie”. Erano intenti particolarmente impegnativi per un partito nato dalla confluenza di tradizioni politiche fortemente, costitutivamente legate al modello di partito con forte strutturazione territoriale e verticale, quali erano quelle del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. La realizzazione è rimasta alquanto lontana dagli intenti, nonostante il rilievo assunto dalle “primarie” e tutto il rumore fatto intorno ad esse. A parere di alcuni, poi, se in una certa misura ci si è avvicinati al modello di partito dichiarato e non ben perseguito, lo si è dovuto piuttosto al declino delle antiche strutture democristiane e, di gran lunga di più, comuniste, tuttora sopravviventi malgrado le dichiarazioni di intenti, che non a una reale trasformazione degli
interiora corporis dei gruppi e delle forza confluiti nel Partito Democratico.
Se dovessimo azzardare un pronostico, magari a titolo di
divertissement in questa materia che è una grande tentazione per tutti coloro (e sono innumerevoli) che amano gli esercizi di ginnastica (diciamo così) intellettual-politica, diremmo che la via italiana alla soluzione del dilemma “partito leggero - partito pesante” porta più probabilmente a un qualcosa di mezzo tra i due tipi in questione che non a una scelta netta e definitiva tra i due, conformemente ad antiche vocazioni e tradizioni della vita pubblica e della società italiana (e conformemente anche a ciò che fin troppo spesso contraddistingue in modo creativo e originale gli italiani rispetto ad altri popoli).
Intanto, resta il fatto della larga vittoria del centro-destra. Italiani ingenui, frastornati e trascinati dalla manipolazione mediatica di Berlusconi e dalla larghezza dei suoi mezzi? Lo credano pure i molti saccenti “intellettuali”,
columnist, moralisti e tutto l’affine popolo di una presunta quanto irreale aristocrazia etico-politica. Lo credano pure (o lo dicano anche senza credervi, come si può pure comprendere) i tanti politici di mestiere, per i quali non c’è altra via per nascondere i loro fallimenti e le loro insufficienze. Ma già anche all’interno di quella presunta aristocrazia e fra questi politici non sono state poche - sia detto a onor del vero - le voci di aperto e preoccupato riconoscimento delle ragioni schiettamente politiche della vittoria di Berlusconi e di ciò che ne può fare prevedere una valenza non strettamente congiunturale e provvisoria.
Certo, ci si può consolare e cantare una mezza vittoria, notando che Berlusconi ha riportato meno voti di quanti ne avesse trionfalisticamente annunciati. Come suol dirsi, chi si contenta gode. E ci si può anche consolare esaltando i risultati del secondo turno delle elezioni amministrative come una rivincita rispetto al primo turno, ignorando che questi risultati non solo hanno confermato quelli del primo turno, ma erano largamente prevedibili, perché molti dei ballottaggi avevano luogo in zone di consolidata tradizione di sinistra, mancati al primo turno per ragioni non difficilmente riparabili al secondo turno, come, infatti, è avvenuto. Dove si vede quell’inversione di tendenza e quell’inizio del declino della destra, di cui ha parlato Franceschini, commentando, appunto, il secondo turno? Quasi che in quel secondo turno i risultati – che sono stati, comunque, quali abbiamo già detto – contassero più del fatto che si era andati al secondo turno in zone in cui fino a ieri la sinistra vinceva facilmente e largamente al primo turno.
Non ci soffermiamo per ora sulle ragioni e sul significato politico dei risultati elettorali, ai quali l’attenzione della rivista sarà intensamente dedicata nel prossimo futuro. Non possiamo, tuttavia, omettere qualche brevissimo accenno a quanto si è visto con le elezioni e dopo.
È risaltata subito, intanto, la concordanza dei risultati italiani con quelli degli altri paesi dell’Unione per quanto riguarda il nuovo Parlamento Europeo nella votazione più densa di implicazioni politiche in questa tornata elettorale. Né è del tutto sfuggito, benché sia stato, per lo più, volutamente ignorato, che il governo italiano è stato quello uscito meglio da una consultazione che ha castigato, dal più al meno, tutti gli altri governi dell’Unione. Qualcosa vorrà pur dire; e a nostro avviso il qualcosa si riporta al fatto che nel complesso la politica del governo italiano anche rispetto alla crisi mondiale in atto, il suo successo nel regolare l’afflusso degli immigranti in Italia e i suoi interventi nella questione dei rifiuti in Campania e in occasione del terremoto abruzzese hanno riscosso la sostanziale approvazione del paese. E l’approvazione – si deve cominciare a dire – anche in sede europea, con una statura evidentemente cresciuta di Tremonti sulla scena internazionale, così come – si aggiunga – è cresciuta l’immagine politica della Lega, parte essenziale del successo del centro-destra, con figure di ministri e di uomini politici come quelle di Maroni e di Calderoli in luogo di quelle, ben più difficilmente qualificabili, degli Speroni e dei Borghezio.
La Lega si è, fatta, inoltre, notare per l’avvento, che ha saputo realizzare, di una nuova classe politico-amministrativa a livello locale, legata al territorio, informata, con buone capacità espressive e argomentative, che sembra destinata a caratterizzarne non poco il futuro. Il confronto risulta particolarmente svantaggioso per il centro-sinistra, che di un simili rinnovamento ha realizzato poco o nulla (Emanuele Macaluso ironizzava poco benevolmente, su “Il Mattino” del 29 giugno, coi “quarantenni” del Partito Democratico, riunitisi a Torino per rivendicare un loro maggiore ruolo, appellandosi anche ai perduranti maggiorenti del partito, e non aveva affatto torto, deprecando che quei quarantenni non avessero ancora dimostrato, alla loro non più fresca età, di saper “salire le scale” da sé).
Quanto alla tempesta scandalistica rovesciatasi, su Berlusconi tra il primo e il secondo turno delle elezioni amministrative, notiamo innanzitutto che è davvero stupefacente come all’insorgere di questa nuova tempesta nessuno si sia più rammentato e abbia più parlato del “caso Noemi”, che aveva furoreggiato nelle settimane precedenti. Notiamo pure che, per ora, l’unico evidente risultato della tempesta è di aver portato la discussione politica italiana a uno dei livelli più bassi di cui si abbia memoria, coinvolgendo a poco a poco nel suo vortice una parte sempre più ampia del mondo politico e amministrativo, senza precisi confini di partito e, soprattutto, senza che emerga una qualche affidabile prospettiva di “soluzione finale”. Che Berlusconi abbia in ciò una responsabilità primaria e conturbante per il modo e lo stile di vita che egli pratica (e nel quale ha dichiarato di voler insistere) è fuori discussione: una responsabilità morale e politica di primaria dimensione pubblica e non giudicabile solo sul sempre opinabile piano giudiziario, che consiste anche nel proporre un più che discutibile modello comportamentale, che sarebbe tale anche se fosse accompagnato dalla totale innocenza che per esso Berlusconi ha il diritto di rivendicare.
Che questo consigli di perseguire nel tentativo e nello sforzo di liberarsi di lui per via giudiziaria è uno dei cattivi effetti, a nostro avviso, dell’ondata scandalistica di cui parliamo. È vero che alcuni autorevoli organi di stampa d’Oltralpe insistono su questi aspetti deteriori della posizione e delle prospettive di Berlusconi e su questa base ne prevedono una più o meno imminente caduta. Ma – a parte che anche importanti esponenti dell’opposizione si sono dichiarati a questo riguardo di altro avviso – il giudizio migliore ci pare lo abbia dato Fini, affermando che gli scandali o presunti tali non incideranno sulla tenuta della maggioranza, anche se possono ledere la credibilità della politica: elegante eufemismo per indicare la personale credibilità e il prestigio di Berlusconi. Giudizio pronunciato ugualmente da Tremonti, che prevede la durata del governo per tutta la legislatura. E, del resto, anche nel Partito Democratico Enrico Letta ripetendo il sopra citato giudizio di Franceschini, ha parlato di “crisi finale”, della
leadership personale di Berlusconi, non – se abbiamo capito bene – dello schieramento di destra.
Sull’esito delle elezioni e sui successivi sviluppi avremo, comunque, modo, come abbiamo detto, di intrattenerci ampiamente nel prossimo futuro. Quanto, invece, all’esito del referendum sulla riforma della legge elettorale, non crediamo affatto che la diserzione delle urne implichi un netto rifiuto degli italiani alla proposta referendaria di semplificazione del meccanismo elettorale. Crediamo che sia vero, piuttosto, il contrario, e che la diserzione delle urne vada spiegata altrimenti.
Della bocciatura referendaria si sono ovviamente rallegrati la Lega, i dipietristi, i casiniani, la pletora della sinistra esterna al Partito Democratico e gli innumerevoli cosiddetti “minori” che affollano la scena politica italiana. Non vediamo, per parte nostra, altrettanta ragione di rallegrarcene, come non ne vediamo di dolercene. È lontana da noi – non sarebbe neppure il caso di precisarlo – una qualsiasi idea di dispregio o di sottovalutazione della ricchezza di idee, di proposte, di culture, di ideali, che può essere connessa al pluralismo politico, quando la pluralità non serva a contrabbandare, come fin troppo spesso è accaduto e accade in Italia, secondo antiche vocazioni e tradizioni nazionali, modesti o del tutto meschini giochi particolaristici e personalistici. È stata proprio l’accentuazione, negli anni più recenti, di questi esiti deteriori del pluralismo a spingere all’idea, proposta nel referendum, di una drastica semplificazione del gioco politico attraverso una spinta decisiva al bipartitismo. In Italia si era tentato di regolare la conseguente frammentazione e il rischio di disgregazione politica ricorrendo a un criterio di bipolarismo. Bisogna prendere atto, però, che questo ha quasi del tutto funzionato a destra solo grazie alla forza personale di Berlusconi. A sinistra un analogo fattore aggregante è mancato.
Il bipartitismo spegne il pluralismo, si è detto. Non è vero si è replicato, del tutto a ragione, ricordando che nei paesi anglosassoni i partiti sono numerosi, anche se la competizione elettorale ne premia e ne rende protagonisti soltanto due, o al massimo tre, ma determinando certamente migliori e bene sperimentate condizioni di governabilità. Ed è qui che, a nostro avviso, sussiste la possibilità del grande compito storico e nazionale, al quale il Partito Democratico appariva e dichiarava di essere vocato: quello cioè di dare al paese una grande formazione politica riformista e riformatrice in grado di bilanciare e porsi come alternativa di fondo alla destra, piuttosto improvvisata, nata in questi anni nel paese. La quale, neppur essa, può essere sottovalutata e meno che mai disprezzata, ma che è ancora molto incerta quale potrebbe essere al di fuori del senso che ha dato e dà ad essa la guida di Berlusconi. A patto, naturalmente, di non perdersi nel gioco delle componenti, correnti, gruppi e gruppuscoli che finora vi ha imperato, come vi ha imperato il gioco dei personalismi, e in particolare il personalismo, poco mascherarabile e assai spesso poco mascherato, dei “capitani di lungo (o lunghissimo) corso”, che tuttora formano lo stato maggiore del partito. A patto che vi maturi per forza propria e non per concessione o cessione dall’alto quella classe politico-amministrativa nuova che i quarantenni sui quali ha ironizzato Macaluso hanno, tuttavia, ragione di auspicare. A patto di realizzare una formazione politica che sia non una federazione di corpi diversi e reciprocamente repulsivi, ma una reale aggregazione e sintesi della ricca molteplicità di ispirazioni e di forze che lo spazio democratico in atto o in potenza raggruppa o è o dovrebbe essere in grado di esprimere. A patto di non ritenere che la cosiddetta politica delle alleanze equivalga a una tale aggregazione o che ne riduca la necessità.
Da questo punto di vista non possiamo che trovare quanto mai opportuna l’approvazione della proposta di Franceschini di tenere il congresso alla data prevista senza rimandarlo di un anno, e cioè a dopo le elezioni regionali del 2010. Il rinvio avrebbe fatto comodo ad alcuni o a molti, a qualcosa o a più cose, ma non alla necessità urgente di definire in via meno provvisoria la personalità e la vocazione del partito e di rispondere in altro modo che finora alle domande e alle attese degli italiani. Occorre solo che non ci si perda nelle ritualità congressuali, a cominciare dale stesse “primarie”, che ormai sembrano destinate a restare stabili come momento decisionale del partito, e non ci si sperda nella discussione sulla scelta del capitano senza pensare prima, o insieme, a scegliere la rotta e senza credere che la scelta del capitano sia automaticamente anche la scelta della rotta.
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